Storie di ebrei torinesi
Intervista di Bruna Laudi
Ariel Disegni è stato medico di base per circa quarant’anni e dopo il pensionamento del dottor Marcello Tedeschi è subentrato a lui come medico alla Casa di Riposo ebraica. Chi lo conosce sa che è una persona molto riservata e di pochissime parole: è dotato di un’ironia pungente che usa anche con se stesso e, quando fa le sue brevissime battute, assume un’espressione particolare che, personalmente, ho sempre trovato molto divertente. La premessa per dire con quanta difficoltà mi sono accinta a dismettere i panni della vecchia cugina conosciuta da una vita e assumere quelli dell’intervistatrice seria e compunta: ci siamo comunicati il reciproco imbarazzo e abbiamo cominciato.
Cosa ha determinato la tua scelta di studiare medicina, visto non ci sono precedenti nella tua famiglia?
Inizialmente ero indeciso tra diversi percorsi di studio, poi mi sono orientato verso la medicina, appassionandomi sempre più: presi la decisione di specializzarmi in medicina interna perché secondo me è la più completa ed ha un più largo raggio di azione. Nonostante il pensionamento continuerò a tenere aperto lo studio e a lavorare privatamente.
In questi anni ci sono state molte riforme nella sanità, come è avvenuto per la scuola?
Le riforme importanti sono state quelle che risalgono ormai a più di 40 anni fa: nel 1978 fu istituito il Servizio Sanitario Nazionale, un sistema di strutture e servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, in attuazione dell’art.32 della Costituzione. Successivamente ci sono state altre riforme, come quella inerente alle competenze delle regioni in materia sanitaria. I vari interventi legislativi hanno apportato alcune modifiche al nostro modo di lavorare, ma non stravolgimenti assoluti.
La tua formazione ebraica ha influito sul tuo modo di essere medico?
Non credo: ho intrapreso la carriera come medico indipendentemente dal fatto di essere di religione ebraica, di essere osservate o meno e non è che questo in particolare abbia influenzato il mio modo di essere medico. Naturalmente la grande maggioranza dei miei pazienti sapevano delle mie radici ebraiche e ho avuto tantissimi pazienti iscritti alla Comunità e, dopo il ritiro del dottor Marcello Tedeschi, sono diventato medico della Casa di riposo ebraica.
La contiguità della casa di riposo con la Comunità favorisce un migliore inserimento degli ospiti?
Mia madre è stata ospite della casa di riposo negli ultimi anni della sua vita e ricordo che lei si trovava molto bene perché aveva più possibilità di socializzare e di vivere la vita comunitaria cui era molto legata.
Quindi il contatto diretto con la comunità ha sicuramente un valore positivo ma la situazione è cambiata molto negli anni: quando ho cominciato a lavorarci l’accesso era riservato esclusivamente agli iscritti alla Comunità. poi via via il pubblico ebraico è diminuito. Prima si è aperta ai coniugi non iscritti alla comunità e, successivamente, è diventata Presidio Territoriale di Accoglienza, per cui gli ospiti ebrei sono diventati una piccola minoranza. Sono stati fatti grandi lavori di riorganizzazione interna degli spazi e, a parte i disagi subiti nella fase di ristrutturazione, adesso gli ambienti sono sicuramente più confortevoli.
Le restrizioni dovute al Covid hanno inciso molto sulle relazioni affettive dei pazienti degli ospedali e degli ospiti delle case di riposo. Cosa pensi al riguardo?
Sicuramente sono scelte dolorose ma ricordo che durante la prima ondata la Casa di riposo di Torino è stata una delle primissime, quando ancora non si parlava di chiudere alle prime avvisaglie, a impedire gli ingressi a tutti gli estranei, tanto è vero che durante tutta la prima fase della pandemia nessun paziente e nessun dipendente della casa di riposo si è ammalato: è stato fatto un monitoraggio con tamponi regolari, io stesso ne ho subiti almeno sette. C’è stato qualche caso isolato, per fortuna nessuno fatale, nella seconda fase della pandemia, quando si erano un pochino allentati i cordoni. Per parecchi mesi nessun parente era ammesso, entravano rigorosamente solo i dipendenti con tutte le precauzioni del caso, cioè camice, doppia mascherina, calzari, guanti, occhiali: eravamo bardati come astronauti, entravamo solo noi e nessun parente era ammesso. Ovviamente questo ha influito negativamente sul morale dei pazienti, soprattutto quelli più lucidi e consapevoli. Queste precauzioni sono state salvifiche perché, ripeto, nessun ospite, a differenza di quello che è successo in tante RSA, ha perso la vita a causa del Covid.
Dal tuo punto di osservazione come vedi il futuro, rispetto alla pandemia?
Se tutti si vaccinano sono abbastanza ottimista, perché tutti quelli che sono vaccinati e che hanno già ricevuto la doppia dose hanno una probabilità di morire o di finire in ospedale estremamente bassa. Diverso il discorso per quelli che non hanno voluto o non hanno potuto vaccinarsi. Sinceramente non capisco le resistenze da parte di medici e paramedici, perché veramente è dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, il beneficio del vaccino che attualmente rappresenta l’unica strada per poter uscire da questa pandemia: non ci sono altre possibilità, se non vogliamo essere costretti a vivere per i prossimi dieci anni come nell’ultimo anno e mezzo.
Pur essendo molto presente nella vita della comunità di Torino, non mi risulta che tu abbia mai rivestito incarichi particolari. Come mai?
Da giovane ho fatto parte del Consiglio della FGEI ma negli anni gli impegni professionali mi hanno imposto delle scelte: credo che, per esempio, essere nel Consiglio della Comunità richieda un impegno assiduo, incompatibile con i miei ritmi di vita e avrei reputato poco serio offrirmi per incarichi cui non avrei potuto dedicarmi per il tempo necessario. Attualmente sono consigliere nazionale dell’Associazione Medici Ebrei in Italia. L’AME tratta di problematiche di etica ebraica legata a questioni sanitarie e di tematiche di attualità: per esempio, durante la pandemia, abbiamo raccolto dei fondi con i quali abbiamo comperato degli orologi di tecnologia israeliana che, applicati al polso di pazienti che hanno delle problematiche cardiache, pressorie o di genere analogo, permettono di tenere sotto controllo il paziente. Praticamente trasmettono a una centrale tutta una serie di parametri: dalla frequenza del battito cardiaco alla misurazione della glicemia ad altri parametri fisiologici per cui si è in grado soprattutto di monitorare pazienti anziani che vivono soli. Per ora siamo potuti intervenire su dieci pazienti che verranno seguiti gratuitamente almeno per il primo anno; poi ci sono state altre iniziative nelle scuole ebraiche, soprattutto di Milano e di Roma, dove c’è più personale iscritto all’AME, per fare dei tamponi agli studenti all’inizio dell’anno scolastico.
L’AME ha preso posizione su tematiche etiche, come per esempio il Testamento Biologico?
All’interno dell’associazione si discutono le varie tematiche alla luce della normativa ebraica, sono stati organizzati vari convegni con partecipazione di studiosi su temi dell’etica ebraica e la discussione è sempre aperta: ultimamente ci sono stati pochi incontri per via delle restrizioni dovute alla pandemia. Recentemente si è dibattuto nel consiglio sul problema del brit milà (circoncisione rituale), se cioè doveva essere consentito o meno che continuasse ad essere praticata anche da non medici come avviene frequentemente, anche perché i medici ebrei in Italia che praticano la milà sono molto pochi. La legislazione lo vieta in molti stati europei: l’Italia per ora lo ha tollerato. Però anche qui all’interno dell’AME ci sono posizioni più o meno rigorose. Personalmente ho assistito a interventi eccellenti da parte di mohalim bravissimi anche se non medici e, a volte, a interventi discutibili eseguiti da medici.
Ancora sul rapporto tra te e la Comunità di Torino: mi risulta che tu non appartenga a nessuno dei gruppi che si sono creati in questi anni anche come conseguenza di lacerazioni passate.
Personalmente ho avuto sempre le mie idee sulle varie problematiche che si sono presentate ma non mi piace l’idea di “appartenenza” a un gruppo piuttosto che a un altro, quando poi le finalità sono comuni: è possibile convivere anche se non si è sempre d’accordo.
Non ho altro da raccontare, sono assolutamente riservato, non sono sui social, non condivido immagini della mia famiglia.
Non ho altre domande “ufficiali” e la conversazione si conclude con uno scambio breve di battute tra nonni…