La chiacchierata fra il grande collezionista e Philippe Daverio al Ducale. Cinquant’anni di arte e politica con verve tutta surrealista
Giulio Nepi
83 anni portati con la verve di un ragazzino: è Arturo Schwarz, “poeta, editore, studioso del pensiero orientale, surrealista, amico di Breton e Duchamp”, come lo ha descritto Philippe Daverio in un’appassionata e divertente intervista “senza rete”, ieri, martedì 30 gennaio nel Salone del Minor Consiglio di Palazzo Ducale. Il conduttore di Passepartout confessa un’amicizia lunga più di quarant’anni: «traducevo per lui i cataloghi dal francese all’italiano», ricorda, ««avevo 16 anni quando conobbi Arturo. La sua galleria per me è stata il luogo dell’iniziazione».
Ai tempi Schwarz si faceva chiamare Tristan Sauvage, era un surrealista militante («lo sono ancora», sottolinea lui) e fu tra i primi a portare in Italia personaggi come Arman o Spoerri. Dalla sua Libreria Galleria Schwarz sono passati quasi tutti i nomi più importanti del surrealismo e del dadaismo del dopoguerra. «In quegli anni i mercanti d’arte erano degli intellettuali», ricorda Daverio, «intendevano lo scontro capitalista come un’evoluzione dello scontro intellettuale».
Schwarz si schermisce: «sono stato forse il peggior mercante della storia. Quando ho acquistato arte era sempre e soltanto perché mi ero innamorato dell’opera. E allora non ne consigliavo mai l’acquisto perché non volevo separarmene». Ma che cos’è allora l’arte, per Arturo Schwarz? «Deve avere tre requisiti: innanzitutto deve essere il frutto di una pulsione irrefrenabile dell’artista. Poi deve allargare il nostro orizzonte mentale e visivo. Infine deve emanare la cosa più importante del mondo: la poesia».
E oggi? Cosa ne pensi, stuzzica Daverio. «Da quando ho chiuso la galleria, vent’anni fa, ho smesso di interessarmi al mercato. Ma posso dare un suggerimento sempre valido: mai comprare gli artisti alla moda». Daverio rilancia, ricordando come negli anni ’60 andasse di moda l’Ecole de Paris e Bernard Buffett: «con un Buffett quanti disegni di Duchamp avrei comprato allora?». «Cinquecento», risponde Schwarz. «E oggi?», provoca Daverio. «Un cazzo di niente!», ride Schwarz, facendo un po’ arricciare il naso al pubblico del Ducale.
Poi racconta la travagliata vicenda della sua collezione. 1200 opere valutate complessivamente 500 milioni di dollari, che Arturo voleva regalare all’Italia. «L’allora ministro Bono Parrino mi mandò una lettera di fuoco chiedendomi come osassi proporle queste opere “pornografiche e sovversive”!». Schwarz allora contatta il Museo di Gerusalemme, che accetta immediatamente. Fortunatamente in Italia i governi cadono con una certa frequenza, e con l’arrivo di Alberto Ronchey riprendono le trattative. Che saranno lunghissime: «ogni volta che si arrivava ad un accordo cadeva il governo e bisognava ricominciare da capo», ricorda. La storia giunge alla fine con Veltroni: una parte della collezione finisce a Gerusalemme, una parte alla GAM di Roma.
Già, la politica. Un’altra delle grandi passioni di quest’uomo energico e allegro («nel 1948 rischiai di venire impiccato per aver fondato la sezione egiziana dell’Internazionale Trotskista», ricorda), che gli viene dalla tradizione ebraica: «una nostra caratteristica tipica è di discutere ogni principio di autorità».
Anche le autorità di lobby, precisa Daverio. Che non si risparmia una frecciata a Cattelan. «il papa sotto il meteorite una provocazione? A Londra, la città più antipapista del mondo? Ma via, mettici la regina Elisabetta, se vuoi provocare. Oppure l’Ayatollah Khomeini, se hai coraggio». Schwarz annuisce: «la provocazione in sé va anche bene, ma perché tu artista devi propormi il peggio dell’oggi? Proponimi il meglio, non il peggio. Provocami con quello. Facile, sennò».
GENOVA, 31 GENNAIO 2007
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