L’oggetto ambiguo
Verifichiamo che senso ha oggi per l’ebreo la “mezuzàh”: è un amuleto o è un segno di identificazione?
Una volta il re dei Parti Artabano mandò alla più eminente personalità rabbinica dell’epoca un prezioso dono: una perla rarissima. In cambio, il rabbino (Jehudàh ha Nassi o Rav, secondo le varie fonti) mandò al sovrano nemico una mezuzà. Con stile non proprio regale Artabano non nascose il suo scontento per quello che gli sembrava uno scambio sperequato. La risposta del maestro fu questa: in effetti il re aveva guadagnato nel cambio, anche perché “aveva mandato una cosa che avrebbe richiesto di essere custodita e protetta, mentre aveva ricevuto un oggetto che avrebbe protetto il re anche durante il sonno”.
Questa storia è interessante non solo come documento dei rapporti tra le autorità statali e i rabbini sotto il dominio dei Parti, ma soprattutto come prova del valore che nel corso dei secoli aveva acquistato uno dei più comuni oggetti rituali ebraici, la mezuzà. Si hanno buone ragioni per ritenere che anche ai nostri giorni il rapporto degli ebrei con la mezuzà sia in continua evoluzione, e per questo può essere stimolante verificare i termini con cui si presenta questa questione.
Cosa accadde al vescovo di Salisburgo
Trachtemberg, l’autore di un libro fondamentale sulle magie e superstizioni ebraiche, definisce la mezuzà “un oggetto rituale di carattere ambiguo”, nel senso dei valori magici o religiosi che possono essere attribuiti. Questa bivalenza o ambiguità dell’oggetto sarebbe implicita fin dalle origini, ma appare con piena evidenza nel medioevo. Meìr di Rothenburg dichiarava che “se gli ebrei sapessero quanto è utile la mezuzà, non la disprezzerebbero con tanta leggerezza; essi possono star sicuri che nessun demone può aver potere su una casa in cui è appesa la mezuzà“. Esistono documenti del fatto che nel corso di epidemie di peste furono ordinati controlli sistematici delle mezuzòt da parte delle autorità rabbiniche, nel timore che l’inesatta osservanza della norma potesse smantellare le difese della comunità. L’identificazione dell’oggetto rituale con un prezioso amuleto era diffusa anche nella popolazione non ebraica, che lo guardava con sentimenti di sospetto e di invidia. Si racconta persino il caso del vescovo di Salisburgo che, alla fine del XIV secolo, chiese a un ebreo una mezuzà da attaccare alle porte del suo castello. L’ebreo chiese il parere rabbinico, e il vescovo fu più sfortunato del re Artabano; non gli venne dato l’oggetto sacro, per evitare che i simboli del rito degenerassero in uso palesemente magico.
La storia della mezuzà è dunque fatta dalla costante sovrapposizione di differenti significati. Ma quali erano i significati originari? È ben noto che l’istituzione del rito è legata al comandamento biblico in Deut. 6:9, che impone di scrivere la parola divina “sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte³”. È la stessa parola che va ripetuta ogni giorno, inculcata nei figli, e legata come segno sul braccio e tra gli occhi: di qui l’obbligo dei tefillìn. Preso alla lettera, l’intero brano non può essere letto che come un obbligo sistematico imposto all’ebreo di avere sempre davanti a sé l’evidenza di un segno della parola divina. I valori di questi oggetti sono quindi quelli del segno distintivo e mnemonico. Qualcosa di simile era successo nella storia biblica per un rito compiuto una tantum, alla vigilia dell’uscita dall’Egitto: l’aspersione degli stipiti della porta di casa con il sangue dell’agnello pasquale, affinché l’angelo della morte che passava recandosi a uccidere i primogeniti, potesse riconoscere le abitazioni che non doveva colpire. Il senso generale dell’episodio è che chi vuole essere protetto o liberato, deve avere l’intenzione e anche il coraggio di segnare la porta della propria abitazione.
Anche qui, come per la mezuzà, appare il significato del segno insieme a quello, nuovo, di protezione da un male imminente. Ed è l’altro significato che la mezuzà porterà nei secoli successivi.
La storia di un porta-fortuna
Ma bisogna fare attenzione a come nasce questo significato. Nella storia dell’uscita dall’Egitto solo chi asperge la porta di casa viene risparmiato. Per l’ebreo la liberazione non è automatica, ma presuppone un atto cosciente di identificazione e accettazione di un messaggio comune.
Ora è risaputo che è proprio sul carattere automatico di un segno che si stabilisce la differenza tra religione e magia; non è, al limite, il rito in se stesso, ma il modo in cui esso viene osservato dal fedele. Se dietro all’esecuzione di un atto rituale non c’è la coscienza dei suoi significati religiosi, si crea una specie di automatismo per cui è l’azione o il segno che direttamente diventano portatori di un bene o protettori; e si ha quindi la magificazione del rito. Ovviamente questa eventualità è sempre presente anche nell’ebraismo, e tanto più in quei riti che per analogia con altri usi o per particolari caratteristiche si prestano ad avere un senso protettivo immediato. La mezuzà è il prototipo di questo processo. Il segno messo sulla porta può essere tanto la testimonianza della volontà dell’ebreo di indicare all’esterno la propria condizione e di ricordare il suo impegno personale, quanto l’amuleto porta-fortuna che protegge l’abitazione da ogni male.
Ma come si arriva a questo uso? Il punto di partenza può essere un sentimento profondamente religioso. Il credente ha fede nella protezione divina, e ritiene di meritarla quanto maggiore è il suo impegno di osservanza della volontà divina che si esprime nei precetti.
La mezuzà è un tramite di queste idee, il segno evidente di una scelta. Ma il concetto di protezione emerge nel suo significato più autentico in alcuni brani dello Zohar. Il ragionamento è questo: la mezuzà è un oggetto sacro, che porta il nome divino, e impone quindi rispetto e decoro; un decoro che evidentemente non si ferma all’oggetto, ma coinvolge il luogo nel quale si trova. La mezuzà diventa quindi il mezzo grazie al quale si arriva ad una sacralizzazione dell’abitazione; ed è questo il senso più profondamente religioso del concetto di protezione della casa. È chiaro che da questa posizione, se non si tiene conto dei valori religiosi impliciti e collegati, lo scivolamento nel magico è un rischio sempre presente, anche se, prima di arrivare a considerare la mezuzà un semplice amuleto, i livelli di commistione tra religione e magia sono numerosi.
La magia del maghèn David
Abbiamo proposto queste considerazioni all’attenzione dei lettori perché ci sembra che valga la pena di riflettere sul significato e le intenzioni che nelle nostre comunità sono oggi collegate a questo rito. Si ha l’impressione, non sappiamo fino a qual punto giustificata, che ciò che nel medioevo era diventato un amuleto sia tornato ad essere il segno mnemonico e di identificazione che era alle origini bibliche. Se qualche lettore si è stupito per le notizie sull’uso medioevale della mezuzà, ciò potrebbe essere già un segno di come oggi certi valori, deteriori se non approfonditi nelle loro origini, sono stati dimenticati. Si può anche dire che il valore di segno di identificazione viene ribadito anche quando la norma non è rispettata come di dovere, e la mezuzà viene affissa all’interno della porta di casa: il che indica timore di mostrare all’esterno il segno della propria condizione; dunque lo stesso valore, al negativo.
Che significato ha, d’altra parte, la mezuzà che viene portata al collo? Certo non è in quel momento un oggetto rituale, ma non è neppure, almeno esclusivamente, un amuleto. La carica di significati è polivalente: vi si intrecciano, condizionati in questo caso dall’esperienza personale, valori di portafortuna insieme a quelli di segno distintivo. E lo stesso accade per la stella ebraica portata al collo: alle origini dell’uso ebraico non era un segno di ebraismo, ma di protezione magica; oggi è il simbolo dell’ebraismo, e come tale la si porta molto spesso al posto degli altri segni tradizionali (come, per l’uomo, il piccolo tallèt). In questo caso c’è anche una scelta tra valori religiosi e valori storico-nazionali. Ne consegue che un approfondimento dei simboli della mezuzà oggi non è un discorso puramente religioso, ma coinvolge direttamente e in modo stimolante il problema dei modi e dei segni della nuova identificazione con l’ebraismo; e anche il problema più generale dei rapporti dell’uomo con la realtà e dei mezzi che usa per sentirsi sicuro davanti ai pericoli che lo minacciano.
Riccardo Di Segni