Davide Zebuloni
Inizialmente mi propone di svolgere l’intervista a casa sua, a Tel Aviv, poi mi telefona e mi chiede se possiamo incontrarci al Beit HaLochem (in italiano – la casa del combattente). “Perché proprio qui?”, gli domando il giorno dell’intervista. “Questo è un centro di riabilitazione per quei soldati rimasti disabili durante il loro servizio militare. Ci vengo ogni mattina, faccio un po’ di ginnastica, qualche vasca in piscina. Sai, io stesso sono disabile. Il 60% del mio corpo riporta gravi ustioni”. Lo guardo perplesso; mi sembra in perfetta forma. “E poi è importante prendersi cura del proprio corpo, no?”, mi domanda. Ed io, che non vedo una palestra dalla notte dei tempi, annuisco imbarazzato. Avigdor Kahalani è un eroe. Secondo alcuni, il più grande eroe che lo Stato d’Israele abbia mai visto. Quando nel 1963 si presenta al corso militare per diventrare ufficiale, lo rispediscono indietro dicendogli che non è adatto, che non resisterebbe, che non ha i requisiti necessari. Tuttavia Kahalani non si arrende e presto riesce a coronare quel piccolo folle sogno di diventare ufficiale. Poi arriva la Guerra dei Sei Giorni ed, insieme ad essa, arrivano quelle gravi ustioni che lo costringono a sottoporsi a dodici complicati interventi chirurgici ed un anno di ricovero. La carriera militare del giovane ufficiale cambia drasticamente: gli viene impedito di prendere parte a svariate operazioni, gli vengono affidati ruoli di marginale importanza, gli viene chiesto di rallentare un po’. La storia muta di nuovo con lo scoppiare della Guerra dello Yom Kippur. Kahalani falsifica i suoi certificati medici e riesce a scendere in campo. Organizza 150 carri armati e li guida verso il confine siriano. Così, mentre suo fratello Emanuel ed il cognato Ilan perdono la vita nel combattimento sul fronte egiziano, Avigdor riesce a sconfiggere i 470 carri armati siriani e salvare il Galil. Si racconta che durante una battaglia, egli riuscì ad abbattere da solo tre carri armati siriani distanti da lui cinquanta metri. La sua vita cambia definitivamente. La perdita del fratello brucia più di qualsiasi ustione. “Quando ci penso ancora mi manca l’aria”, mi confessa, ma al contempo una nazione intera gli è grata per il suo coraggio. Riceve i più alti riconoscimenti che un soldato possa ricevere, medaglie su medaglie, titoli su titoli. Oggi ripensa al suo passato e sorride; ma sorride anche al futuro, perché dopo aver terminato il suo servizio militare, ed essere stato Ministro della Difesa, e dopo aver scritto sei libri, girato un documentario e aver messo sù famiglia – Kahalani ha ancora qualche sogno da realizzare.
Avigdor, solitamente mi piace seguire un ordine cronologico, ma questa volta vorrei cominciare l’intervista dalla fine. Dalla pubblicazione del tuo ultimo libro. Di cosa tratta?
L’argomento della leadership mi ha sempre toccato. Così, dopo aver scritto cinque libri, ho pensato di dedicare il sesto ai più grandi leaders della storia del popolo ebraico. Da Mosè al Re Davide, da Ben Gurion ad alcuni ufficiali importanti dell’esercito israeliano. E poi ho spaziato e raccontato di altri leaders, non meno importanti. Da uomini di cultura, Rabbini e maestri, alla mamma che cresce da sola dieci figli. Nel libro dialogo con questi personaggi, li analizzo, li studio. Cerco di individuare quelle caratteristiche che hanno permesso loro di diventare tali.
Mi fa sorridere che parli di leaders con tanto distacco, come se non appartenessi alla categoria.
Esistono tanti tipi di leaders, ciascuno con il proprio modo di arrivare alle persone. Io ho sempre cercato di infondere fiducia in chi mi stava attorno, e ho avuto la fortuna di essere circondato da persone che hanno fatto tutto il possibile per non deludermi. Si tratta di un rapporto particolare, quasi sacro.
Sai, tu sei il primo eroe in carne ed ossa che io abbia mai incontrato. Però sei diverso da come ho sempre immaginato gli eroi. Non sei particolarmente alto, non sei particolarmente muscoloso e, contro tutte le previsioni, sei pure yemenita. Come vivi queste dissonanze?
Diciamo che sono cresciuto in una casa in cui non mi veniva detto spesso che sono bello, che sono bravo, che sono intelligente. Sai, la mia era una famiglia semplice. Ho dovuto scoprirlo da solo, all’esercito, che non valgo meno degli altri. E non solo in campo di battaglia, ma in ogni ambito della mia vita. Chi avrebbe mai detto che avrei scritto dei libri? E pensa, il primo libro lo scrissi a ventisette anni ed è stato tradotto in sette lingue. Nella vita non smettiamo mai di scoprire nuove cose su noi stessi, ma per poter scoprire dobbiamo rischiare. Dobbiamo alzarci la mattina e dire “basta, oggi lo faccio!”. E ci sarà sempre chi ci giudicherà male, non possiamo aspettarci che la spinta arrivi da dietro. Dobbiamo essere noi a raccogliere le forze e rischiare.
Mi dai l’impressione di essere un eroe molto umano. Ogni tanto provi un po’ di paura?
Certamente, dammi il nome di un eroe che non ha paura e gli dico esattamente dove farsi ricoverare. La parola eroe e il verbo affrontare in ebraico hanno la stessa radice: tutti hanno paura, ma solo un vero eroe sa affrontare la paura.
E ti capita anche di piangere?
Ogni volta che ripenso a mio fratello mi manca l’aria. Ogni volta che vedo una madre riabbracciare il proprio figlio piango. Non penso che le lacrime minaccino in alcun modo la mia virilità. Non penso di dover dimostrare più nulla a nessuno. E sopratutto non credo a quell’immagine iconica dell’eroe muscoloso e privo di sentimenti. I più grandi leaders della storia erano persone piene di umanità e compassione.
Immagino sia facile sentirsi eroi in guerra. Ti senti un eroe anche nella vita di tutti i giorni?
Ricordo che trascorsi ore a discutere con Rabin. Ore ed ore in cui lui cercò di convincermi a votare a favore del secondo accordo di Oslo. All’epoca ero un parlamentare, facevo parte del suo partito. Arrivò al punto di dirmi che non avrei messo più piede in Parlamento. Eppure io votai contro. Credo di aver dimostrato più coraggio in quel momento che in campo di battaglia. Oppure quando decisi di candidarmi come sindaco di Tel Aviv. Io, il ragazzo di Ness Tziona. Senza alcun finanziamento. Da solo con le mie forze. Poi, non ho vinto, ma poco importa. L’ho fatto, senza che nessuno me l’abbia posto su un piatto d’argento. Sì, ci vuole altrettanto coraggio per essere eroi nella vita vera.
Parliamo un po’ della tua carriera politica. Hai dei rimpianti? Ti capita mai di pensare che saresti potuto arrivare più in alto? Che avresti potuto diventare Primo Ministo per esempio, se solo ci avessi provato?
Comincio dicendoti che se potessi tornare indietro nel tempo, rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto, seppur conscio di alcuni fallimenti. Non possiamo mai giudicare le nostre scelte a posteriori, dieci o vent’anni dopo. Le nostre decisioni possono essere giudicate solo ed esclusivamente nel momento in cui sono state prese. Tuttavia ti mentirei se ti dicessi che la politica non mi interessa più. La politica è parte di me, ma non ho più interesse a fare il parlamentare. Non alla mia età. Certo, se mi proponessero di tornare ad essere Ministro della Difesa…
Accetteresti?
Penso di sì.
E cosa cambieresti?
Una persona sola può cambiare poco purtroppo, in Parlamento bisogna lavorare in squadra. Diciamo però che io tendo ad interessarmi di meno all’opinione pubblica; non amo rivolgermi ai consulenti legali, preferisco agire quando è necessario.
Mettiamo la politica e il passato da parte e parliamo di Avigdor Kahalani oggi. So che ti dedichi molto ai giovani, alle nuove generazioni.
Mi è sempre piaciuto il titolo di “educatore”, sin dai tempi del militare. Perché ogni comandante è anche un educatore. Così negli ultimi anni ho deciso di dedicarmi al mondo dell’educazione, ai giovani, agli studenti. Mi preoccupo davvero per il destino del nostro paese, ci penso spesso. Così ho capito che per salvaguardarlo devo investire nella nuova generazione. Sono quindici anni ormai che accompagno decine di migliaia di studenti al nord, nei luoghi in cui ho combattuto. Racconto loro dell’esistenza del nostro Stato dalla fondazione ad oggi, di coloro che non ci sono più, del valore inestimabile di questa terra. Concludo ogni tour donando al gruppo una bandiera di Israele e chiedendo loro di custodirla al posto mio. Vedo nei loro occhi il cambiamento, la presa di coscienza sul valore della nostra storia.
Fai e hai fatto così tante cose nella tua vita. Qual è quella di cui vai più fiero?
Credo che il momento di cui vado più fiero in assoluto risale a quando ho falsificato il mio profilo medico nella guerra del ’73, per poter raggiungere i miei compagni in battaglia. Ricordo la sensazione; sentivo di aver dimostrato a me stesso che potevo farcela, che nonostante tutto potevo ancora farcela. Poi sono molto orgoglioso della mia famiglia. E dei miei libri. Vedi, i miei genitori volevano che io facessi il meccanico, questa doveva essere la mia ambizione più grande. Quei libri sono per me una rivincita straordinaria.
E fammi indovinare, hai ancora qualche sogno da realizzare. Giusto?
Ma certo! I miei amici mi augurano sempre di vivere fino a centoquarant’anni e non fino a centoventi. Temono che io non faccia in tempo a realizzare tutti i miei sogni altrimenti. E forse hanno ragione, la vita è troppo breve. Sto scrivendo un Musical e mi piacerebbe tanto vederlo sui palcoscenici di tutto il paese…
Avigdor Kahalani, l’eroe di guerra, che scrivere un Musical? Non smetti mai di sorprendere.
Come ti ho detto prima, non devo più dimostrare di essere un macho. Oggi posso dedicarmi tranquillamente alle mie passioni senza curarmi di ciò che pensa la gente, e il Musical è un qualcosa che desidero da molto tempo. Beh, poi vorrei scrivere un altro libro: il settimo. Me lo immagino molto profondo, dalle atmosfere un po’ bibliche.
Siamo quasi alla fine, e vorrei che parlassimo un po’ di fede. Pensi che in seguito ai grandi traumi subiti nell’arco della tua vita, essa si sia rafforzata o indebolita?
Vengo da una famiglia di persone osservanti, ma già dalla prima infanzia mi sono posto delle domande riguardanti la fede. Per esempio quando ho scoperto l’Olocausto, non concepivo come fosse accaduta una tale tragedia sotto gli occhi di Dio. Tuttavia ho scoperto che la preghiera è un valido esame per testare la fede di un uomo. Ma non parlo di quella che si recita in Sinagoga. Parlo della preghiera vera, che ti sorprende nel momento del bisogno e proviene dal profondo del cuore. Beh, nella mia vita mi sono ritrovato spesso a pregare. Ne deduco che la mia fede si sia rafforzata negli anni. Credo in Dio e credo nel suo legame con il popolo ebraico. Altrimenti l’avrebbe cancellato anni e anni fa, di occasioni non ne sono mancate. Eppure eccoci, siamo ancora qui.
Avigdor, più di una volta hai visto la morte in faccia; l’hai toccata, l’hai sentita sulla tua pelle. Più di una volta ti sei trovato nel varco, ma poi sei sempre riuscito a tornare. Temi questo passaggio? Intendo dire, hai paura della morte?
Io vivo nell’ombra della morte. Ho seppellito parte dei miei amici più cari quando avevo vent’anni. Ricordo ancora i tonfi della sabbia quando colpivano la bara, nel momento della sepoltura. Quei tonfi ancora oggi mi perseguitano, a volte mi fanno diventare matto. Spesso mi capita di pensare al giorno in cui la sabbia cadrà su di me. Non vorrei dover fermare il funerale e chiedere del tempo aggiuntivo, perché non sono riuscito a realizzare tutto ciò che desideravo. Così ogni giorno mi domando se ho fatto qualcosa per la quale valga la pena vivere e cerco un motivo valido per giustificare la mia esistenza in questo mondo. Dico sempre che Dio mi vuole bene, ma spero che non me ne voglia troppo e non abbia fretta di riavermi accanto a sé. Secondo il mio psicologo la mia corsa contro il tempo è sintomo di paura, è il mio tentativo di sfuggire alla morte, ma io posso affermare serenamente che una vita condotta nell’ombra della morte è una vita sana. Una vita che non viene mai sprecata.
E i tonfi della sabbia?
No, i tonfi non li temo più.
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