Scuse? Troppo poco. Un bel gesto di sottomissione e torniamo a farci i fatti nostri
Giorgio Israel
Sono rimasto allibito – e non da solo – leggendo l’intervista rilasciata da Amos Luzzatto alla Repubblica (17 settembre) sotto il titolo “Le scuse non sono sufficienti, occorre un segnale diverso”. Si tratta delle scuse che il Papa deve porgere all’Islam e che, secondo Luzzatto, non bastano: occorre di più, un gesto di “apertura” verso l’Islam. Cosa vorrà mai dire? Convertirsi?
Una persona che conservi intatta la libertà di pensare, o che semplicemente sia libera, non può non fare una constatazione: la reazione ad affermazioni ritenute offensive, in quanto avrebbero asserito il carattere intrinsecamente violento della religione islamica, è stata di una brutalità smisurata, con minacce di distruzione, di morte, e assortita di violenze effettivamente esercitate (attacchi a chiese e persino l’omicidio di una suora), grotteschi ritiri di ambasciatori e affermazioni integraliste deliranti (“la religione musulmana è la sola bella, e tutto il mondo si dovrà convertire all’Islam”). Un simile scenario riporta alla memoria la reazione seguita alla vicenda delle vignette su Maometto: un mondo islamico che produce senza ritegno un’iconografia altamente offensiva dei simboli religiosi e dei libri sacri del cristianesimo e dell’ebraismo, mostrò di ritenere che soltanto la religione musulmana debba essere rispettata. Oggi, lo spettacolo tragicomico degli “offesi” che dimostrano con la loro reazione la fondatezza dell’imputazione, avrebbe dovuto suggerire a chiunque conservi un minimo di spirito libero di non chiedere al Papa di scusarsi.
Potremmo chiudere qui. Ma forse qualche soffio di razionalità circola ancora, per quanto reso flebile dal terrore, e quindi possiamo tentare qualche ulteriore riflessione. Qual era, in fin dei conti, il senso del discorso del Papa a Ratisbona?
Sono proprio le “scuse” del Papa – che, fortunatamente, non sono scuse, bensì una puntuale precisazione – a indicare l’intento di quel discorso. «Sono rammaricato – ha detto Benedetto XVI – per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso all’Università di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani». Quindi: rammarico “per le reazioni”, e precisazione che la citazione è stata “ritenuta” offensivo in quanto erroneamente considerata espressione del pensiero del Papa; e riaffermazione della volontà di dialogo, “nel rispetto reciproco” – “reciproco”, è un aggettivo che va sottolineato.
Sono anni che il cardinale e ora Papa Ratzinger si adopera a rimuovere le radici più profonde dell’odio, che affondano nel terreno teologico. Nessuna dichiarazione irenista e di buona volontà può bastare se non si mette mano con cautela e coraggio alla sorgente profonda delle incomprensioni e dell’odio. Secondo Luzzatto bisogna restare sul terreno politico, perché questo riserva possibilità di compromesso, mentre «quando si passa a un confronto di carattere ideologico o teologico le possibilità di soluzione diventano esilissime». Ma così non si vede che la questione si gioca sul terreno religioso. Far finta che difficoltà che nascono su questo terreno possano essere “cortocircuitate” sul terreno politico, è una forma di mediocre pragmatismo. Evidentemente, Luzzatto, sebbene si fregi del titolo di ex-presidente delle comunità ebraiche italiane, non crede che il fattore religioso abbia rilevanza o, peggio, ritiene che sia un fattore negativo che occorre evitare come la peste, per non impantanarsi in una palude in cui non esistono vie d’uscita. Ma una simile visione, pur se legittima, è assolutamente irrealistica se rigetta l’obbiettivo di combattere a viso aperto l’integralismo di chi ha come scopo esplicito quello di piegare il mondo intero alla fede musulmana. Paradossalmente, la logica di Luzzatto esclude, in quanto “pericoloso”, il confronto franco e razionale, e lascia aperte soltanto due alternative: la guerra totale oppure l’assoggettamento, ovvero la “dhimmitudine”. Constatiamo che egli indica al Papa la seconda, invitandolo a piegarsi alla sopraffazione e cancellando dall’orizzonte il principio della libertà di pensiero e di espressione.
Ma torniamo alla linea di approfondimento teologico seguita da Ratzinger. Per quanto riguarda il secolare tema dei rapporti ebraico-cristiani, egli è andato al di là delle pur importantissime dichiarazioni di fratellanza per abbordare le questioni teologiche che ostacolano un dialogo rispettoso delle fedi e concezioni rispettive, senza indulgere al sincretismo. Il documento della Pontificia Commissio Biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (2001) rappresenta, a mio avviso, uno dei più profondi e costruttivi contributi all’esame dei passaggi attraverso cui una lettura tendenziosa dei Vangeli ha portato alla diffusione di sentimenti antiebraici. Chi scrive non è sospettabile di indulgenza nei confronti dell’antisemitismo cristiano. Ma è proprio lo sguardo non indulgente che consente di apprezzare i passi avanti compiuti e che, pur nella consapevolezza degli ostacoli da rimuovere, permette di dire che, sì, è possibile, anche sul terreno difficile – ma non aggirabile – della teologia, stabilire un terreno di dialogo e di comprensione. Del resto, le religioni ebraica e cristiana sono basate sull’idea che i testi sacri sono “rivelati” ma espressi nella parola umana, e quindi assoggettati all’interpretazione. Il “commento” è la via maestra per il confronto delle differenze nel reciproco rispetto.
La scelta di Benedetto XVI è di perseguire sul terreno del confronto teologico la sconfitta dell’intolleranza e dell’idea insana che la “verità” che si ritiene possedere possa essere affermata con la violenza e con la guerra santa. Il cristianesimo ha peccato su questo piano ma è altrettanto chiaro che, da quasi mezzo secolo, la Chiesa Cattolica si è avviata sulla strada di un coraggioso riconoscimento di questi errori e della revisione delle interpretazioni teologiche che hanno alimentato le tragedie del passato. Perché mai l’Islam dovrebbe essere esente da un simile processo di revisione proprio mentre dal suo seno si levano così forti propositi aggressivi basati su motivazioni religiose? Il discorso del Papa a Ratisbona ha affrontato il tema delle radici teologiche del concetto di guerra santa nell’Islam, con dotte citazioni che non implicavano l’adesione alla lettera della frase di Manuele II Paleologo, ma mettevano sul tappeto “la” questione. Un mondo islamico tollerante e aperto al dialogo avrebbe dovuto cogliere questo discorso come un’occasione di riflessione e di confronto. Abbiamo invece assistito a un’esplosione di minacce e violenze, in forme disonorevoli per chi le ha pronunciate e messe in atto.
È curioso. Per duemila anni gli ebrei hanno visto attaccata la loro religione nelle forme più truculente. Eppure nessuno ha mai pensato di rispondere con la minaccia di morte nei confronti di coloro che denigravano la religione ebraica. Al contrario. Quando non si trattava di accuse volgari – magari sfocianti nella solita tematica del deicidio – ma di critiche, esse venivano discusse, confutate e magari ribaltate razionalmente. È forse illegittimo difendere propria fede e criticare i principi dell’altra, fino a che si resta entro i giusti limiti della critica rispettosa?
Si pensi alla celebre disputa di Barcellona (1263) tra il rabbino Moshe ben Nachman (Nachmanide) e il predicatore cristiano Pablo Christiani. Rileggerla è istruttivo, perché Nachmanide vi sosteneva le ragioni della fede ebraica e confutava i principi del cristianesimo in modo assai fermo e pungente. Nella disputa, Christiani non si accontentò di replicare. Accusò Nachmanide di aver offeso la fede cristiana, e scatenò un’ondata di terrore, imponendo la conversione forzata a masse di spettatori della disputa. Questi venivano arruolati per contestare violentemente Nachmanide, fino a creare un clima di violenza tale che il confronto si concluse con l’esilio del rabbino in Palestina. Se pensiamo alle frasi “offensive” con cui Nachmanide negava la divinità di Cristo e contestava la “falsità” dei dogmi della religione cristiana, e seguiamo la logica di Luzzatto, Nachmanide avrebbe dovuto chiedere scusa alla Chiesa, all’Inquisizione, e anzi le scuse non sarebbero bastate. Avrebbe dovuto aprire un dialogo politico…
Per secoli, il cristianesimo ha rimproverato all’ebraismo di non aver assimilato l’idea della carità ed è stato ricambiato – penso, per restare a tempi recenti, agli scritti del rabbino Elia Benamozegh, noto anche come il “Platone dell’ebraismo italiano” – con l’accusa di ignorare l’idea della giustizia. Non trovo nulla di male in simili reciproche contestazioni, fino a che sono condotte sul terreno della dottrina e del confronto civile delle opinioni. I guai iniziano quando queste contestazioni degenerano sul terreno della denigrazione e dell’incitamento all’odio e, infine, sul terreno della persecuzione. L’ebraismo è stato vittima di tale degenerazione per duemila anni, e lo è ancora – religione di scimmie e porci, secondo una locuzione corrente in quegli ambienti che, secondo Luzzatto, dovrebbero ricevere le scuse, e qualcosa di più delle scuse, del Papa. È quindi con profondo imbarazzo che si assiste al fatto che un intellettuale ebreo, che si proclama laico e si fregia del titolo di ex-presidente delle comunità ebraiche italiane, si schieri dalla parte del fanatismo e dell’intolleranza.