L’aborto secondo la concezione ebraica
Questo articolo è un compendio di una conversazione che il Dr. Rav Menachem Emanuele Artom ha tenuto per incarico del DAC in varie città d’Italia.
Alla base del problema “come considerare l’aborto dal punto di vista della halakhà”, sta il principio che un feto non è ancora un individuo vitale completo, e che quindi chi lo sopprime non è considerato un omicida, un individuo cioè che, secondo il Torà, dovrebbe essere condannato a morte. Ciò non significa naturalmente che la soppressione di un feto sia un atto commendevole, e neppure lecito, ma solo che è una colpa meno grave dell’omicidio.
In determinate situazioni questa considerazione ha, come vedremo subito, un’importanza pratica. Non vi è dubbio che, in via generica, l’ebraismo consideri colpevole l’aborto procurato e questo per due motivi: a) la soppressione di un essere umano vivente, anche se non ancora completo né sicuramente vitale, è vietata; b) qualunque pratica sul nostro corpo, che vi causi una ferita o che comunque porti ad un qualsiasi pericolo, è proibita. È quindi proibito alla donna procurarsi l’aborto e ad altri di procurarglielo.
Lo slogan oggi tanto comune “io sono mia” sta esattamente agli antipodi della concezione ebraica, in base alla quale nessuno di noi è padrone del proprio corpo: ognuno ha il dovere di conservarlo come è, nelle condizioni migliori, e di usarlo in base alle Mizvoth della Torà. Se esso è stato usato per la procreazione — e non importa se l’atto della procreazione è avvenuto o meno nelle circostanze ammesse dalla halak–hà — nessuno ha il diritto di interrompere il processo di procreazione.
Però, non essendo l’aborto un omicidio, sussiste di fronte ad esso il grande principio ebraico secondo il quale per garantire la salvezza di una vita umana (cioè di un essere vitale), è lecito e doveroso infrangere ogni altro divieto. È perciò opinione generalmente diffusa tra i Maestri di oggi che, qualora un medico onesto e coscienzioso soffermi che la continuazione di una gravidanza mette in pericolo la vita della madre, è lecito e probabilmente doveroso interromperla, sempre che i rischi dell’aborto siano minori per la madre che non quelli della continuazione della gravidanza; e qualora la donna si opponga alla disposizione medica di interrompere la gravidanza, sarebbe doveroso dei Maestri della Torà spiegarle che il suo atteggiamento, senza dubbio frutto di grande spirito di abnegazione, è in realtà contrario alla normativa, alla morale ed allo spirito dell’ebraismo.
La situazione si fa più problematica nei casi in cui i medici ritengano che, se non si interrompe la gravidanza, il nascituro avrà vita brevissima e travagliata o malformazioni tali da condannarlo alla sola esistenza vegetativa o poco più, comunque ad una vita di terribili e continue sofferenze per se stesso e per i suoi familiari. In questi casi la grande maggioranza delle autorità rabbiniche ritiene l’interruzione della gravidanza lecita, e forse anche doverosa, ma non manca anche chi la ritiene proibita.
Alcuni Maestri ritengono che si può procurare l’aborto anche quando la gravidanza è la conseguenza di una violenza o di un incesto, è però indiscutibile che in nessun caso l’aborto può esser procurato perché i genitori non vogliono addossarsi l’onere economico di una bocca di più da sfamare o, tanto meno, se pensano di disfarsi del frutto della loro unione per potersi permettere maggiori lussi o maggiori agi. Così pure non può essere ammesso l’aborto per favorire una ragazza in procinto di divenire madre, solo perché “si vergogna” di affrontare la sua condizione di “ragazza-madre”. In tutti questi casi si sarebbe dovuto pensare alle conseguenze prima di compiere atti che potevano portare alla procreazione, e il fatto che non ci si sia pensato non può costituire un motivo valido per defraudare della vita un innocente. L’incertezza che perdura su alcuni dei problemi inerenti all’aborto è dovuta al fatto che molto spesso si tratta di una casistica nuova e probabilmente sconosciuta nel periodo classico della Halakhà. Questa nuova casistica si affaccia con tutta la sua intensità al seguito del processo assimilatorio sempre più grave. La permissività e la licenziosità in campo sessuale sono purtroppo penetrati anche tra gli ebrei, per i quali la santità della famiglia era forse rimasta l’ultimo baluardo valido. Trattare perciò dell’aborto senza cercare di porre un freno alla situazione di licenziosità che si è venuta creando, non ha senso: sarebbe come cucinarsi per pranzo una braciola di maiale, e prima chiedersi se va messa sotto sale oppure no! Il fatto è che, anche in campo sessuale, bisogna rieducare gli ebrei alla disciplina della Halakhà, che proibisce ogni rapporto extraconiugale sia all’uomo che alla donna, e regola anche i rapporti tra i coniugi.
Se gli ebrei si uniformassero alla Halakhà su questa base e non si limitassero solo a chiedersi se l’ebraismo è o meno abortista, i casi in cui si porrebbe il problema se un certo aborto è lecito, sarebbero infinitamente meno numerosi e probabilmente di più facile soluzione.
Menachem Emanuele Artom