“Siamo passati dall’ebreo fautore di guerra allo stato di Israele fautore di guerra. La logica intellettuale è sempre la stessa”. Parla lo storico Georges Bensoussan.
Francesco Berti
La diffusione dell’ideologia antisionista impone un continuo sforzo di riflessione volto a comprendere la natura di questo fenomeno e il suo rapporto con l’antisemitismo. Ne parliamo con uno studioso noto ai lettori del Foglio, Georges Bensoussan, storico di fama internazionale del sionismo e della Shoah, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e della Revue d’histoire de la Shoah, autore di decine di studi su questi temi. Il 13 e 14 novembre scorso, Bensoussan ha tenuto due conferenze a Padova. Il 13, a Palazzo Moroni, è intervenuto su “L’antisemitismo e l’antisionismo oggi”, evento curato dalla Fondazione Italia Israele, Cristiani per Israele e Comunità ebraica di Padova. Il giorno successivo, al Bo – sede dell’università – su “Le sionisme: de la mythologie à l’histoire”, conferenza organizzata dal Centro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
L’antisionismo sembra sempre più diffuso nella cultura politica contemporanea, in occidente come nei paesi musulmani. Dove affonda le sue radici questo atteggiamento così pregiudizialmente ostile verso il sionismo e verso Israele? “Per l’opinione corrente – risponde lo storico -, l’antisionismo è una ideologia originata nell’estrema sinistra e nel mondo arabo, che ha avuto una crescita notevole dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Pochi sanno, però, che l’antisionismo ha radici molto più antiche, precedenti alla Seconda guerra mondiale, che risalgono alla fine del XIX secolo, e che hanno trovato la prima espressione nell’antisemitismo di una parte della chiesa cattolica e in quello di matrice razziale. E’ questo il periodo in cui si fa largo, come propaggine delle reazioni alla Rivoluzione francese, l’idea del complotto sionista, che viene a sovrapporsi a quella del complotto giudaico. Nel 1897, l’anno del primo congresso sionista tenutosi a Basilea, la Civiltà cattolica pubblicò un primo articolo antisionista. L’idea della restaurazione, per così dire, di uno stato ebraico, veniva percepita come una sorta di affronto verso il cattolicesimo: se la religione ebraica è una religione caduca, è inconcepibile che gli ebrei ritrovino la loro indipendenza politica nella terra di Israele. Per quanto riguarda l’estrema destra, che faceva dell’antisemitismo una questione razziale, essa lanciò, a partire dalla pubblicazione in Russia nel 1903 dei Protocolli dei Savi di Sion, una violenta campagna antisionista. Va notato che nel periodo precedente alla Prima guerra mondiale, gli antisionisti presentarono il sionismo non tanto come il progetto di creare uno stato ebraico, quanto come quello di dar vita a una dominazione mondiale: lo stato ebraico sarebbe stato dunque unicamente un pretesto per conseguire questo fine. Pare significativo il fatto che nel 1924 i Protocolli siano stati tradotti in Germania col titolo di Protocolli sionisti. Tra le due guerre, gli antisionisti sostennero che il movimento sionista, grazie alla Dichiarazione di Balfour, stava creando un organo centralizzato di governo allo scopo di dominare il mondo. Questo tema si arricchì negli anni Venti e Trenta di nuovi elementi e in particolare si legò all’antibolscevismo, presentato come un’invenzione ebraica”. Ma quale fu il rapporto del nazismo, capace di elaborare la forma più radicale di antisemitismo, con il sionismo? “Il movimento nazista fu ossessionato dal sionismo fin dal suo sorgere, a partire naturalmente dal suo ideologo Alfred Rosenberg, il quale nel 1919 nel suo primo volume analizzò il sionismo. Rosenberg era un tedesco estone che aveva abbandonato la terra natia a causa della Rivoluzione russa. Quindi in Rosenberg l’antisionismo alimentato dai Protolli e l’antibolscevismo si saldarono in un’unica visione. Anche Hitler parlò del sionismo nel Mein Kampf, scrivendo che il sionismo chiarisce la vera natura del giudaismo, che è quella di una entità biologica, piuttosto che di una confessione religiosa. Inoltre affermò che l’obiettivo dei sionisti è solo in apparenza quello di creare uno stato ebraico, poiché il suo scopo è la sovversione mondiale e in particolare la distruzione della civiltà occidentale”.
Quanto all’atteggiamento antisionista nel secondo Dopoguerra, Bensoussan chiarisce subito che “manifestarsi pubblicamente antisemiti dopo Auschwitz era quasi impossibile. In un certo modo, Auschwitz ha screditato l’antisemitismo. L’antisemitismo proseguì perciò principalmente nella forma dell’antisionismo, nella lotta virulenta per delegittimare lo stato di Israele. Questo è il compito che si pose l’estrema destra dopo il 1945. Si sviluppò una pubblicistica in cui si sostenne che il complotto sionista è guidato dallo stato di Israele, che si prefigge di prendere il controllo del mondo manipolando le grandi potenze. Si posero così le premesse per un incontro tra l’antisionismo e le dottrine negazioniste della Shoah. I negazionisti asseriscono che non vi sono mai stati sei milioni di morti: si tratta di un pretesto per permettere la creazione dello stato di Israele. Se lo stato di Israele ha come unico motivo di legittimità il genocidio degli ebrei in Europa, bisogna provare che il genocidio degli ebrei non ha mai avuto luogo. Ma con la Guerra dei sei giorni cambiò tutto. Da allora, il sionismo venne legato al colonialismo, in un contesto mondiale di decolonizzazione. L’antisionismo virò decisamente a sinistra, legandosi a lotte come l’antirazzismo, l’antimperialismo, l’anticolonialismo appunto. Si arrivò così alla famosa risoluzione del 10 novembre 1975, nella quale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decretò, a larga maggioranza, che il sionismo è una forma di razzismo. Questa nuova giudeofobia prese necessariamente i tratti dell’antisionismo, tanto più che ora si sviluppava prevalentemente a sinistra, dove non ha cittadinanza un antisemitismo che si presenti col suo vero nome. Tuttavia – prosegue – appare evidente il legame tra l’antisionismo attuale e quello sviluppato dall’estrema destra negli anni Trenta del Novecento. Quest’ultimo sosteneva che gli ebrei avrebbero portato il mondo a una guerra mondiale. A partire dagli anni Settanta, gli antisionisti di sinistra vanno predicando che lo stato di Israele precipiterà il mondo nella terza guerra mondiale. Siamo passati dall’ebreo fautore di guerra allo stato di Israele fautore di guerra. Siamo evidentemente all’interno della medesima logica intellettuale”.
Quindi l’odio antisionista si abbevera alla stessa fonte dell’odio antisemita? “L’ossessione per gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale e l’ossessione per lo stato di Israele dopo la guerra si spiegano col medesimo senso di angoscia collettiva generato dal cattivo andamento delle cose nel mondo e col conforto che la risposta antisemita e antisionista, molto semplice e facile da comprendere, offre a tale angoscia. All’ebreo demonizzato succede lo stato di Israele demonizzato: è la figura del diavolo che viene spostata dal popolo allo stato. L’antisemita – dice Bensoussan – ha bisogno dell’ebreo per esistere, perché l’ebreo è la risposta alle sue paure. Tutti i suoi fantasmi ripulsivi si cristallizzano nell’immagine dell’ebreo. Non è solo il meccanismo del capro espiatorio: è legato a tutto quello che è l’insegnamento del disprezzo, che fa sì che nella civiltà occidentale l’ebreo sia diventato da tempo immemorabile una figura maledetta. Questa immagine si è trasferita dal popolo ebraico allo stato ebraico: il secondo, come il primo, è il figlio del diavolo o diavolo lui stesso, un paria che non si vuole conoscere e frequentare”. Ma allora è possibile dire che, nella misura in cui fa appello alla distruzione dello stato di Israele, l’antisionismo diventa un messaggio genocidario? “Anche in questo caso bisogna rispondere affermativamente, ma occorre fare una distinzione tra l’antisionismo europeo e quello presente nei paesi musulmani. La propaganda antisionista europea si fonda per lo più sulla riprovazione. Quella che viene proposta nei paesi arabi e musulmani invece si presenta molto spesso come un esplicito appello al genocidio, che ricorda la propaganda antisemita radicale sviluppatasi in Europa tra Otto e Novecento. Molto prima di Hitler, a partire dalla metà del XIX secolo, negli ambienti antisemiti tedeschi più estremi circolava già un chiaro messaggio genocidario. Paul de Lagarde, nel 1887, affermò proprio questo: con gli ebrei non si deve discutere, bisogna sterminarli. Oggi troviamo lo stesso concetto in riferimento allo stato di Israele. Si dice che questo stato è di troppo, è un cancro, una peste, una malattia. Alcuni paesi islamici utilizzano l’espressione ‘entità sionista’, non lo chiamano neppure stato di Israele. Questi appelli alla distruzione dello stato sono identici agli appelli di distruzione del popolo ebraico che circolavano in Europa nei decenni precedenti alla Seconda guerra mondiale”, osserva lo storico. Perché, domandiamo, l’Europa sta sottovalutando questa minaccia? “In Europa non si ascoltano le radio arabe e iraniane, non si guarda la televisione né si leggono i giornali di quei paesi. Esiste una agenzia internazionale, Memri, specializzata nello scandagliare minuziosamente quanto si dice e scrive nei media persiani e arabi. Chiunque può vedere nel sito di questa agenzia i filmati a cui mi riferisco sottotitolati in inglese. Il quadro che ne emerge è catastrofico. Continui sono i messaggi che prospettano la distruzione totale dello stato di Israele. Gli europei sono spinti a sottovalutare questi appelli al genocidio per varie ragioni. La prima è intellettuale. Generalmente, in qualunque epoca, non siamo mai contemporanei della nostra storia: non capiamo la storia che stiamo vivendo e guardiamo sempre il presente con gli occhi del passato. In secondo luogo, c’è arroganza e disprezzo verso chi non si pone in linea con il pensiero dominante. Si accusa di essere islamofobo e razzista anche solo chi mette in discussione alcuni stereotipi culturali. Inoltre, l’Europa deve ancora finire di fare i conti con il senso di colpa per la Shoah. Di qui le accuse a Israele di essere uno stato nazista: se si arriva a credere che gli israeliani si stanno comportando come i nazisti, il senso di colpa si affievolisce, o viene addirittura cancellato”. Inoltre, aggiunge Bensoussan, “a ben considerare, poi, nell’antisionismo europeo rivive l’antica accusa rivolta agli ebrei di essere il popolo deicida. Ecco allora che il palestinese diventa la nuova figura del Cristo sulla croce, come se Cristo fosse stato crocifisso una seconda volta, sempre per colpa degli ebrei e sempre in terra di Israele. Infine, lo stato di Israele disturba perché, pur essendo multietnico, si è costruito sull’identità nazionale ebraica. L’Europa odierna esalta il multiculturalismo e considera ogni identità nazionale alla stregua di una identità di morte, in quanto l’identità nazionale viene vista come una esclusione dell’altro. E’ come se gli ebrei avessero seguito una evoluzione contraria a quella dell’Europa. In ogni caso, il discorso antisionista, che assuma o meno esplicitamente l’appello allo sterminio, è analogo al discorso antisemita prima della Seconda guerra mondiale: prepara alla distruzione, perché la distruzione comincia sempre con delle parole. Ci si abitua all’idea che Israele impedisce di vivere bene nel mondo. Licenza è concessa al genocidio”.
Il Foglio – 16.1.2018