La tefillà e l’uomo moderno
La preghiera influenza le decisioni di Dio?
Nel nostro primo articolo (vedi Alef-Dac n. 3) abbiamo appena sfiorato una questione che potrebbe venire così enunciata: quale influenza esercita la preghiera sulle decisioni divine? Proviamo a rileggere la preghiera di Chonì Ha-me’aghel e insieme ad essa leggiamo la preghiera che Mosè rivolge a Dio dopo che gli ebrei si sono costruiti il vitello d’oro (1). Vedremo che il Signore, non solo ascolta le preghiere, ma in alcuni casi arriva a revocare le Sue condanne.
Per convincere Dio a revocare la condanna minacciata contro gli ebrei, nella sua preghiera Mosè si serve di ben tre argomenti che però Dio conosce già (2). Viene quindi spontaneo chiedersi quali siano i ruoli di Mosè e della sua preghiera in questa particolare vicenda.
Il giusto comanda e Dio esegue
Il Talmud (3) dà una prima risposta a questa domanda.
Disse Rabbi Izchaq: «Come mai la preghiera dei giusti è stata paragonata al tridente (4)? Perché, come il tridente rimuove il prodotto del campo e lo porta da un luogo all’altro, così la preghiera dei giusti sposta gli attributi del Santo, benedetto sia, e l’attributo di misericordia sostituisce così quello di giustizia».
Seguendo il pensiero di Rabbi Izhaq, possiamo formulare la seguente ipotesi: il Signore, in cui sono presenti giustizia e misericordia, giudica in base a criteri di assoluta equità, ma prima di emettere una condanna desidera ascoltare dai Giusti tutte le giustificazioni che essi possono addurre in difesa degli individui o dei popoli che hanno peccato. Pregado Mosè, che è il giusto per eccellenza, rinuncia al suo ruolo di portavoce di Dio, si fa avvocato difensore e arriva ad assumere il ruolo che dovrebbe spettare al divino attributo di misericordia. Come conseguenza, le decisioni di Dio non subiscono alcuna modifica, ma il ruolo dell’uomo assume un’importanza determinante nella deliberazione dei decreti divini.
Il Talmud (5) interpreta e descrive tutta la vicenda in modo pittoresco e quasi blasfemo: «Or dunque, lascia che la mia ira si accenda contro di loro e che io li distrugga, e farò di te una grande nazione» (6). Dice Rabbi Abahu: Se non si trattasse di un passo biblico, non sarebbe possibile affermare una cosa simile. Il testo infatti insegna che Mosè agguantò il Santo, benedetto sia, come farebbe un uomo afferrando il compagno per i vestiti, e gli disse: «Padrone del mondo non ti lascerò andar via finché non avrai condonato la loro colpa e non li avrai perdonati».
Sempre Rabbi Abahu, sostiene poi in maniera anche più categorica l’importanza delle preghiere del Giusto (7). È scritto: «Il Dio d’Israele mi ha detto, mi ha parlato la Rocca d’Israele: Quando un giusto regna sugli uomini, il timore di Dio predomina» (7b). Qual’è il significato del testo? Dice Rabbi Abahu: Il verso va inteso così: «Il Dio d’Israele disse… io comando sull’uomo. Chi comanda su di me? Il Giusto!»
Di tutt’altra opinione è invece Ramban (8). Egli sostiene infatti che la preghiera e il suo eventuale esaudimento fanno parte dei grandi miracoli divini non manifesti. «… Anche se non determinano un cambiamento evidente nella natura del mondo, le nostre preghiere comportano meravigliosi prodigi (9)».
La preghiera ha quindi la possibilità di modificare il naturale processo della storia, anche quando ciò non appare evidente. La posizione di Ramban contiene anche una venatura di polemica contro quanti sostengono che Dio si disinteressa delle vicende umane.
Se l’uomo cambia se stesso…
La questione dell’influenza della preghiera sulle decisioni di Dio, trova ampio spazio nel «Sefer ha–‘iqqarìm» di Josef Albo (10). Albo sostiene che i dubbi dell’uomo sulla potenza della preghiera sono in fondo equivalenti all’incertezza che lo portano a mettere in discussione l’esistenza di Dio: Se Dio ha già preso una decisione, come potrebbe una preghiera modificare la Sua volontà? Albo risolve la questione asserendo che la modifica delle decisioni divine è strettamente collegata alla misura in cui l’uomo è disposto a cambiare il proprio atteggiamento (11): «… la volontà di Dio è stata la stessa fin dall’inizio. Il decreto divino si realizza, cioè, solo se in una data situazione l’uomo mantiene un certo atteggiamento e di conseguenza una modifica nell’atteggiamento dell’uomo determina il mutamento della decisione divina». Secondo Albo quindi, la preghiera può modificare la situazione solo se chi prega è disposto a cambiare se stesso.
Sulla questione sono state recentemente espresse due opinioni diverse.
Dio non è un mezzo
Jeshajahu Leibowitz (12) considera la tefillà come una forma di servizio (‘avodà), che l’uomo ha l’obbligo di compiere non tanto per soddisfare i propri bisogni psicologici ed esistenziali, quanto per adempiere a una mizwà. In questa ottica la tefillà spontanea ha un valore religioso decisamente inferiore perché, anche se consentita, fa parte di comportamenti che non sono stati comandati: chi prega in questa condizione, fa dell’uomo un fine e di Dio un mezzo per soddisfare i suoi bisogni. Scrive Leibowitz (13): «… l’obbligo religioso di “dire la preghiera con intenzione” non ha significato né valore, se non lo si intende nel senso che l’uomo, quando prega e si serve delle formule stabilite della preghiera codificata, deve avere l’intenzione di compiere un atto di ‘avodat hashem (servizio del Signore). Non è possibile obbligare l’uomo – cioè ogni uomo e in ognuno dei mutevoli frangenti della vita – a porre sempre la medesima intenzione nel pronunciare le stesse lodi e le stesse richieste che, in alcune condizioni, non si confanno ai suoi bisogni e ai suoi sentimenti. Perciò proprio la preghiera che l’uomo dice in quanto obbligatoria e non perché mossa dai suoi sentimenti e dai suoi bisogni – proprio quella e soltanto quella – ha il significato di un atto religioso di accettazione del gioco del Regno Celeste, della Torà e dei precetti…». Per Leibowitz, quindi, la vera tefillà è quella che l’uomo fa nel momento in cui non avrebbe alcuna «voglia» di pregare e proprio quando lo risente come un obbligo. È ovvio allora che non si può parlare di tefillà spontanea ma di tefillà d’obbligo, codificata nella liturgia.
La tefillà come mezzo per completare l’uomo
Di diverso avviso è invece Rabbi Avraham Itzchaq ha-kohen Kuk (14). Egli non pensa che la preghiera possa modificare le decisioni divine, ma vede in essa il mezzo più efficace a disposizione dell’anima umana per riavvicinarsi a Dio. Secondo Rav Kuk c’è una differenza sostanziale tra l’essenza divina, non suscettibile di mutamenti, e l’immagine di Dio visto come padre e come re. Solo nei casi in cui Dio si presenta come padre o come re si può parlare di cambiamenti prodotti dalla preghiera. Quindi, sempre secondo Rav Kuk, la preghiera trasforma l’uomo e serve a innalzarlo purificandolo (15): «… chiunque prega deve capire che la preghiera è una legge meravigliosa stabilita da Dio nel Suo mondo, affinché le Sue creature si completino seguendo tutte le vie che portano all’integrità, e realizzino in particolare quel completamento morale di sé da cui la preghiera fiorisce…». La tefillà ha quindi un valore intrinseco, anche se non arriva a modificare le decisioni di Dio e il destino dell’uomo. L’uomo è l’unico essere dotato della possibilità cosciente di elevarsi con la preghiera e di purificarsi per arrivare fino a Dio.
Shalom Bahbout
(1) Esodo, cap. 32°, vv. 7-14.
(2) Vedi l’articolo «La forza della preghiera», di J. Zegdun in questo numero di Alef-Dac.
(3) Jevamot 64b.
(4) ‘Eter in ebraico significa preghiera e tridente.
(5) Berachot 32a.
(6) Esodo, cap. 32°, 10.
(7) Berachot 33b.
(7b) 2° Samuele 23°, 3.
(8) Rabbi Moshè ben Nachman, detto anche Nachmanide (1194-1270). Noto per il suo commento alla Torà e per la controversia svoltasi a Barcellona nel 1263, in cui difese l’Ebraismo di fronte alle accuse della Chiesa.
(9) Commento a Genesi 46°, 15.
(10) Josef Albo, filosofo spagnolo (morto nel 1444). Nel «sefer ha-‘iqqarim» dimostra che tutto l’ebraismo si fonda su tre principi (‘iqqarim).
(11) Sefer ha-‘iqqarim, IV Maamar, 18.
(12) Biologo e pubblicista, vivente. Ha pubblicato numerosi libri di argomento ebraico. Sarà pubblicata nella collana Alef-Dac la traduzione italiana della raccolta di saggi: «Jahadut, ‘Am Israel, medinat Israel» (Ebraismo, popolo d’Israele, Stato d’Israele).
(13) «Ze u-lmad» -Tefillà, pag. 5-6. Ghiljonot le’ijum ‘azmi ba-tefillà, pubblicati da «Ghesher», 1974.
(14) Rabbino Capo Ashkenazita di Erez Israel, morto nel 1937, noto per il tentativo di creare un ponte tra «religiosi» e «laici». Ha scritto vari libri di tendenza mistica, tra cui un commento (incompiuto) alla Tefillà.
(15) ‘Olat Reajà, vol. I, pag. 14.
DIDA
Tjsh’à Be-Av al muro occidentale (Kòtel).
Bambini in preghiera all’Hechal Shlomò di Gerusalemme, cetnro del Rabbinato in Israele.