Alberto Somekh – Rabbino Capo di Torino
Ho letto e apprezzato il lungo scritto del Rav Mino Bahbout: “Conversioni: non lasciamole solo in mano ai rabbini” in risposta ad una lettera di Gabriello Marchetti che non mi risulta essere stata diffusa e che personalmente non ho visto. La lettura in questione mi lascia tuttavia diversi dubbi che sarebbe troppo lungo esporre qui. Mi limiterò perciò soltanto ai principali.
1.
La posizione secondo cui i figli di padre ebreo vanno trattati “con un’empatia particolare” perché sarebbero comunque discendenti di zera’ Israel (stirpe ebraica) è certamente poetica ed accattivante politicamente. Ma sul piano strettamente halakhico si trova espressa, che io sappia, solo dal Rav Benzion ‘Uziel z.z.l. e da un suo (relativamente) poco noto discepolo, Rav Fingerhut, che fu Av Bet Din ad Algeri nei primi anni Sessanta, nei rispettivi Responsi sull’argomento, per di più senza l’indicazione di una fonte più antica. Si deve perciò trattare di una loro sevarà (considerazione) personale. I loro contemporanei Decisori askenaziti (primo fra tutti il Gran Rabbino Rav Herzog) e gli stessi Rabbini Capi Sefaraditi della nostra generazione (Rav ‘Ovadyah Yossef, Rav Mordekhay Eliahu e Rav Bakshi Doron), per limitarci alle figure più “in vista”, sono tutti di parere più rigoroso. Va aggiunto che in una recente ristampa anastatica dei Responsi Mishpetè Uziel, il Responso in questione è stato espunto, evidentemente perché considerato oggi non più rispondente alle pressanti esigenze dei tempi mutati. Ne consegue che il fatto di avere il padre ebreo non costituisce motivo preferenziale per agevolare la conversione.
2.
Rav Bahbout scrive: “Il processo di conversione di un bambino …non deve mai suonare come una legittimazione a priori dei matrimoni misti; …deve portare in ultima analisi all’osservanza delle Mitzwòt da parte… di tutta la famiglia; …può arrivare a buon fine solo se c’è la collaborazione, oltre che da parte della Comunità, di entrambi i genitori e della madre in particolare, che dovrà imparare a mettere in pratica quelle mitzwòt che riguardano più da vicino la vita famigliare e quella del bambino”. La frase, così formulata, presuppone con chiarezza una situazione in cui la madre non necessariamente abbraccia l’Ebraismo insieme al figlio. Tale situazione è evidentemente contraddittoria nei confronti di tutti, rispetto ai principi che Rav Bahbout enuncia. Contraddittoria verso il padre che mantiene, ora con l’avallo di fatto del Rabbinato, una situazione di matrimonio misto. Contraddittoria verso la madre, perché non si può richiedere ad un non-ebreo l’osservanza di Mitzwòt all’infuori dei Sette Precetti dei Figli di Noè.
Ma è contraddittoria soprattutto nei confronti del povero bambino, che vive vedendo la madre seguitare ad andare in chiesa e a tenersi l’immaginetta sul comodino senza che nessuno abbia il diritto di impedirglielo. La soluzione è una sola: prendere in considerazione solo i casi in cui la madre accetta di convertirsi insieme al bambino, “sanando” il matrimonio misto del padre e accettando sulla propria responsabilità un cammino pieno nelle mitzwòt che porti davvero l’intero nucleo famigliare “sulla via retta e giusta”.
L’unica obiezione che si può muovere al mio ragionamento è che il Talmud (Ketubbot 11a) non formula una restrizione in tal senso, che non è lecito halakhicamente in epoca posteriore “innovare” restrizioni cui il Talmud non accenna e che in effetti in passato non si è stati a tal punto rigorosi in Italia. Tutto vero. A parte il fatto che la restrizione in questione è ormai adottata da molte prestigiose Comunità all’estero (la Spanish & Portuguese Congregation a New York, per testimonianza del Haham Solomon Gaon z.z.l.), Rav Chayim David ha-Levy (Resp. ‘Asseh lekhà Rav, VII, 22) scrive a sua volta che è in realtà lecito “innovare” restrizioni se si tratta di un pubblico non costituito da Benè Torah e se l’innovazione non porta all’abrogazione di una norma della Torah, ma si limita, come in questo caso, a creare le condizioni per una sua migliore osservanza.
3.
E veniamo alla tesi saliente di Rav Bahbout: cercare famiglie tutors che si accollino l’assistenza religiosa degli aspiranti convertendi. L’idea è ottima e corretta, applicata con successo in altri paesi, dove le Comunità presentano in genere uno “zoccolo duro”di famiglie osservanti. Forse a Roma (cui Rav Bahbout si riferisce) e anche a Milano la cosa è parimenti possibile. Tutte le parti coinvolte devono essere al corrente della grande responsabilità spirituale che comporta aiutare una nuova anima ad entrare in Israel, assoggettandosi alle sanzioni che comporterebbe il fatto di trascurare le Mitzwòt una volta accettate. E’ noto che l’aspirante Gher deve accettare tutte le 613Mitzwòt. Fra di esse ve ne sono alcune che sono oggi considerate particolarmente “caratterizzanti” dell’identità ebraica, come la purità mensile della donna. Chi può “assistere” un’aspirante ghiyòret nell’abituarsi all’ordine di idee di osservare regolarmente questo precetto se in Comunità nessuna signora ha l’abitudine di recarsi al Miqweh?
4.
Amare il gher è senz’altro un precetto importante, come sottolinea Rav Bahbout. Ma forse ci sono anche altre Mitzwòt non meno rilevanti cui sarebbe opportuno abituare i correligionari, soprattutto i giovani. Prima di tutto amare la Torah e le Mitzwòt in quanto tali. Inoltre, amare ragazze ebree, sposarle dopo fidanzamenti non eccessivamente lunghi e avere presto figli. Solo in questo modo ridaremo dignità alle nostre Comunità senza affidare il loro futuro soltanto ai Rabbini.