Roma. In un ristorante di Vicolo dell’Atleta i resti di una civiltà: “Qui era il centro della cultura universale”. Con il Rabbino Capo a Trastevere, cuore della Roma ebraica
Edoardo Sassi
L’umidità è perfetta, lì sotto, ideale per una cantina. E non a caso oggi vi si conservano vini imbottigliati. Si scende, ma non troppo, sotto l’attuale livello stradale. Tutt’intorno archi e mattoni antichi disegnano grandi, silenziose volte. C’è poca luce. Sarà la suggestione, ma un’aura di sacralità si percepisce, in questi ambienti. E si percepisce anche, da qualche parte, la presenza dell’acqua.
E infatti un pozzo, che sarà magicamente «rivelato» di lì a poco, si trova a qualche metro dal gruppo. Un gruppo di cui fa parte anche un uomo dal piglio illustre, magro, barba, che osserva tutto quanto si trova intorno a lui con aria più attenta degli altri. Sembra, e deve esser così, anche emozionato dietro quel profilo dall’aria seria, mitigata però dalla bonomia di un forte accento romano, dal sapore antico, come tutto intorno. Dice: «Facile: dove c’è ‘na comunità ebraica c’è un Mikve. Qui ‘na comunità ebraica c’era. C’è sta pure l’acqua. ‘Na cosa è sicura, qua doveva sta’».
Parola di Rabbino Capo di Roma, all’anagrafe Riccardo Di Segni, classe 1949, medico primario di professione, nonché tra le massime autorità ebraiche del Paese; anche un erudito (fresco di fascinosi studi sui Pierleoni, famiglia di ebrei convertiti dalla quale verranno tre pontefici, compreso l’antipapa Anacleto II) con il quale, in un pomeriggio di primavera, abbiamo percorso un breve tratto della vecchia Roma, dal Tempio Maggiore — che ospita anche il prezioso archivio storico della Comunità, carte e registri relativi alla vita degli ebrei negli ultimi cinque secoli, tra l’inizio dell’attività del Ghetto, 1555, e gli anni dopo la seconda guerra mondiale — fino a Trastevere. Un cammino… alla ricerca del Mikwe perduto.
Due premesse: la prima è che poco si sa, anche per via della scarsezza di documentazione, della Roma medievale ebraica; la seconda è che pochi possono dirsi più romani degli ebrei di Roma, con oltre venti secoli di storia alle spalle, custodi di un passato millenario tra luoghi e riti che si perdono nella notte dei tempi. Tra questi luoghi, appunto, Trastevere, Trans Tiberim, zona di porto e commerci, all’epoca neanche propriamente Roma. E qui, oltre il fiume che scorre eterno, passando Pons Judaeorum (Ponte Fabricio), si trovava la comunità ebraica di Roma prima dell’istituzione del Ghetto, grossomodo dal secolo XI: «Questo — spiega Di Segni — era il centro della cultura universale, da qui si esportavano dotti e sapienti nel mondo, qui vissero filosofi, cabalisti, poeti, poeti rituali, da qui veniva Immanuel Romano, grande voce letteraria, qui la comunità di Roma, una delle più importanti al mondo, rappresentava il confine sud dell’area askenazita».
Il «qui» del Rabbino capo indica un’area attigua a un nascosto vicolo di Trastevere, vicolo dell’Atleta, stradina dal fascino straordinario e d’impronta medievale, che prima del ritrovamento di un’antica statua nel 1844 (un Atleta ora ai Vaticani) si chiamava «vicolo delle Palme» (di Gerusalemme?). E in vicolo dell’Atleta si trova uno di quegli incredibili posti che solo Roma sa conservare: un ristorante, «Spirito Divino», osteria ma soprattutto luogo di cui i proprietari, anfitrioni di memorie secolari, conoscono la storia.
Un ristorante, è cosa ormai accertata dagli archeologi, che in un lontano prima ospitò una delle sinagoghe di Roma medievale, forse addirittura la più antica della città, eccezion fatta (e non è nemmeno detto) per quella d’Ostia Antica. Sopra, la sala. Sotto, le cantine. Prima volta per Rav Di Segni qui (Rav, cioè maestro, guida spirituale), in questa «sua» Roma ipogea e fascinosa. Alla ricerca, lui e tutto il gruppo, di tracce di un luogo la cui importanza, religiosa e simbolica prima che archeologica è, per gli ebrei, assoluta: il Mikwe, bagno rituale, vasca purificatrice (secondo gli antichi insegnamenti atto fondante per render possibile in una città l’esistenza d’una comunità ebraica è la presenza di un Mikwe).
Ma non si ha Mikwe senza acqua viva, piovana dunque o di sorgente. Niente eccezioni. E qui, al civico 14 di questa casa medievale, dove nella loggetta una colonna con iscrizione in ebraico ha permesso l’identificazione con una sinagoga, chissà l’acqua dov’è/era? «Qui scorre un fiume sotterraneo, c’è un antico pozzo, venite, ve lo mostro»: le parole del ristoratore accendono gli occhi di Ray. Si risalgono i 29 gradini scesi poco prima: «Più o meno 75 anni a gradino, dumila e rotti anni», chiosa l’oste, che per meglio mostrare la fonte, laggiù, getta altra acqua da una brocca. Il rivolo precipita. L’effetto è da magia: mille bagliori nell’oscurità. Tutti in silenzio, parla solo Ray: «Facile: dove c’è ‘na comunità ebraica c’è un Mikve. Qui ‘na comunità ebraica c’era. C’è sta pure l’acqua. ‘Na cosa è sicura, qua doveva sta’»
Corriere Della Sera – Edizione Roma 2 giugno 2013