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La Tevà assimilata
Se osserviamo la pianta della grande maggioranza delle sinagoghe del mondo e di tutte quelle italiane antiche (cioè precedenti al XIX secolo), constatiamo che la Tevà, il luogo da cui il Chazzan recita le Tefilloth e il Qorè legge i passi biblici, si trova in una posizione funzionale, tale cioè da rendere il più facile possibile al pubblico di seguire l’ufficiatura e di sentir bene quello che si recita o si legge (fa eccezione lo ‘Ammud delle sinagoghe askenazite, la cui localizzazione ha particolari ragioni storiche, su cui non ci intratterremo qui). La Tevà si trova infatti generalmente al centro della sala destinata al culto o all’estremità opposta a dell’Aron ha-Qodesh, e cioè sul lato occidentale. La Tevà ad Occidente si trovava in tutte le antiche sinagoghe del Veneto e così pure, nelle famose “cinque scole” di Roma.
Durante il secolo scorso, in vari Paesi occidentali tra cui l’Italia, si pese il vezzo di imitare le chiese, in special modo quelle cattoliche, nella disposizione interna delle varie parti del Beth ha–Keneseth, e così sono sorte le sinagoghe monumentali di Torino, Firenze, Trieste, Toma, Genova e di altri luoghi, nelle quali la Tevà è posta a ridosso dell’Aron ha–Qodesh. Il Chazzan ed il Qorè si trovavano così a rivolgersi al muro orientale invece che al pubblico, la cui partecipazione e attenzione diventano quindi praticamente nulle o almeno estremamente limitate e difficoltose. L’introduzione di questa pianta è, come si è detto, un’evidente imitazione di quella tradizionale delle chiese cattoliche nelle quali, almeno secondo la concezione prevalente allora, l’officiante è un “sacerdote” che compie un certo rito di cui il pubblico non è parte attiva.
Il vezzo di imitare le chiese cattoliche ha fatto sì che antiche sinagoghe dalla struttura funzionale, assumessero in occasione di restauri o di rimaneggiamenti una pianta simile a quella delle chiese, e ne abbiamo tre esempi lampanti nelle sinagoghe di Asti, di Casal Monferrato, e, fino a poco tempo fa, nella Scola Spagnola di Venezia.
Negli ultimi anni si è avvertita l’incongruenza di questa collocazione della Tevà a ridosso dell’Aron ha–Qodesh, ed in varie Comunità (Roma, Trieste, Firenze e forse anche altre) si è presa l’abitudine di rivolgere il tavolo, e quindi la faccia dell’officiante, verso il pubblico, vuoi per la sola lettura della Torà, vuoi, in alcuni luoghi, anche per altre parti della Tefillà, al fine di rendere le letture più intelligibili.
È dovuto solo a una coincidenza fortuita se questo cambiamento avviene quasi contemporaneamente allo spostamento dell’altare nella chiesa cattolica? Che nello spostamento del Qorè, o magari del Chazzan, si debba vedere un altro elemento di imitazione delle chiese, ossia di assimilazione, o se la somiglianza dei due fenomeni sia casuale è una questione fondamentale. È bene salutare questa innovazione come un passo tendente a restituire alla Tefillà pubblica il suo vero carattere, cioè come un passo fatto per eliminare un elemento di assimilazione; ma a mio modesto parere questa soluzione non è soddisfacente.
In primo luogo durante tutto il periodo in cui è rivolto verso il pubblico, come Qorè o il Chazzan volta le spalle in una posizione contraria a tutti gli usi e non certo riguardosa per il Sifrè Torà. In secondo luogo, il rito vuole che alcune parti della Tefillà pubblica, e specialmente la ripetizione della ‘Amidà che ne è l’elemento essenziale, non possono essere recitate se non quando l’officiante è rivolto verso l’Aron ha–Qodesh, e così si annullano i benefici dell’innovazione.
La soluzione da mettere in atto deve essere più radicale. Alla prima occasione di restauri o di ristrutturazioni di qualsiasi sinagoga in cui la Tevà sia a ridotto dell’Aron ha–Qodesh, bisogna spostarla al centro o, meglio, all’estremità occidentale, e restituirla così alla sua primitiva funzione.
Non piccole sono state la mia soddisfazione e la mia commozione rientrando quest’anno nella Scola Spagnola di Venezia dove, senza badare a spese, è stata realizzata una decisione presa alcuni anni or sono dal Consiglio di quella Comunità su proposta da me presentata quale rabbino di quella città. La Tevà, spostata circa un secolo fa, vi è stata rimessa al suo posto all’estremità occidentale, restituendo così al locale il suo armonioso aspetto originale e, soprattutto, rendendo l’officiatura più intelligibile al pubblico che ne diviene automaticamente più partecipe.
Mi sembra che l’esempio di Venezia vada additato alle altre città, e vorrei augurarmi che i restauri in progetto per il Tempio di Roma comprendano anche lo spostamento della Tevà ad ovest o almeno al centro, e che così pure facciano, in occasione di restauri o anche ad hoc, le altre Comunità la cui sinagoga ha la disposizione antifunzionale del tipo trattato. Una tale azione assumerebbe anche un significato simbolico, in quanto costituirebbe un passo tangibile nel cammino a ritroso dall’assimilazione, e credo che sia ormai ben chiaro che il mettersi su un tale cammino costituisce la sola possibilità di sopravvivenza per l’ebraismo italiano. Possano i Bathè–Kenesijoth, le case di riunione del popolo, essere il simbolo dell’inizio della ripresa verso la sopravvivenza stessa.
Menachem Emanuele Artom