Quando il Sabato sera diamo l’addio allo Shabbat compiamo la Havdalah. Fra le Berakhot della Havdalah vi è quella sui profumi, Borè Minè Bessamim. La spiegazione tradizionale sostiene che di Motzaè Shabbat odoriamo i profumi per compensare la perdita della neshamah yeterah, l’anima addizionale di cui siamo stati beneficiati per lo Shabbat e che ci abbandona al termine di questo. La Havdalah che compiamo a Motzaè Yom Tov, viceversa, non contempla la Berakhah sui profumi. Alcuni spiegano questa omissione con il fatto che Yom Tov non comporterebbe il dono dell’anima addizionale, ma questo argomento è controverso.
Altri danno perciò una spiegazione differente. Di Yom Tov, come di Shabbat, riceviamo sì la neshamah yeterah. Ma mentre alla fine di Shabbat essa ci lascia subito e dobbiamo compensare la sua perdita con i profumi, al termine di Yom Tov essa rimane in noi oltre la festa. La ragione della differenza sta nel fatto che parliamo di due qedushot diverse. La qedushah di Shabbat deriva dalla qedushah del S.B. e così come ce la dà Egli se la riprende. La qedushah di Yom Tov, viceversa, deriva dalla qedushah del popolo d’Israele. Anticamente era il Bet Din di Yerushalaim a stabilire il capo-mese e di conseguenza la data di ogni festa, a differenza dello Shabbat che è così stabilito ogni sette giorni dall’epoca in cui H. creò il mondo! Come dice il Salmista: ומעשה ידינו כוננה עלינו “L’opera delle nostre mani è stabile su di noi” (Tehillim 90, 17) e ha la forza di permanere nel tempo.
Ritrovo questo tema nella Parashah odierna. “H. parlò a Moshe nel deserto del Sinai nel secondo anno dalla loro uscita dall’Egitto nel primo mese (Nissan) dicendo così: ‘Facciano i Figli d’Israel il Qorban Pessach a suo tempo במועדו . Nel 14° di questo mese nel pomeriggio lo farete a suo tempo במועדו, secondo tutti i suoi statuti e secondo tutte le sue prescrizioni lo dovete fare’. Mosè disse ai Figli d’Israel di eseguire il Qorban Pessach. Essi fecero il Qorban Pessach, il 14° giorno del mese nel pomeriggio, nel deserto del Sinai. Secondo quanto aveva ordinato H. a Moshe, così fecero i Figli d’Israel” (Bemidbar 9, 1-5). Quante ripetizioni in questo testo! Troviamo la stessa prescrizione ripetuta in tre passaggi: 1) H. parla a Moshe; 2) Moshe parla al popolo; 3) il popolo la esegue. E a questo punto notiamo anche le differenze. Nel primo passaggio troviamo la prescrizione del Qorban Pessach in ogni suo dettaglio; il secondo passaggio è invece succinto, mentre nel terzo troviamo di nuovo menzionati tutti i particolari. Perché? Se si può presumere che Moshe abbia riportato al popolo le parole esatte che D. gli aveva comunicato, si può presumere altrettanta attenzione e precisione da parte del popolo nell’eseguirle senza dover tornare a ripetere in questa fase i minimi particolari!
Spiega il No’am Elimelekh che l’osservanza delle feste di cui qui si parla si colloca su due piani differenti. Esiste il momento concreto della gioia festiva, in cui mettiamo in pratica la Simchat Yom Tov ed esiste la qedushah della festa, che si protrae nel tempo oltre la festa stessa. Per questo “a suo tempo” nel versetto è detto be-mo’adò e non bi-zmannò, perché solo la parola mo’ed ha entrambi i significati: mo’ed significa “tempo” e significa parimenti “festa”. Quando Moshe parlò al popolo non riportò tutti i dettagli halakhici, perché l’accento era posto soprattutto sull’aspetto duraturo rispetto a quello contingente. Quando il popolo mise in pratica la prescrizione, invece, si ripetono i dettagli halakhici per sottolineare anzitutto che il popolo osservò Pessach con ogni scrupolo, ma il verbo “fecero” è scritto anch’esso due volte. Per ribadire che il popolo aveva colto il senso della festa anche nell’altro aspetto: il significato permanente dell’osservanza oltre all’osservanza stessa, la sostanza oltre la forma.
שלש רגלים תחג לי בשנה
“Tre feste di pellegrinaggio festeggerai per Me nell’anno” (Shemot 23,14). Le feste annuali commemorano i miracoli che H. fece per noi: ci trasse dall’Egitto (Pessach), ci diede la Torah sul Monte Sinai (Shavu’ot), ci fornì riparo nel deserto per 40 anni con le “nubi di gloria” (Sukkot). Ricordare questi miracoli “a suo tempo” è anzitutto un atto di doverosa gratitudine nei Suoi confronti. Non solo. Se effettivamente manifestiamo gioia per questo, la nostra gioia si comunicherà in Alto, risveglierà la Misericordia Divina e H. rinnoverà per noi altri miracoli di cui potremmo aver bisogno come in antico. עיני ה’ אל צדיקים “Gli occhi di H. sono rivolti ai Giusti” (Tehillim 34,16): Egli guarda come questi si comportano durante le feste e ne trae ispirazione affinché la Sua provvidenza si riversi vigile su di noi per tutto il resto dell’anno.
Impariamo da qui due principi. Il primo è che non esiste nelle Mitzwot alcuna antitesi fra osservanza e significato, fra sostanza e forma. Osservanza e significato sono le due facce della stessa moneta. L’osservanza senza il significato è priva di senso, ma il significato senza l’osservanza è vuoto. Se vogliamo che le feste abbiano per noi un significato nel resto dell’anno, qualcosa che rimanga e caratterizzi la nostra identità ebraica nel quotidiano, dobbiamo anzitutto osservare le feste nei loro dettagli e puntigli halakhici. Ma anche questo non basta e qui viene il secondo punto. Non è sufficiente un ebraismo punteggiato di pochi eventi annuali, ancorché intensi. E’ necessario un ebraismo quotidiano, vissuto attraverso lo studio e la pratica della Torah ogni giorno, affinché la nostra identità si cementi, si trasmetta ai nostri figli dopo di noi e garantisca un futuro alle nostre Comunità.