Presentazione del libro: Martedì 6/7 a Milano. Ispi, via Clerici 5 alle 20.45.
Il sequestro dell’ebreo Halimi in un campo di concentramento fatto in casa, l’indifferenza della Francia, il dolore di una madre che parla
Alessandro Schwed
Finalmente esce in Italia per Salomone Belforte, antica casa editrice ebraica, il libro che racconta uno dei pi atroci casi del presente antisemita: 24 giorni, la verità sulla morte di Ilan Halimi. Quasi un diario postumo del rapimento, narrato dalla madre di Ilan, Ruth, ebraica mater dolorosa, la cui voce è rielaborata con discrezione da Emilie Freche. Ne esce un racconto in prima persona del rapimento del figlio, della sua disumana prigionia, della ferocia delle trattative.
20 gennaio, 13 febbraio 2006: ventiquattro giorni in cui Ilan vive nell’appartamento-mattatoio di un gruppo di orchi metropolitani che battono bandiera nazi-islamica, che leggono documenti di Hamas, sono in cerca di soldi facili e facile sangue juive. Intorno, una Francia inerte e complice- mente sorda. E allora, c’è Ilan, sefardita parigino di ventitré anni, la famiglia di origine marocchina e di modesta condizione. Vivono in tre stanze di un quartiere popolare misto dell’est parigino. Lui fa il commesso in un negozio di telefonia della banlieue, sul boulevard Magenta. La banda di rapitori lo individua come ebreo, dunque un ricco da sequestrare. Lo sceglie dopo un tentativo analogo e a vuoto con un altro ebreo, dunque ricco e da sequestrare anche lui, che fa il commesso nello stesso negozio.
Scatta il sequestro. Una bella ragazza bruna travestita da cliente entra nel negozio e prende al laccio Ilan. Ne scaturisce un appuntamento. Si incontrano di sera, a un bar. La ragazza dice di andare da lei per un ultimo bicchiere. Lasciano la macchina vicino alla facoltà Jean Monnet, a Sceaux. Camminano nel parco dell’edificio universitario. Si saprà che a un certo punto lei pronuncia la parola chiave e dai cespugli sbucano tipi col passamontagna, e saltano addosso a Halimi. Il sequestro ha inizio. Sono ventiquattro giorni di inutili trattative. La famiglia è povera, la polizia contraria a trattare e convinta di intrappolare i rapitori. Il ragazzo intanto è in manette, la bocca incerottata. Poi nudo, con profondi tagli di coltello sul volto, nutrito con una cannuccia; fotografato simulando una violenza col manico di una scopa, in modo da terrorizzare la famiglia.
Da ultimo, il capo-banda Fofana lo mette in un sacco e lo porta in un bosco. Qui lo accoltella ripetutamente, recide la carotide, inonda il suo corpo con una tanica di benzina, lo dà alle fiamme. Pare che Ilan avesse gli occhi scoperti e lo fissasse. Il corpo testardamente in vita viene lasciato lungo dei binari. Prima di questo, una distrazione di ventiquattro giorni: la sordità del grande condominio dove si trova la prigione di Ilan, l’apatia della polizia, l’incomprensibile negazione dell’evidenza da parte della procura, la smisurata assenza della classe politica. Da ultimo, la cronaca al silenziatore dei media, che raccontano la morte di Ilan come un normale episodio di cronaca nera, alla stregua di un pieno di benzina, finito invece che in una macchina sopra il corpo di un ebreo marocchino. Cose di tutti i giorni in una megalopoli e ognuno e tutti, lo stato e i media, tesi a smorzare lo sputtanante orrore nel cuore del paese.
I rapitori sono la cosiddetta Banda dei Barbari, originari della Costa d’Avorio. Vestono trendy, da rapper, come in un fumetto iperrealista. Al processo, conclusosi con l’ergastolo al capobanda Youssouf Fofana, l’omicida entra in aula urlando che Allah vincerà. Alla domanda di prammatica di quando e dove lui sia nato, l’imputato risponde ieratico di essere nato nel giorno e nel luogo dell’omicidio: Il 13 febbraio 2006, a Sainte Geneviève-des-Bois . Se da una parte il rapimento di Ilan traccia il profilo di un antisemitismo tribale per cui gli ebrei sono Israele e Israele gli ebrei, e tutti gli ebrei da abbattere, dall’altra il sequestro di alimi avviene in una inquietante assenza del potere politico e mediatico, paurosamente girato da un’altra parte, mentre gli ebrei lasciano la Francia.
I pacifisti negano che tale fenomeno sia in atto, dicono che è una menzogna lanciata da Ariel Sharon e da lui ritirata (ti pareva non fosse colpa sua anche questo). Ma se uno si legge il libro e come si sviluppi la continuata assenza di indagini vere sul rapimento di Ilan, il clima corrisponde esattamente a una situazione dove esistono due giungle sovrapposte, in mezzo alle quali vivono, credo con una certa apprensione, gli ebrei francesi: da una parte una giungla antisemita con aggressioni islamiste a chi porta la kippà, poi le sinagoghe imbrattate e talora incendiate, i cimiteri violati; dall’altra la giungla di uno stato semigirato da un’altra parte, sospettabile di reticenze e manipolazioni.
Andiamo al punto, il caso raccontato nel libro su Ilan. Intanto, nel corso di quel rapimento i criminali già denunciati per tentati sequestri di altri cinque ebrei e niente affatto indagati quanto al rapimento di alimi, passeggiano spudoratamente impuniti nel quartiere dove tengono il prigioniero; secondo, appena emerge che Ilan è ebreo, ma ci vogliono tre giorni, il comandante della polizia minimizza il possibile movente antisemita con l’umile famiglia nordafricana, masticata da un razzismo al cubo, sia tribale che educatamente locale. E da questo inizio, vediamo la solitudine ebraica di una famiglia ebraica di origine marocchina fragilità nella fragilità. Tra gli psicologi della polizia, i commissari, i magistrati, nessuno fa alcunché.
E’ sciopero generale contro gli umili. E dunque, che gli ilami siano ebrei, è giudicato ininfluente. Nella vantata società multietnica francese, gli ebrei sono ombre, gli ebrei marocchini, ombre di ombre. Esagerazione? Vediamo l’indagine, dettagliatamente descritta dal libro: la polizia sa che poco tempo prima i rapitori di Ilan hanno tentato, a Parigi, non in Alaska, analoghi sequestri di medici ebrei, adescati anche loro da donne che conducevano le vittime dai rapitori l’indizio, macroscopico, è ignorato come se negli archivi non esistesse una memoria delle indagini, i nomi dei criminali. Eppure, a suo tempo, la polizia ha schedato i criminali, esistono foto segnaletiche, c’è una denuncia nei loro confronti, la magistratura li indaga. Non basta: a causa dei tentati sequestri ebraici precedenti, dicasi ebraici, i rapitori di Ilan sono stati recenti ospiti nelle celle dei commissariati dove la loro detenzione non è ricordata, e infatti non si sa a cosa servano gli schedari. Non basta ancora: quando ha inizio il rapimento di alimi e vengono disegnati gli identikit, prima quello della donna adescatrice, poi del messaggero che invia tutte le sgrammaticate email sempre dai numerosi internet bar del quartiere (la prima, sadicamente firmata col cognome sacerdotale di Cohen), gli identikit non sono mai trasmessi ai commissariati locali; né avviene un riscontro sulle liste-viaggiatori delle compagnie aeree che operano tra Parigi e la Costa d’Avorio, da cui provengono le chiamate del capo-banda su un cellulare pubblico di uso comune in quel paese.
Sarebbe bastato, penserà la madre di Ilan nel doloroso dopo, vagliare le liste dei viaggiatori e il cognome di Youssouf sarebbe emerso: piccolo criminale, accento africano, vive a due passi, è schedato. Questo sarebbe bastato, pensa Ruth, e adesso suo figlio sarebbe vivo. Invece, mentre le trattative si prolungano goffamente inutili, allo scopo mai raggiunto di intrappolare i rapitori, per venti giorni Ilan è nel mattatoio con il corpo a disposizione degli orchi. Fa freddo, e viene tenuto nudo. E’ stato totalmente rasato – cioè privato di identità. Gli occhi e la bocca sono incerottati. E’ coperto dita- gli, inciso come i cadaveri alla facoltà di medicina, solo che è vivo. Nel grande condominio di Parigi, i rapitori sono a proprio agio. Grazie a un accordo col portiere in cambio di qualche migliaio di euro, sono installati in un appartamento vuoto. Qui, di giorno e di notte, in mezzo a centinaia di inquilini, Ilan viene sfregiato, gli spezzano le dita. E sulle scale, in ascensore, nessuno sente.
Più tardi si verrà a sapere che le grida erano altissime. Intanto, probabilmente, la funzione reale della polizia non è trovare Ilan, ma insonorizzare l’accaduto e gestire la semplicità di una povera famiglia marocchina. Lungo le tre settimane, i due psicologi della polizia messi per fini pedagogici alle spalle del padre di Ilan – sempre al telefono coi rapitori dirigono la trattativa come un ventriloquo che dia la voce a un pupazzo. Il solo fine, gli ripetono robotici, è che i sequestratori riconoscano chi è il più forte, e lui, ammaestrano, è chiaramente il più forte. E ci , sino a smarrire la sola esigenza della famiglia che il ragazzo rimanga vivo. Infatti, morrà. E grazie al protrarsi della trattativa a vuoto, morrà in una lunga macellazione progressiva. Quanto alla matrice ideologica del sequestro non è antisemita, spiega il procuratore della Repubblica ai familiari di Ilan, in una demenziale lezione a degli ebrei su cosa sia l’antisemitismo i quali familiari nel frattempo non solo ricevono dai rapitori decine di email antisemite, ma sentono al telefono le urla di Ilan a cui viene bruciata la pelle, mentre una voce recita versi del Corano. I rapitori, spiega kafkianamente il funzionario, non possono essere antisemiti dato che si trovano al grado zero del pensiero.
Questo leggiamo, domandandoci se allora i nazisti non si siano resi conto di che stessero facendo perché leggevano troppo. Eppure, è così: nella città dove il popolo ha assaltato la Bastiglia in nome di una società pi giusta, regna il fallimento della Storia. Tutto questo ci parla. E’ come se l’uscita italiana del libro, nella sorvegliata traduzione di Barbara Mella, Elena Lattes e Marcello Hassan, sia reclamata dall’urgenza della cronaca antisemita dopo il boicottaggio delle Coop, dopo l’incidente della flottiglia e la successiva perdurante aggressione antiebraica di media e pacifisti , che ristagna nei social forum della rete, al grido di voi ebrei , genocidi e, naturalmente, nazisti . In realtà, oltre alla realtà delle indagini a vuoto della polizia, alle trattative a vuoto coi rapitori, oltre a Ilan, ostaggio dei criminali, oltre ai suoi cari, anche loro come ostaggi ma della polizia la quale non indaga, non vuole che si tratti e ha la pretesa di far fallire la trattativa oltre dicevo a questa desolazione, si vede il pericolo di essere ebrei in una città francese che potrebbe essere olandese o tedesca: con gli ebrei attaccati perché girano con la kippà, le sinagoghe imbrattate, e talora date alle fiamme, i loro cimiteri profanati.
E se qualcuno pensasse che siamo di fronte a un crimine antisemita osserva Bernard-Henri Lévy in un suo veemente articolo apparso sul Corriere della Sera nel luglio 2009, poco prima della sentenza (articolo posto in apertura del libro) questo qualcuno bada solo a togliersi l’idea dell’antisemitismo da davanti agli occhi. Eppure, come nel corso di una guerra invisibile di cui si sente il rombo, tali possono essere le condizioni ebraiche nell’Europa multietnica.
Giulio Meotti del Foglio scrive nella sua nitida introduzione che Ilan alimi fu prigioniero in un campo di concentramento fatto in casa. E nelle prime pagine, Pierluigi Battista, editorialista del Corriere, ricorda un episodio di qualche anno fa, quando il ghetto di Roma fu messo sotto assedio da una manifestazione filo-palestinese in cui dei manifestanti si erano camuffati da martiri , con finte cinture di esplosivo. … Cordoni di polizia erano schierati a difesa degli ebrei (…) il valore simbolico dell’assedio a quelle stesse case che avevano conosciuto l’infamia del rastrellamento e della deportazione del 16 ottobre del 43, passa quasi inosservato. Quella volta, confesso, un po’ mi vergognai di essere italiano . Di questo, parla 24 giorni : della saldatura strisciante tra l’occidente e la società multietnica, contra iudeos: alleanza tra islamismo e media, islamismo e un quartiere, tra un mondo che elettoralmente pesa e la polizia, il governo, le istituzioni. alimi non è stato semplicemente sacrificato da una banda nazi-islamica, nel cuore del XIX arrondissement: è morto in piena Francia, senza che nessuno ci facesse caso.
Quanto ai media, a una certa omertà sociale verso l’islamismo, ci viene in soccorso un suggerimento su Facebook di Vanni Frediani, da Israele, che rielaboriamo così: la casta culturale e politica che per anni ha utilizzato l’esistenza dell’Urss come contrappeso generale alla visione americana oggi ha intimamente sostituito l’Urss con l’Iran. Tale è la vertigine del mondo alla rovescia. Tuttavia non basta. Il libro scoperchia la verità quando i rapitori interpellano un rabbino perché trovi i 450.000 euro del riscatto con l’aiuto della comunità ebraica. Allora, il rabbino racconta, senza fare i nomi, un analogo caso di sequestro ebraico, risolto in modo incruento, probabilmente grazie all’esborso del riscatto. E la verità esplode come una polveriera con la semplice domanda su quante volte sia accaduto in modo sommerso e impaurito ad altri ebrei francesi di vivere pressioni, ricatti, oltraggi mai confessati o venuti a galla, nella Francia degli ultimi anni la Francia, dico, la nazione da cui gli ebrei stanno andandosene nel silenzio d’Europa dove molti dicono che non è vero, gli ebrei francesi stanno benissimo. Quando giunge l’ora tremenda di Ilan Halimi, la madre, Ruth della Francia ebraica, si sveglia nella notte con un soprassalto. Il cuore le tambureggia la verità: il suo agnello è stato sacrificato. Fuori, il silenzio della megalopoli è un potere occulto.
Quando la banda abbandona il covo perché arrivano i veri inquilini, e a notte fonda deve traslocare a qualche centinaio di metri, e per le strade si snoda una placida processione che in un sacco reca in spalla il corpo tagliuzzato di Ilan, Parigi dorme. Il branco passeggia per la periferia deserta, Ilan viaggia gettato in spalla al capo degli orchi. Sono le quattro del mattino, e dalle finestre, dagli incroci, da una macchina che sarà pure passata, nessuno vede niente. Così come nessuno vedeva che dalle ciminiere di Auschwitz uscisse cenere o sentiva come l’aria fosse satura di quell’odore. L’ignoranza dei fatti non venne esibita durante il nazismo, ma dopo.
Quando tutti sentimmo dire: non sapevo. Era la solita distrazione. E dato che per Ruth i ventiquattro giorni del rapimento dureranno tutta la vita, vorremmo farle un poco compagnia. E con lei riconsiderare i fatti attraverso quelle sue domande sempre pi stanche e senza risposta; e come lei ha dovuto aspettare il momento fatale, quasi passivamente, in taluni momenti anche a noi sembra che siamo qui ad aspettare una sconosciuta ora nefasta. 24 giorni, la morte di Ilan Halimi è un libro-bomba a orologeria, leggiamo e intanto il contenuto sta per scoppiare.
Tuttavia. La mattina del 13 febbraio 2006, a scorgere il corpo di Ilan che rantola lungo la ferrovia dove è gettato come una lattina vuota, è una donna francese di colore che si ferma mentre sta andando in macchina a lavorare. Telefona alla polizia, sta con Ilan che in un certo senso è vivo. Gli tiene compagnia sino all’arrivo dei soccorsi. Nel mondo non c’è solo odio.
Il Foglio – 4/7/2010