La colpa di Adamo
Un esempio biblico attraverso il commento classico di Rashì
Le interpretazioni concernenti la natura e le modalità della colpa della prima coppia umana sono, all’interno della stessa tradizione ebraica, numerosissime pur se niente affatto contraddittorie. Leggendo il commentario di Rashì, ci si accorge che la sua esegesi sembra voler scartare un’interpretazione della colpa di Adamo che metta l’accento sulla natura sessuale della colpa stessa. E infatti, al momento di commentare la nascita di Caino e Abele, Rashì fornisce le seguenti precisazioni:
“Adamo conobbe sua moglie Eva ed essa concepì e partorì Caino” (Genesi IV:1)
Rashì
Già prima dell’avvenimento precedente, cioè a dire prima che commettesse la sua colpa e fosse scacciato dal giardino dell’Eden. E ciò si applica ugualmente alla gravidanza e al parto.
Il commentatore sottolinea che la colpevolezza di Adamo poggia su tutt’altro che la sessualità. Quel che Rashì in compenso ammette è che, per contro, la sessualità può fornire l’occasione della colpa. Infatti, a proposito del concatenamento dei versetti:
“L’uomo e sua moglie erano entrambi nudi e non ne provavano vergogna” (Genesi II: 25)
“E il serpente era il più scaltro…” (Genesi III:1)
Versetto che introduce il racconto delle relazioni fra il serpente e l’uomo, Rashì dice esplicitamente:
… serve a spiegarci quel che indusse il serpente ad attaccarsi a loro: li aveva visti nudi ed essi non ne provavano vergogna; facevano all’amore sotto gli occhi di tutti e a conoscenza di tutti, ed egli desiderava.
L’innocenza della sessualità
A proposito del comportamento di Adamo ed Eva, l’esegesi lascia intendere che non si trattava di colpa nel senso più stretto del termine, ma che l’innocenza della sessualità si trova perennemente minacciata e che basta uno sguardo, foss’anche lo sguardo dei due stessi componenti la coppia, perché vi sia rischio di colpevolezza. È nella pubblicizzazione di ciò che dovrebbe restare nella sfera dell’intimità, che questo rischio diventa effettivo. Ma il commento in questione precisa ancora una volta che la colpa non è presente nell’atto in sé e per sé:
“Ed essi non ne provavano vergogna” (Genesi II:25)
Nella logica stessa di questo atteggiamento prometeo assunto dalla donna, la consumazione del frutto comporta una trasformazione radicale del contenuto dei valori e del loro fondamento. Finché la creatura si sottomette all’interdizione dei mangiare dall’albero della conoscenza, è questo comandamento a segnare il confine fra bene e male. L’adesione ai punti di vista del serpente significa che l’uomo erige in assoluto i propri criteri di valutazione e che taccia l’illusione la coscienza del mondo che aveva in precedenza. La creatura pensa di aver raggiunto una conoscenza del bene e del male che gli era stata accuratamente celata dal dio malvagio e geloso. In ultima analisi, la colpa del primo uomo ha dunque per Rashì un senso essenzialmente teologico: rivolta contro il Creatore per mezzo di un’interpretazione della creatura in termini di fabbricazione, che risponde al voto segreto degli esseri umani di elevarsi al rango di dei.
Anche il cieco sa di essere nudo
Questo “umanesimo” originale che si ripercuote immediatamente attraverso tutta la creazione, non procura però i risultati chela prima coppia umana si attendeva. Certo,
“i loro occhi si aprirono” (Genesi I-II:7)
ma la lucidità così acquisita doveva colorarsi di amarezza:
“essi seppero di essere nudi” (Genesi III:7)
Rashì
Anche il cieco sa di essere nudo! Che cosa significa allora: essi seppero di essere nudi? Era stato dato loro un solo comandamento ed essi se ne erano spogliati!
Il tentativo abortito di elevarsi al rango di dei rivela la limitatezza umana. Nella coscienza della prima coppia si fa strada il sentimento di una lancinante colpevolezza. Eppure fino a questo momento nulla ancora è perduto. Il misericordioso Creatore cerca di riallacciare il dialogo con essa per condurla al pentimento:
“Dove sei?” (Genesi III:9)
Rashì
Sapeva dove si trovavano, ma ciò serviva solo a consentire il dialogo, di modo che essi non avessero timore di rispondere, come invece sarebbe avvenuto se li avesse puniti immediatamente.
All’opposto della rappresentazione gnostica del dio malvagio, il Creatore si presenta subito come Colui che, anche dopo la colpa, dialoga con l’uomo rispettandone la libertà. Né Adamo né Eva coglieranno però l’occasione di pentirsi che viene loro offerta. Accusando la donna datagli da Dio di essere all’origine della colpa, Adamo si pretende innocente e accusa Dio:
“È stata la donna che mi hai posta accanto a darmi dell’albero perché ne mangiassi” (Genesi III:12)
Rashì
La donna che mi hai posta accanto. Qui egli dà prova di ingratitudine verso la bontà divina.
La donna adotta a sua volta lo stesso atteggiamento accusando il serpente. Solo allora le sanzioni colpiranno la prima coppia umana che si troverà espulsa dal giardino dell’Eden.
Rashì
Ella aggiunse a quanto le era stato ordinato.
L’ordine e il tabù
Mentre Dio aveva proibito soltanto la consumazione del frutto dell’albero della conoscenza, e non il toccarlo, la donna aumenta l’interdetto trasformandolo allo stesso tempo in tabù e adottando nei confronti dell’albero un atteggiamento magico. È questa la colpa che il serpente utilizza per indurla a trasgredire il comandamento divino.
“Non ne morrai” (Genesi III:4)
Rashì
La spinse finché non le fece toccare l’albero, e allora le disse: Come non sei morta toccandolo, non morirai mangiandone.
Quando l’interdizione divina arriva ad essere assimilata a un tabù, quando la coscienza morale si degrada in una semplice introiezione del super-io, basta condurre l’essere a prendere coscienza dell’inanità del tabù per fargli contemporaneamente rigettare l’ordine divino. Ed è in questo senso che vediamo agire il serpente nei confronti della donna.
A questo punto il commentatore rivela quella che gli sembra essere la natura della colpa:
“Perché Dio sa che nel momento in cui ne mangerete i vostri occhi si apriranno e voi sarete come dei, conoscitori del bene e del male. E la donna vide che l’albero era buono… “Genesi III:5-6)
Rashì
Perché Dio sa… Ogni artigiano odia i suoi simili. Egli ha mangiato il frutto e ha creato il mondo. Voi sarete come dei: formatori di mondi. La donna vide: vide le parole del serpente, esse le parvero belle e accordò loro credito. Che l’albero era buono, per essere come dei.
Il serpente riduce la fabbricazione del mondo a una fabbricazione delle cose da parte del divino artefice. Al Dio Creatore viene sostituita l’idea di un demiurgo che può venir posto sullo stesso piano di un artigiano terrestre. Se è vero che è assorbendo il frutto dell’albero che il demiurgo genera i mondi, non bisogna più dire che Dio è il creatore dell’albero, ma che l’albero ha generato il dio. Stando alla versione del serpente, l’interdizione di consumare il frutto dell’albero si spiega automaticamente. Un tale fabbricatore non può non odiare coloro che pretendono di realizzare la sua stessa opera. Così, seguendo la lettura di Rashì, vediamo il serpente condurre la donna a una concezione gnostica dell’universo. All’opera del dio geloso, l’uomo è invitato a sostituire una creazione nuova, della quale sarà il promotore e che si sostituirà alla precedente.
“Desiderabile agli occhi…”
Il discorso del serpente produce l’effetto desiderato. La prima delle donne sembra particolarmente sensibile al lato estetico di questa interpretazione mitica dell’universo e acquiesce al progetto del tentatore. Adesso l’albero le appare “desiderabile agli occhi in quanto egli le ha detto: E i vostri occhi si apriranno, e atto a risvegliare l’intelligenza come egli aveva detto: conoscitori del bene e del male”. (Rashì sul III-6)
Rashì
Essi non conoscenza il senso del pudore che permette di distinguere fra bene e male, benché fossero dotati della conoscenza dei nomi. Infatti egli non mise in lui la tendenza al male finché non ebbe consumato dell’albero. Allora la tendenza al male penetrò in lui ed egli seppe distinguere fra bene e male.
Stando a questa spiegazione, la conoscenza dell’uomo era stata fino allora di ordine puramente intellettuale. Egli non ignorava totalmente le categorie del bene e del male sul piano dell’intelletto, ma fino a quel momento non ne aveva fatto l’intima esperienza. Esse non erano mescolate al suo essere. Rabbi Chaim di Volozin usa una bella metafora per spiegare questa distinzione fra prima e dopo la colpa nella coscienza dell’uomo. Prima, l’uomo conosceva già la distinzione fra bene e male nel senso che per lui esisteva un interdetto, quello di consumare il frutto dell’albero. Ma il male gli restava esterno, alla maniera di chi viene avvertito di non gettarsi in un braciere. L’effetto della colpa è) l’interiorizzazione della tendenza al male, il fuoco diventa interiore e ormai nessuna conoscenza potrà più essere totalmente innocente.
Vediamo dunque che una doppia preoccupazione animava l’interpretazione di Rashì:
— in primo luogo, evitare l’identificazione pura e semplice della colpa di Adamo con la sessualità, pur lasciando un posto a questa dimensione nella genesi della colpa;
— in secondo luogo, cercare di far comprendere come, anche se posti in uno stato d’innocenza (essi non conoscevano il senso del pudore). Adamo ed Eva erano però degli esseri già responsabili. Altrimenti non si vede come potrebbe venir loro imputata una qualsiasi colpa.
Ci resta da comprendere in qual modo il serpente riesce a trascinare Eva nella colpa e qual’è secondo Rashì la natura della colpa commessa. Per arrivare ai suoi fini, il serpente segue un processo obliquo. In effetti, la logica del desiderio non è mai quella della coscienza pulita o, per usare il vocabolario freudiano, il principio del piacere non saprebbe affrontare direttamente il principio della realtà:
“Dio ha forse detto: Non mangerete di nessun albero del giardino?” (Genesi III:1)
Rashì
In effetti egli aveva visti mangiare altri frutti, ma lo disse per indurre Eva a parlare anche di quell’albero.
Il desiderio comincia a dialogare servendosi di mille astuzie finché non raggiunge quel che vuole: mettere in discussione l’interdetto. Come reagisce la donna a questa impresa del serpente?
“Non lo toccate altrimenti morrete”. (Genesi III:3)
Michel Monheit