La Parashà della scorsa settimana si è conclusa con l’elenco dei doni che i principi delle tribù hanno portato in onore dell’inaugurazione del Mishkan. Tutte le tribù erano rappresentate tranne la tribù di Levi. Aharon HaKohen, vista l’esclusione della sua tribù, potrebbe aver pensato che l’esclusione fosse la punizione divina per essere stato colui che ha costruito il vitello d’oro. Anche se aveva agito per amore del Cielo, era stato comunque coinvolto, e forse D-o lo riteneva ancora responsabile a un certo livello. Tuttavia, dice Rashi, non era così. Aharon e la sua tribù erano stati esclusi, non per negare loro la partecipazione alla cerimonia di inaugurazione, ma per farli risaltare. Secondo Rashi, la mitzva di accendere la Menorà era per consolare Aharon per essere stato escluso dalle offerte volontarie portate dai principi. Ma come può essere questa una consolazione, chiede il Ramban?
I principi portavano offerte frutto del libero arbitrio, mentre Aharon era obbligato ad accendere la Menorà. Non è più bello quando facciamo qualcosa senza che ci venga chiesto di farlo, e quando non ci si aspetta nulla? Non avrebbe potuto Aharon lamentarsi del fatto che gli era stata negata la possibilità di servire D-o nel modo in cui lui voleva? In realtà, accendere la Menorà era davvero una consolazione per Aharon, perché, attraverso questa mitzva, Aharon ebbe la possibilità di insegnarci qualcosa: Le offerte frutto del libero arbitrio sono belle, ma più grande è il dono del cuore dato tramite il comando di D-o. Questo è ciò che dice il Talmud: Più grande è colui a cui è comandato di colui a cui non è comandato. (Kiddushin 32a).
Perché è così? Perché lo scopo di fare mitzvot non è solo dimostrare la nostra lealtà a D-o, ma è anche quello di trasformarci in “messaggeri” di D-o. Quando faccio un atto perché è quello che voglio fare o che ho voglia di fare, agisco per conto mio, non necessariamente per conto di D-o. Sono il messaggero di me stesso e dei miei desideri. L’accensione della Menorà è un simbolo della propria volontà di essere un veicolo per la volontà di D-o in questo mondo, e, dato che siamo chiamati nel libro di Shemot “Regno dei Sacerdoti”, possiamo vedere che è qualcosa di comune a tutti senza alcuna distinzione. Ci si potrebbe ancora chiedere: “Dov’è l’individualismo in tutto questo?” La Torà ci risponde: BeHaalotechà! Quando accendi le candele, assicurati di farlo finché la fiamma si innalza e resta accesa da sola. In altre parole, l’accensione della Menorà non è completa finché la fiamma non può reggersi da sola e non si spegnerà (Rashi).
Questa idea è accennata nell’olio d’oliva che veniva utilizzato. Un’oliva non lavorata ha un sapore poco gradevole. Se uno non lo sapesse, potrebbe pensare che l’oliva serva a poco, se non a nessuno scopo. Tuttavia sappiamo che spremendo l’oliva, si ottiene un olio giallo chiaro che può essere usato per accendere una fiamma e per portare una luce calda e brillante nell’oscurità. Lo stesso vale per il corpo e per l’anima. Il corpo è come l’oliva e l’anima è come l’olio nascosto al suo interno. “Spremi” il corpo e l’anima emerge per portare la luce nelle tenebre, la spiritualità nella fisicità. Le parole usate in ebraico per dire l’olio, ha-shemen, e anima, neshama, hanno le stesse lettere. E cosa spreme, in senso figurativo, il corpo meglio di una mitzvà? Fare ciò che il corpo si sente di fare non provoca molta resistenza da parte nostra e, quindi, non richiede molto in termini di forza di volontà per farlo. Tuttavia, eseguire una mitzvà, che spesso è contraria a ciò che il corpo vuole o ha voglia di fare, provoca resistenza. Ci vuole forza di volontà per fare quello che dobbiamo, soprattutto quando non si ha voglia di farlo. Le mitzvot e gli atti di chesed (giustizia e bontà) tirano fuori la vera anima di una persona. Questo è il motivo per il quale le persone tendono a sentirsi meglio dopo aver fatto una buona azione, anche e soprattutto quando l’hanno fatta contro voglia.
Un grande esempio di quanto siano importanti questi aspetti è rappresentato da Moshè. Anche se Moshè non è specificamente associato al chesed, questo aspetto ha svolto un ruolo importante nel suo sviluppo come Maestro del popolo ebraico. L’adempimento da parte di Moshè di ogni compito assegnatogli era possibile grazie alla sua capacità di fare del chesed. Di tutti i grandi atti compiuti da Moshè, uno passa del tutto inosservato. Il Talmud afferma che quando gli ebrei erano impegnati nei preparativi dell’esodo dall’Egitto, Moshè era altrove, coinvolto in un’altra mitzvà, impegnato a prendersi cura del bisogno di un altro. Quando Yosef stava per morire, predisse la futura redenzione dall’Egitto e fece promettere che avrebbero portato le sue ossa per la sepoltura in Eretz Canaan. Moshè cercò di mantenere quella promessa, ma recuperare la bara di Yosef era difficile perché gli egiziani l’avevano nascosta nel Nilo e nessuno sapeva dove si trovasse. Dopo aver trovato la bara di Yosef grazie a Serach, Moshè fu in grado di mantenere la promessa fatta a Yosef. L’adempimento da parte di Moshè dell’ultima richiesta di Yosef è il più grande dei chesed, perché fatto per una persona deceduta e quindi senza potersi aspettare alcun compenso.
Non possiamo essere Moshè, ma possiamo imparare da Aharon e da Moshè come fare “brillare” la nostra anima tramite gli strumenti che ci dà la Torà e tramite gli atti di chesed che possiamo fare ognuno con le nostre capacità e peculiarità. Ci troveremo ad essere persone migliori e a vivere in una società migliore.