“Togliti il berretto, malnato!”
“Togliti il berretto, malnato!”. Così, in una ormai ridicolmente celebre pagina del Cuore di De Amicis, viene rimproverato il cattivo giovane che al passaggio dei soldati con la bandiera non ha fatto il doveroso gesto di saluto. Scoprirsi il capo è nella società in cui viviamo un gesto automatico, che segnala simbolicamente rispetto e, alle sue origini più lontane, sottomissione. È uno dei numerosi segni carichi di simboli che vengono trasmessi da secoli e ripetuti senza neppure riflettere sul loro significato. Togliersi il cappello è, nel caso particolare, un segno proprio della cultura “occidentale”. Paradossalmente gli ebrei hanno ricevuto e trasmetto nella loro tradizione un gesto opposto nella forma, per esprimere lo stesso concetto di rispetto: di fronte alla persona o al luogo da onorare, l’ebreo si copre il capo. Questa opposizione di forme non è il solo elemento interessante del problema; c’è infatti il fato della progressiva importanza che questo gesto ha assunto nell’ebraismo, tanto da farlo diventare uno dei suoi segni esteriori più caratteristici. Questo, malgrado origini relativamente recenti dell’uso, e contro l’idea generalmente diffusa, ma storicamente errata, della sostanziale immobilità dell’ebraismo nei suoi riti e nei suoi modi di espressione. Anche tra gli ebrei stessi, poi, si sono diffuse delle idee sbagliate in proposito: come quella che si debba stare a capo coperto soprattutto dentro casa; o l’opinione che il rito sia tanto recente e artificiosamente estraneo all’ebraismo, da non essere contemplato in nessuno dei principali codici. La storia del rito è ben diversa da questi giudizi superficiali. Proviamo a ricostruirla brevemente.
Mosè portava il cappello?
È certo, intanto, che nella Bibbia questo uso non è esplicitamente menzionato. Un copricapo speciale (detto miznèfet, e tradotto generalmente con “turbante”, perché come questo veniva avvolto intorno al capo e perché il termine dà subito l’idea di orientale) faceva parte del corredo sacerdotale (v. Es. 29:6 e altrove); ma questo non vuol dire che al di fuori dell’ambito sacrale fosse diffuso l’uso del copricapo. La mancanza di notizie in proposito nella Bibbia è all’origine di una divertente parodia dei metodi del midràsh:
“Da dove si deduce nella Toràth, ci si chiese, l’obbligo della copertura del Capo? È semplice, si risponde, dal verso che dice ‘Mosè andò…’ (Dt 31:1). Il ragionamento è questo: è forse pensabile che Mosè, il massimo profeta, camminasse a capo scoperto? Da ciò dunque si deduce ‘con certezza’ l’origine biblica del rito”. Ma a parte questa autoironia, forse una lontana traccia delle origini del rito si può dedurre dal brano alla fine del cap. 33 dell’Esodo, dove è detto che al passaggio della presenza divina Mosè si deve nascondere in una cavità rocciosa, ed è la stessa divinità che in un’immagine antropomorfica copre con la sua mano Mosè perché non la veda. In pratica l’idea è quella di coprirsi in presenza di un’entità potente. Lo stesso concetto ritorna in un’altra teofania, in 1° Re 19:13, che ha per protagonista Elia, il quale si avvolge il viso nel suo mantello.
Aspetti pratici di osservanzaLe particolari origini del rito spiegano diverse gradualità nella sua applicazione pratica. L’ideale sarebbe restare sempre a capo coperto; in pratica, almeno secondo la maggioranza degli autori, l’obbligo principale si riferisce all’uso del copricapo quando si cammina per più di due metri a cielo scoperto. È inoltre chiaramente proibito restare scoperti in Sinagoga, dove evidentemente la sacralità del luogo esige un segno di rispetto. La copertura del capo è poi obbligatoria durante la recitazione delle benedizioni e di altre preghiere, quando si ricorda il nome divino e quando si studiano testi sacri.Anche sulla natura del copricapo ci sono dati interessanti: ogni tipo di cappello va bene in linea di massima; ma sulla possibilità di coprirsi la testa con la mano ci sono opinioni contrastanti, e in genere la si permette solo in casi particolari, come a chi vuol bere un bicchiere d’acqua di notte.Proprio sul tipo di cappello esistono usi e tradizioni differenti, che da sole potrebbero costituire oggetto di una trattazione a parte. asti pensare all’antica consuetudine di non usare la comune kippàth in Sinagoga, perché considerata poco rispettosa relativamente a cappelli veri e propri; usanza che fino a poco tempo fa sopravviveva nelle maggiori Sinagoghe italiane, successivamente limitata nell’applicazione ai soli esecutori di mizwòt (guai, ad esempio, a portare Sefer senza lobbia!). In Italia ciò sembra un ricordo del passato; ma a Londra, nelle Sinagoghe Spanish and Portoguese, i fedeli ancora indossano appositi cilindri grigi. Una versione attuale della polemica sociale e di costume che si può creare dietro al simbolo della kippàh è il significato che questa assume in Israele secondo le sue varie specie: la kippàh serugàh, lavorata a uncinetto, è segno di una posizione religiosa piuttosto moderna, del tipo di quella sostenuta in Italia dai Benè Aqivà; mentre l’austero copricapo nero è in genere segno di collocazioni molto più rigorose. |
Che cosa dice il Talmùd
Le fonti più antiche ed esplicite sulla copertura del capo le troviamo invece nella letteratura talmudica. Rav Hunà figlio di Rav Jehoshua non camminava per quattro cubiti (circa 2 m) a capo scoperto, perché “la presenza divina era sopra al suo capo” (TB Qiddushìn 31 a). Altrove si attribuisce alla copertura del capo una funzione preventiva delle trasgressioni, e si racconta della madre di un cleptomane che stava attenta a tenere sempre coperta la testa del figlio, perché si ricordasse in ogni momento delle sue pericolose tendenze, e una volta che il vento aveva fatto volare via il cappello, l’istinto di rubare aveva avuto la prevalenza (TB Shabbàt 156b). In un altro brano, che ha per protagonista Rabbì Aqivà, si considera un grave affronto presentarsi davanti ai maestri a capo scoperto (Kallàh Rabbatì 2). Da queste fonti la copertura del capo sembra essere un uso di particolare pietà religiosa, e una forma di rispetto: per cui i discepoli devono coprirsi davanti ai maestri, e i maestri stessi, che sentono più viva e vicina la presenza divina, non devono neppure camminare scoperti. A queste deduzioni Maimonide aggiunge il significato di un atteggiamento di modestia e prostrazione nei confronti della presenza divina. Tra gli autori che decisero la regola pratica, si sviluppò una polemica sulla natura dell’obbligo che poteva derivare dall’esempio dei primi maestri: in quali termini, praticamente, quello che anticamente era un gesto di particolare pietà dovesse coinvolgere l’intera comunità. L’orientamento generale è stato per l’estensione dell’uso, anche perché si è aggiunta una seconda motivazione: la diffusione della copertura del capo è divenuta una pratica così generale nella comunità ebraica, che ha assunto anche il significato di una distinzione nazionale: pertanto chi rifiuta questo segno è come se rifiutasse un simbolo di appartenenza all’ebraismo (Ma.Ha.R.Sha.L.). Il principio qui sottinteso è che in questo, come in altri casi, i segni esteriori dell’appartenenza alla propria comunità debbano essere mantenuti. Tanto più se i costumi locali sono differenti. In sostanza, la copertura del capo, per quanto di recente introduzione, è diventata un segno importante di partecipazione alla tradizione ebraica, con un duplice significato: come segno di distinzione e come portatore di una specifica carica simbolica che si può riassumere in questo concetto: il riconoscimento continuo, con un segno sopra il proprio capo, della costante presenza sopra all’uomo di una realtà superiore.
Riccardo Di Segni