Nel 1943, quando iniziò a circolare e a trovare conferme la notizia dell’attuazione, da parte dei nazisti, di quello che il loro linguaggio burocratico designava come Endlösung der Judenfrage, ossia lo sterminio di tutti gli ebrei europei, Hannah Arendt, dal suo eremo americano, pubblicò sulla rivista newyorchese degli esuli ebrei, Aufbau, un saggio su Stefan Zweig e sul mondo di ieri, ovvero il mondo dei sogni e delle illusioni del cosmopolitismo borghese e della zivilisation tedesca.
Zweig era stato un beniamino dell’Austria felix, uno dei suoi scrittori più letti e amati. Quello dei kaffeehaus e del Prater non era solo un mondo colmo di ottimismo razionalista, ma anche di nevrosi, di misteri, di splendide voluttà e inquietanti ansie. Era il mondo di Egon Schiele e Oskar Kokoschka, di Sigmund Freud e Gustav Mahler, di Ludwig Wittgenstein e Karl Kraus, di Robert Musil e Franz Kafka, di Elias Canetti e Alma Mahler. Un cosmo ombroso dove le eresie intellettuali non solo erano tollerate ma addirittura incoraggiate e scandagliate, proprio come l’inconscio mediante la psicoanalisi.
Scomparsa quella Mitteleuropa di cui nient’altro rimaneva se non la sua collocazione geografica, Stefan Zweig, nato a Vienna nel novembre 1881, si suicidò con una dose di Veronal insieme a sua moglie, a Petropolis, in Brasile, nel febbraio 1942. Era convinto che il nazismo avrebbe trionfato e che la civiltà borghese, fondata sul rispetto dell’individuo e della sua libertà, civiltà che aveva amato senza riserve, era destinata a non rivedere mai più la luce. Non riusciva a immaginare di dover vivere in un mondo segnato dalla ferocia totalitaria.
In quegli stessi anni, Hannah Arendt, che aveva iniziato a riflette sulle questioni che l’avrebbero condotta alla stesura del suo capolavoro, Le originidel totalitarismo, esaminava le radici e le ramificazioni dell’antisemitismo moderno, tracciando quelle che considerava essere le due alternative della condizione ebraica: quella di paria, ossia di colui che vive un’esclusione politica senza provarne vergogna; e quella di parvenu, ovvero di assimilato convinto che «davanti a un ebreo celebre la società avrebbe dimenticato le sue leggi non scritte».
Per lei, tradita dal mondo che amava proprio come Zweig – con il quale, ovviamente, si identificava in larga misura – affermare il suo status di paria era diventato essenziale. Non come opzione religiosa, ma come atto politico, come riconoscimento di una situazione reale.
Nella sua famosa lettera del 1963 a Gershom Scholem, Hannah Arendt afferma nel modo più chiaro possibile: «Io sono ebrea»; un fatto indiscutibile e innegabile. Eppure, questa constatazione non la obbligava a solidarietà riflesse o ad allineamenti inevitabili. Viveva il suo onore come un fatto individuale e non di gruppo. Ma per salvare il suo onore, si dovette opporre al disonore di un popolo, il suo popolo, quello ebraico.
Proprio come Hannah Arendt, Zweig ha vissuto la tragedia di ciò che la prima, nel suo libro Le origini del totalitarismo, chiama «popolazioni superflue»: ovvero quelle enormi masse di rifugiati indesiderate da chiunque, sradicate, bandite, perseguitate; persone prive di passaporti, abbandonate dalle comunità politiche in cui erano nate, cresciute e istruite. Per l’autore de Die Welt von Gestern, tale situazione era, semplicemente, insopportabile. Proprio come per Hannah Arendt che, nel 1943, scrisse un articolo su tale tema.
Martin Heidegger aveva scritto una volta della Die Heimatlosigkeit des neuzeitlichen Menschen, «la condizione apolide dell’uomo contemporaneo». Il concetto poi ripreso e sviluppato da alcuni dei suoi studenti, tra cui Hannah Arendt, Hans Jonas ed Herbert Marcuse. Il filosofo aveva prefigurato la condizione esistenziale, divenuta poi universale, dell’ebreo, cioè quella dello sradicato destinato a errabondare nei secoli dei secoli.
La stessa pensatrice aveva sperimentato, in un campo profughi in Francia, l’oppressione caratteristica di questo status sociale di massimo declassamento, ciò che Arthur Koestler, lui stesso un rifugiato paradigmatico, definì «la feccia della Terra». Hannah Arendt ricorda ai parvenus le seguenti parole scritte da Balzac: «On ne parvient pas deux fois». Entrambe le categorie vengono espulse dallo spazio politico, ma i parvenussperano comunque di ottenere in qualche modo una esenzione. Riflettendo sul destino di Walter Benjamin, di Zweig e di altri nobili spiriti in quei tempi bui, Hannah Arendt scrisse quanto segue:
«Quei pochi rifugiati che insistono nel dire la verità, addirittura fino all’indecenza, ottengono in cambio della loro impopolarità un vantaggio inestimabile: la storia non è più un libro chiuso per loro e la politica non è più privilegio dei gentili».
Questa è la vera ragione dell’inesauribile ammirazione nutrita da Hannah Arendt per Rahel Varnhagen, celebre conduttrice di uno dei grandi salotti letterari tedeschi della prima metà dell’Ottocento, il coraggio di essere sé stessa, di rimanere indipendente, senza mai negare la sua identità. Il saggio su Stefan Zweig inizia proprio con la descrizione di un sogno della Varnhagen, un sogno in cui Rahel è in paradiso con le sue amiche intime Bettina von Arnim e Caroline von Humboldt. La parola chiave di quella visione onirica è «disgrazia». Come aggiunge Hannah Arendt: «Disgrazia e onore sono concetti politici, categorie della vita pubblica».
La grande obiezione che muove nei confronti di Zweig riguarda la sua esitazione a definirsi un soggetto politico: «Nessuna delle sue reazioni durante tutto questo periodo è stata il risultato di convinzioni politiche; erano tutti dettati dalla sua ipersensibilità all’umiliazione sociale». Zweig trascorse la sua vita consumato tra «il piacere della fama e la maledizione dell’umiliazione», questioni che lui stesso sollevò con quella «freddezza di genuina disperazione». Hannah Arendt ritiene che l’indifferenza dei parvenus nei confronti della politica sia una delle cause del disastro:
«Se gli ebrei dei paesi dell’Europa occidentale e centrale avessero mostrato anche un minimo di preoccupazione per le realtà politiche dei loro tempi, avrebbero avuto ragioni sufficienti per non sentirsi sicuri». A tal proposito: «Non esiste un documento migliore della situazione ebraica in questo periodo dei capitoli iniziali del libro di Zweig».
Alla fine di questo inquietante saggio, Hannah Arendt cita uno degli ultimi articoli dello scrittore austriaco. Ancora una volta Zweig si propone come esempio di coscienza europea – quella di un’Europa lacerata e mutilata –, ma al tempo stesso sostiene con forza che il passato non si può separare dal presente «come se un uomo fosse stato scagliato da una grande altezza, come il risultato di un violento colpo».
Questo è il modo in cui Zweig è venuto a scoprire, e soprattutto ad abbracciare, quella stessa ebraicità che Hannah Arendt considerava una cosa ovvia, una verità fattuale:
«Poiché aveva voluto per tutta la vita vivere in pace con gli standard politici e sociali del suo tempo, non poteva combattere contro un mondo ai cui occhi era ed è una vergogna essere ebreo. […] Perché l’onore non sarà mai vinto dal culto del successo o della fama, dalla coltivazione di se stessi, e nemmeno dalla dignità personale. Dalla “disgrazia” di essere ebreo c’è solo una via di fuga: combattere per l’onore del popolo ebraico nel suo insieme».
Questo è il motivo principale per cui Hannah Arendt, dopo numerosi ripensamenti, ha riconosciuto il diritto non negoziabile all’esistenza dello stato di Israele, che vedeva come un’opportunità per gli ebrei di poter stipulare un vero e proprio contratto politico moderno.