Bambola feticcio della società dei consumi, compie oggi 50 anni
Miguel Gotor
Oggi Barbie compie 50 anni. Il 9 marzo 1959 venne presentata alla fiera del giocattolo di New York come «un nuovo tipo di bambola dalla vita reale»: bionda e con gli occhi azzurri, il nasino all’insù e la bocca a cuoricino, alta e con le gambe slanciate, il vitino di vespa ma le forme prosperose, il piedino di fata già predisposto a calzare tacchi vertiginosi.
In realtà, Barbie aveva una progenitrice «ariana», dal momento che era la rielaborazione statunitense di un modello di bambola – di nome Lilli – commercializzato in Germania nel 1955 da un’industria di giocattoli che aveva fatto fortuna vendendo soldatini sotto il nazismo. Lilli si rivolgeva a un pubblico adulto e impersonava il modello di bellezza promosso dal defunto regime hitleriano e ancora giudicato ideale dal tedesco medio di allora. Perché Lilli diventasse Barbie era però necessario che nel 1956 una famigliola americana scegliesse di trascorrere le vacanze nel cuore della vecchia Europa, in Svizzera. Erano Elliot Handler, proprietario della Mattel, un’azienda che produceva mobili per case di bambole, e sua moglie Ruth, figlia di genitori ebrei. Davanti alla vetrina di un negozio di Lucerna, la donna vide Lilli, anzi sei Lilli differenti, con visi e capelli identici, ma ciascuna abbigliata con una tenuta da sci diversa dall’altra. Ne rimase folgorata. E così scoccò la scintilla imprenditoriale che fece importare negli Usa un prodotto «ariano» grazie a una donna di origine ebraica del tutto inconsapevole della derivazione cripto-razziale di quella bambola.
Da allora si calcola che siano state vendute oltre un miliardo di Barbie in giro per il mondo. Un successo inarrestabile che racconta un modello estetico di femminilità ideale, al quale la storica Nicoletta Bazzano ha dedicato un bel libro che ne ricostruisce origini e sviluppi nel tempo (La donna perfetta. Storia di Barbie, Laterza 2008, pp. 163, e14).
Ma quali sono le ragioni di questo successo, ossia dell’operazione dei coniugi Handler? Anzitutto, sul piano psicologico, Barbie è una donna e non il solito bebé da accudire. Ma, a differenza di Lilli, si rivolge ai bambini che, in un certo senso, aiuta a diventare grandi, facendoli confrontare con una propria madre in miniatura. Inoltre, dal punto di vista socio-antropologico, Barbie è un manichino ideale e la genialità della Mattel fu di puntare su un’estetica dell’accessorio che la trasformò in un feticcio della società dei consumi, quello che Roland Barthes avrebbe definito un «mito d’oggi». I vestiti e gli accessori all’inizio servirono a coprire le sue forme prorompenti, ma poi divennero un pilastro dell’intera operazione commerciale. A questo proposito è significativo che nel 1968 venne commercializzato un modello di Barbie in grado di pronunciare sei frasi emblematiche, fra cui: «Mi piace fare la modella», «Cosa devo indossare per la festa?», «Vuoi andare a fare compere?». Insomma, quando Barbie apre la bocca è solo per confermare il suo compulsivo orientamento verso i consumi, peraltro ribadito in ogni confezione da un piccolo catalogo che illustra le nuove creazioni stilistiche.
Naturalmente, un simile oggetto era destinato a seguire le altalenanti fortune del mercato capitalistico, e così gli anni Settanta furono un periodo di difficoltà anche per Barbie. Da un lato, perché la crisi economica corrispose a una stretta dei beni voluttuari di cui Barbie era l’icona; dall’altro, per le critiche femministe che videro in lei il prototipo della donna oggetto. Ma la strategia della Mattel, ancora una volta, fu di eccezionale abilità: abbassò i costi della bambola, semplificò gli abiti e guidò la transizione del prodotto da un consumismo di fascia medio-alta a uno popolare. E soprattutto avviò strategie di fidelizzazione del cliente-bambino con la «Biblioteca» e i «Club» di Barbie, attraverso l’espediente della posta personalizzata. Con la ripresa economica degli anni Ottanta, la bambola divenne un agente di modernizzazione, promuovendo la democrazia fra i sessi nel mondo del lavoro: se nei primi anni di vita Barbie aveva al massimo svolto mestieri femminili come l’hostess o la baby sitter, in seguito si trasformò in donna d’affari, astronauta, medico, sommozzatore, pompiere e quant’altro: tutto debitamente accessoriato.
Nel 1980 esordì la prima Barbie nera, all’assalto di nuove fasce di mercato. Fino a diventare, nel 1986, un’icona della Pop Art che non poteva sfuggire al genio di Andy Warhol, abituato com’era a riflettere sul rapporto tra consumi di massa e democrazia politica, tra libertà individuale e mercato. Non a caso oggi la vendita della «bambola ebrea Barbie» è proibita in Arabia Saudita e in Iran in quanto è «il simbolo della decadenza del perverso Occidente». La storia di Barbie, in fondo, è una metafora della feroce vitalità del capitalismo, della sua capacità di adeguarsi ai cambiamenti del mercato come un camaleonte rosa in grado di rigenerarsi e di mutare colore nei momenti di crisi. Forse è per questo motivo che, al giro di boa dei cinquant’anni, Barbie appare come una signora di mezza età un po’ acciaccata, bisognosa di un profondo intervento di restauro, eppure l’aspettiamo fiduciosi al prossimo anniversario. Intanto, buon compleanno.
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