- Il nodo al fazzoletto (R. Di Segni)
- Il filologo del terremoto (G. Limentani)
- L’orologio dello Shabbath (M.E. Artom)
Il nodo al fazzoletto
La storia e il significato del Tallèth; come e perché il rito è sopravvissuto a millenni di cambiamenti di moda
Quando un uso diventa abituale, è naturale che non desti più curiosità nel pubblico, e che non ci sia un interesse a capirne le origini e le motivazioni. Nell’ebraismo questa tendenza naturale è vista con diffidenza e ostilità, quando l’uso che non suscita più la curiosità intellettuale, il desiderio di capire, è una norma tradizionale. La regola, anche se messa in pratica, è come se perdesse l’anima, se non c’è un continuo dibattito, uno studio approfondito; diventa una “regola appresa” e basta, non vissuta, secondo un’antica e severa definizione profetica. Si pensa comunemente che le critiche della tradizione si rivolgano a chi osserva senza sentimento, o fede, o entusiasmo; forse è più corretto dire che la critica è invece diretta a chi osserva senza pensare, senza fare attenzione, senza sforzarsi di capire.
Per questo conviene almeno ogni tanto rimettere in discussione non le stranezze e le minuzie che sollevano l’istintiva curiosità, ma i riti maggiori diffusi e abituali. Un esempio può essere il tallèth, sul quale proponiamo qualche spunto iniziale di riflessione. L’oggetto rituale che chiamiamo oggi, piuttosto impropriamente, tallèth, diventa rituale solo per le appendici ai suoi quattro angoli, le frange, o tzitziòth. Senza queste frange rimarrebbe comunque, in ebraico, un tallèth, cioè un panno, ma non sarebbe più un oggetto rituale con specifici attributi. Già questa stranezza è un segno evidente dell’antichità della norma, che viene ormai da secoli osservata in modi piuttosto differenti da quelli iniziali. È infatti noto che in tempi biblici (le fonti della regola sono i Numeri 15:37-41 e Deuteronomio 22:12) gli abiti avevano degli angoli, e quindi la regola veniva a imporre un segno specifico ad abiti comuni. La moda è poi cambiata, e nelle società occidentali questi abiti non esistono più, salvo le eccezioni del tutto particolari degli scapolari in uso presso alcuni ordini monastici cattolici e delle sporadiche e pittoresche imitazioni dei ponchos messicani. Il cambio della moda ha quindi imposto alla tradizione ebraica una revisione del rito, e in pratica l’adozione di un oggetto rituale specifico, distinto dal normale abbigliamento. Il cambio più notevole, tuttavia, che ha comportato una sostanziale modificazione della forma del rito, riguarda il colore dell’oggetto. Come specifica la Bibbia, la frangia doveva essere di colore azzurro; per la tradizione orale, qui indispensabile per la comprensione del testo, il colorante era di natura particolare e preziosa, e arrivò il momento in cui non fu più possibile usarlo; per cui da allora le frange diventarono tutte bianche. È stata una variazione legittima? A distanza di secoli possiamo serenamente dire che nel momento in cui la decisione fu presa le possibilità erano due: o lasciar perdere, in difesa del più ferreo formalismo, un rito tipico ed essenziale, o continuare, sia pure informa diversa, un’osservanza portatrice di contenuti positivi. Inevitabilmente la scelta è caduta sulla seconda ipotesi. Così in proposito ragionavano i maestri del Talmùd (Bab. Menachòth 43b); la cosa somiglia alla storia di un re che aveva ordinato a due suoi servitori di procurargli dei sigilli; uno doveva essere fatto di argilla, e uno d’oro. Nessuno dei due servitori obbedì all’ordine ricevuto. Entrambi, è chiaro, sono colpevoli; ma la colpa è molto minore nel servo che doveva procurare un sigillo d’oro, e che evidentemente doveva faticare molto di più. Il senso della parabola è evidente; non ci si può sottrarre a un dovere con la scusa di raggiungere la perfezione; anche in una forma molto dimessa, ma concettualmente dello stesso significato, si può adempiere al proprio dovere e non ci sono scuse per sottrarvisi.
Se la forma del rito, come si è visto, ha subito notevoli variazioni, non altrettanto può dirsi del suo significato. C’è uno strano paradosso nella tradizione ebraica, ed è l’inspiegabilità di gran parte delle sue regole. In proposito la reticenza della Bibbia è esemplare. È molto difficile, praticamente una rarità, che la Toràth giustifichi in dettaglio i suoi numerosi comandamenti. Ebbene tra le rare eccezioni c’è appunto l’obbligo delle frange. Circostanza tanto più eccezionale se si considera che quelle che nella Bibbia sono “spiegazioni” di precetti sono in realtà delle proposizioni che, almeno per i lettori di oggi, pongono problemi di comprensione, ancora più difficili della norma stessa. Invece nel caso degli tzitziòth la chiarezza è esemplare. Il brano, che è notissimo perché fa parte dello Shemà, è di una struttura schematica e stilistica non casuale. Tre verbi indicano l’ordine: farsi delle frange, porvi la frangia celeste, e che questa divenga la frangia dell’abito; quindi le motivazioni, in una successione di cinque nette proposizioni: vedrete le frange, ricorderete i precetti, li metterete in pratica, non devierete dietro vista e sensi che vi fanno sbagliare. Subito dopo, con un’interazione atipica nel succinto stile biblico, compare la ripetizione al positivo dello stesso concetto: ricorderete, isserverete, e sarete santi; e questo per ribadire la sostanziale affinità del divenire santi con il rifiuto di seguire le tentazioni dei sensi. Dunque un messaggio chiaro: le frange sono un segnale che va portato come memoriale, come ricordo della propria posizione; un segnale che in ogni istante deve spezzare la catena condizionante del riflesso ed innastare una reazione razionale che domina il riflesso con la consapevolezza di far parte di una comunità sottoposta ad obblighi particolari. Il segno tramite di questo meccanismo è una frangia con dei nodi. Il nodo in ogni cultura porta ed evoca dei significati complessi, spesso antitetici: dall’uso nella magia nera per bloccare i parti, a quello protettivo, fino a quello, anche tra noi comunissimo, di segnale di ricordo (si pensi al nodo al fazzoletto). Nella Bibbia tutto questo è evitato e superato senza dubbi e con grande chiarezza. Ma non c’è solo il superamento di implicazioni banali o pericolose per l’ortodossia; c’è l’introduzione della dimensione storica; è quanto dice la fine del brano nei Numeri, quando, con un riferimento solo a prima vista fuori luogo, si ricorda l’uscita dall’Egitto. In termini un po’ duri il rinascimentale ebreo romano Sforno così sintetizzava il senso delle frange: ricordatevi che siete miei schiavi. Ma è una schiavitù del tutto particolare, perché nasce dalla libertà da due vere schiavitù, citare nello stesso brano: quella delle pulsioni istintive (“l’occhio” e “il cuore”), e quella imposta da altri uomini. Quindi di un invito continuo ad esercitare una scelta tra diversi sistemi di valori. L’ebreo osservante evidentemente accetta il sistema di valori che gli propone la tradizione. È questo ragionamento l’implicazione sostanziale del tallèth; per questo Shim’on bar Jochài leggeva l’espressione “lo vedrete” (uritèm otò) non come un riferimento materiale alla frangia rituale, ma come un’indiretta citazione della stessa presenza divina: “Lo vedrete”, più che “lo vedrete”. Entrate in un ordine diverso, o perlomeno della scelta; ecco il senso mai cambiato di questa antichissima azione rituale.
Riccardo Di Segni
Parlando di tallèth non si può omettere una constatazione che in Italia è oggi d’obbligo. Se c’è una cosa che ancora distingue l’ebraismo italiano nella comunità l’Israele, è la tradizione d’arte, e l’eleganza con cui ha cercato di osservare il suo impegno ebraico. Proprio il tallèd, per dirlo nella comune pronuncia locale (mai venuta meno con questo termine) è sempre stato un oggetto pregevole, e fino a pochi anni fa, in ossequio ad una tradizione secolare, esisteva in Italia una produzione artigianale di questi oggetti, in seta. Basta entrare in una Sinagoga in un giorno festivo per vedere spuntare fuori da ogni gruppo familiare questi tallèdòd di seta, che contrastano con altri di seta importanti e di produzione ormai industriale, e con quelli più comuni, non meno belli, ma di un altro stile, di lana. La produzione di questi oggetti si è fermata; e con questo sta finendo anche una tradizione. Secondo stime approssimative, ma non tanto lontane dalla realtà, solo per il materiale un tallèth di quella seta berrebbe oggi a costare anche mezzo milione; è una cifra che da sola scoraggia la ripresa di un’iniziativa di produzione. Ma parlarne non è certo inutile; attendiamo in proposito il contributo di idee dei nostri lettori. |