Yiddishland in Lituania. L’antisemitismo senza ebrei.
Alain Guillemoles
Cercando la Vilnius ebraica di un tempo, oggi si trova soprattutto un grande vuoto: restano una sinagoga dalla facciata di stucco, due piccoli musei chiusi e molte targhe sui muri, in ebraico e lituano. Ma è difficile raffigurarsi il pullulare della capitale della Lituania prima della guerra, quando la metà della popolazione era ebraica, tanto che la città veniva chiamata la «Gerusalemme del Nord». Ci si aggrappa a minuscoli indizi. Quella che oggi è l’ambasciata d’Austria era una casa di preghiere. Più oltre, un cortile ospita una scuola materna di recente costruzione. Un cartello segnala che qui si trovava la grande sinagoga, costruita nel 1573: pare fosse così ricca da avere candelieri d’oro. Fu distrutta dai tedeschi. Il luogo dove si trovavano le porte del ghetto, creato dai nazisti, è segnalato da alcuni mattoni messi a nudo sulla facciata di una casa. Difficile accorgersene, tanto il segno è discreto, senza essere accompagnati da una guida locale.
Numerosi lituani si sono improvvisati guide della Vilnius ebraica da quando sono cominciati ad arrivare i turisti stranieri, discendenti degli ebrei lituani, sulle tracce del passato. Davanti a quello che fu il teatro ebreo, una coppia dall’aria agiata si fa spiegare in ebraico la storia dell’edificio. Durante la guerra il teatro si trovava nel ghetto. Le recite non si fermarono. Il repertorio dipendeva «dagli attori che c’erano», ossia che non erano stati ancora assassinati. La guida mostra programmi dell’epoca, che tiene allineati con cura in un raccoglitore. Il suo ebraico è incerto. La coppia ascolta, silenziosa e afflitta, poi si rimette lentamente in cammino.
Prima della guerra la comunità ebraica in Lituania arrivò a contare oltre duecentocinquantamila persone, di cui centomila nella sola Vilnius. La città brillava nel mondo ebraico per le sue yeshiva (scuole religiose) e per le biblioteche. Vi si pubblicavano sei quotidiani in yiddish. Alla fine del XIX secolo Vilnius conobbe anche la nascita del Bund, il partito socialista ebraico. Oggi in Lituania gli ebrei non superano i cinquemila, di cui un migliaio a Vilnius. La sede della comunità è un immenso edificio che un tempo era un liceo ebraico. I corridoi sono deserti. Tutto ciò che è nuovo porta la targa di dono di una fondazione americana o israeliana.
Il presidente della comunità, Simonas Alperavicius, è un ex giurista di ottant’anni. Sprofondato nella sua poltrona, dietro una scrivania ingombra di libri, esita prima di rispondere alla domanda se in Lituania ci sia un futuro per gli ebrei: «Difficile dirlo. Voglio credere di sì». Tutto l’ex Yiddishland è popolato di fantasmi. Andarci è come visitare l’Atlantide, continente scomparso. Si cercano i resti della presenza ebraica con l’impressione di grattare il suolo con le unghie. Dopo molti tentativi, si finisce per trovare cimiteri abbandonati, sinagoghe trasformate in cinema o ex yeshiva diventate pensionati per studenti.
Ebrea di Lituania, Dalia Epstein racconta una vita da sopravvissuta. Qui c’è stata prima la volontà di annientare dei nazisti, poi la deliberata indifferenza dei sovietici. Bambina al tempo della guerra, Dalia sopravvisse perché sfollata in Russia. In seguito ha vissuto gli anni sovietici in una sorta di esilio interiore: «Il potere sovietico fingeva che gli ebrei non esistessero. Le persone tornate dai campi di concentramento nascondevano il proprio passato. Chi aveva un numero tatuato lo raschiava con le forbici per farlo sparire. In Lituania essere ebreo era una vergogna. A partire dal 1946 le scuole ebraiche vennero chiuse. Un mio zio, insegnante di matematica, trovò lavoro in una fabbrica di cioccolatini. I figli ebrei nati dopo la guerra hanno vissuto nell’ignoranza. Molti hanno contratto matrimoni misti e si dichiarano russi». Lei stessa ha sposato un lettone del quale non sempre sa «pronunciare il cognome», dice scherzando. A lungo sono stati incerti se trasferirsi in Israele, da quando è diventato possibile. Ma hanno rinunciato per non allontanarsi dai figli ormai grandi. Dalia Epstein si dice «pessimista sul futuro» della cultura ebraica in Lituania. «Si studierà l’yiddish come la lingua dell’antico Egitto».
Svuotata dei suoi ebrei, la Lituania conosce ancora rigurgiti di antisemitismo. Nei mesi scorsi duecento giovani skinhead sono sfilati nel centro di Vilnius brandendo svastiche e scandendo «Fuori gli ebrei». La polizia non ha disperso la manifestazione, limitandosi a scortarla e chiedere ai manifestanti di restare sul marciapiede. A Vilnius esiste anche un progetto di ricostruzione della Grande Sinagoga e di alcune strade dell’antico quartiere ebraico. Sembra però motivato soprattutto dal desiderio commerciale di andare incontro alla curiosità dei turisti. Una parte della comunità ebraica è contraria e le autorità amministrative non si pronunciano. «È impossibile ricostruire in maniera identica al passato. Non sappiamo neanche che aspetto avesse. Si finirebbe per fare una grande Hollywood», è convinto Algimantas Degutis, direttore del patrimonio al Ministero lituano della cultura.
Eppure, a Vilnius, appena si tocca una casa affiorano antiche pitture: sono le insegne dei negozi ebraici. Vengono lasciate a vista, cancellate a metà, come testimonianze del passato. Ma il Paese continua ad aspettare un grande museo che racconti i cinquecento anni di presenza ebraica in Lituania.
Oggi Vilnius resta il luogo dove ebrei di tutto il mondo arrivano d’estate a studiare l’yiddish. «L’anno scorso sono venuti quaranta partecipanti di tredici Paesi – racconta il professor Alperavicius –. Era commovente sentire di nuovo quella lingua risuonare nell’auditorium dell’università dove prima della guerra c’era il dipartimento di Lingua e letteratura yiddish». A forza di muoversi nelle stradine del centro, si impara a interrogarsi sui giardini pubblici: è lì che, durante la guerra, furono distrutte le case degli ebrei e non si è più ricostruito. Oggi è un centro pedonale che trabocca di ristoranti giapponesi, alberghi di lusso e locali notturni. Si può provare una sorta di rabbia nel constatare che, malgrado tutte le distruzioni, la vita continua. Ma si può anche, in qualche modo, trovarlo confortante. (per gentile concessione del quotidiano La Croix . Traduzione di Anna Maria Brogi).
http://www.avvenire.it/Cultura/Yiddishland_200907200846404630000.htm