Per il tuo e per il nostro bene
In genere si usa dividere le preghiere in “spontanee” e “riflesse”: le prime, com’è naturale, variano da persona a persona, mentre le seconde, codificate nei testi della liturgia, sono uguali per tutti gli uomini e per tutti i momenti.
La questione che si pone è quale sia la forma di preghiera da preferire. È una questione che si è sempre posta e che sempre ha suscitato opinioni contrastanti.
Rabbi Jehudà Ha-levì (1) scrive:
“I vantaggi di (pregare in) una congregazione sono molti: primo, le congregazioni non pregano per ottenere qualcosa che possa danneggiare i singoli, mentre i singoli possono prega per qualcosa che potrebbe danneggiare altri singoli, e fra questi singoli può trovarsi qualcuno che prega per recare danno agli altri componenti della congregazione. Chi prega privatamente per le proprie necessità, è simile a chi procura di consolidare solo la propria casa e si rifiuta di aiutare i suoi concittadini a rinforzare le mura della città: costui spende molto e rimane esposto alle spese della congregazione, spende poco e vive al sicuro”.
Maimonide (2) sostiene invece che “
… il numero delle preghiere e il loro testo non sono (stati stabiliti) dalla Torà. La preghiera non ha tempi fissi… L’obbligo di adempiere a questo precetto va così inteso: l’uomo preghi e supplichi ogni giorno il Signore, poi chieda ciò di cui ha bisogno… e (infine) lodi il Signore per il bene che gli ha elargito — ognuno a seconda delle sue capacità… Alcuni possono pregare una volta al giorno e altri molte volte… In tal modo si svolgevano le cose dai tempi di Mosè fino a Ezrà. A causa dell’esilio… la lingua si è confusa e il linguaggio dei figli (d’Israele) è diventato un miscuglio di diversi idiomi. E siccome gli ebrei parlando non erano più in grado di esprimersi in maniera chiara e in un’unica lingua comune… Ezrà e il suo Tribunale fissarono diciotto benedizioni (3) nel seguente ordine: le prime tre a lode del Signore e le ultime tre di ringraziamento, mentre le centrali esprimono le richieste per ogni necessità…
Mentre Jehudà vede sempre in agguato nella preghiera del singolo il pericolo che possa condurre all’egoismo e al disinteresse nei confronti della collettività, Maimonide ritiene che solo dei motivi storici e pratici portarono alla compilazione di un testo di preghiere, e per lui, in linea di principio, la tefillà spontanea rimane preferibile.
A sostegno della tesi di Maimonide, possono essere adottate tutte le preghiere che si trovano sparse nella Bibbia e che sono attribuite a vari personaggi come Mosè, Channà, Salomone, David… Infatti solo tre preghiere che compaiono nei testi sacri hanno una formula fissa: la benedizione sacerdotale (4), la dichiarazione-preghiera che viene fatta al momento della presentazione delle primizie (5) e la confessione-dichiarazione che segue il prelievo delle decime (6).
Anche se vengono ricordati nella Bibbia (7), dei tempi fissi per le preghiere derivavano da una consuetudine popolare, che solo successivamente si è consolidata e, col tempo, è diventata una regola. La situazione storica in cui venne a trovarsi il popolo ebraico determinò quindi in gran parte lo sviluppo e il non-sviluppo della tefillà. Ad ogni modo, la tradizione non solo non nega la possibilità di dire preghiere spontanee, ma mette in guardia dal fare della tefillà un fatto meccanico e abitudinario, nel quale sarebbe impossibile introdurre quegli elementi nuovi che servono a vivificarla (8).
Sull’opportunità di eccedere nel numero delle preghiere, i Maestri del midrash esprimono opinioni contrastanti.
“Ci insegni il nostro Maestro: quante preghiere deve dire al giorno un uomo? Così hanno insegnato i nostri maestri: non si dicono altro che le tre preghiere stabilite dai patriarchi (9) …mentre Rabbi Jochannan diceva: volesse il cielo che l’uomo pregasse tutto il giorno!
Antonino chiese a Rabbi Jegudà: “È possibile pregare in ogni momento?”
Gli rispose R. Jehudà: “Perché l’uomo non si comporti con leggerezza nei confronti del Signore”.
Antonino non accettò la risposta.
Che cosa fece allora Rabbi Jehudà? Si alzò di buon mattino e andò a dirgli: “Oh venerabile Signore!” Dopo un’ora rientrò da lui e gli disse: “Oh, Cesare!” Non era passata un’altra ora che gli andò a dire: “Salve, o Re!” Gli disse Antonino: “Perché disprezzi in questo modo il Re?” E Rabbi jehudà: “Ascoltino le tue orecchie quel che dice la tua bocca. Se tu, che sei solo un re di carne e sangue, scorgi un atto di spregio nei saluti che ti perseguitano a ogni istante, a maggior ragione il Re dei Re non deve essere importunato di continuo (10).
Di avviso contrario a Rabbi Jehudà era Rabbi Pinechas (che riferiva una opinione già espressa da Rabbi Zeirà): “L’uomo ha un patrono, ma quando lo infastidisce troppo, questi dice: “Avete mai visto un altro come costui, capace di tormentarmi in questo modo? Ma il Santo, benedetto sia, non dice così: per quanto tu possa infastidirLo, Egli è sempre disposto ad accogliere (la tua preghiera)” (11).
Comunque, anche quando dicono di non eccedere nel numero delle preghiere, i Maestri sono i primi a sottolineare l’importanza di una preghiera che non sia solo la ripetizione di formule sempre identiche.
Le cause del congelamento e, in definitiva, dell’impoverimento della Teofillà sono da cercare altrove: l’introduzione della stampa innanzi tutto, che ha finito col “consacrare” i testi delle preghiere così come si erano andati formando in generazioni di maestri e poeti; l’esilio e i mancato uso della lingua ebraica parlata, che ha dissuaso i più dall’introdurre cambiamenti che non avrebbero potuto essere espressi in modo soddisfacente. È opportuno ricordare che la Halachà consente per le preghiere l’uso di qualsiasi lingua (12): almeno in quello che rappresentava l’ultimo “territorio” sul quale poteva ancora in qualche modo comandare, l’ebreo ha voluto conservare la lingua ebraica come simbolo dell’unità del popolo ebraico nel passato e nel presente.
La non-comprensione del testo delle tefillot ha però giocato anche in senso positivo: l’ebreo infatti ha potuto tranquillamente riempire di contenuti personali parole comuni a tutti, conferendo loro di volta in volta il significato adatto alla situazione del momento.
La tefillà è nuovamente assurta a momento fondamentale e spontaneo della vita ebraica con il Chassidismo. Questo movimento ha arricchito la preghiera soprattutto con canti e melodie sempre nuovi: la melodia, coi suoi richiami e le sue variegate sfumature, ha contribuito (e può ancora contribuire) ad arricchire i contenuti della preghiera (13).
L’uomo moderno vive lontano dal mondo della preghiera: è necessario quindi cercare di riavvicinarlo all e sue fonti e alla sua problematica. La teofillà, anche quella pubblica, può essere resa più viva e più accessibile alla partecipazione del singolo, solo se si fa uso dell’ampio spazio che la Halachà lascia a nostra disposizione, in modo che le nostre preghiere diventino più autentiche.
A proposito della tefillà come mezzo di espressione della verità, si racconta (14) che una volta il Giusto Rabbi Moshè Teitelbaum, il suo ricordo sia di benedizione, prima del “Kol nidrè” disse: “Padrone del Mondo! Tu conosci la verità e sai che io sono la peggiore delle persone, ma sai pure che io ho sempre cercato la verità. È questa una qualità che ho sempre avuta: sin da bambino non ho mai detto una menzogna. E io Ti dico adesso: Padrone del Mondo! Se Moshè figlio di Channa (15) avesse saputo che sarebbe arrivato, non lo avrebbe potuto sopportare. Ma Tu, Padrone del Mondo, hai rinviato la sua venuta di giorno in giorno finché quel poveretto è diventato vecchio… Ebbene io Ti chiedo, Padrone del Mondo, che il Messia venga adesso. Non lo chiedo per il mio bene, ma per il Tuo bene, che Tu sia benedetto, affinché il Tuo nome venga santificato pubblicamente…”.
Shalom Bahbout
(1) Sefer ha-kuzaraì, III, 19.
(2) Mishnè torà, Hilchot tefillà cap. 1°, 1-5.
(3) Nei testi rituali si usa la parola “teofillà” per indicare la preghiera delle diciotto benedizioni (‘Amidà o shemonè ‘esrè).
(4) Numeri, VI, 22-27.
(5) Si tratta del “Mikrà-bikkurim”, Deuteronomio, XXVI, 1-11.
(6) “Viddui ma’astrot”, Deuteronomio, XXVI, 12-15.
(7) Salmi LV, 18 e Daniele VI, 11.
(8) Mishnà Berachot, IV, 4; Shulchan ‘aruch, Orach Chajim 119 e 107.
(9) Secondo i Maestri, Abramo, Isacco e Giacobbe avrebbero istituito rispettivamente la preghiera del mattino del pomeriggio e della sera.
(10) Midrash Tanchumà, Mikkez.
(11) Talmud di Gerusalemme, Berachot IV.
(12) Mishnà, Sotà VII, 1; Shulchan ‘aruch, Orach Chajim 101, 4.
(13) L’opportunità di cambiare i canti delle preghiere è contestata dal ReMà (Rabbi Moshè Isserles, le cui decisioni sono di norma accettate tra gli ebrei ashkenazim), Orach Chajim, 619.
(14) Vedi “Jamim noraim” di S.J. Agon pag. 286.
(15) Cioè, Teitelbaum stesso.