La Mitzvà modello culturale ebraico
La Mizvà, o meglio le Mizvoth, costituiscono in ogni tempo ed in ogni luogo il modello culturale migliore, e forse l’unico, che possa affermare l’identità ebraica. Questa asserzione, che non ha bisogno di esser dimostrata in un ambiente che viva con interezza la prassi delle Mizvoth, perché proprio attraverso essa afferma la propria identità ebraica, è invece degno di esser oggetto di trattazione in un ambiente, come quello italiano ed occidentale in genere, in cui, persa in gran parte l’osservanza di molte Mizvoth, si va alla ricerca della propria identità ebraica. Questo è stato il tema di una conversazione da me tenuta a Parma e a Padova in un giro di conferenze e lezioni che sto tenendo in Italia su invito del DAC. L’identità ebraica non può esser certo affermata su di una base biologica, priva di un contenuto spirituale e di azione, in quanto nulla è più lontano dall’ebraismo di una qualsiasi forma razziale. L’ebraismo si distingue dalle altre religioni note al nostro ambiente, e quindi difficilmente può esser definito come religione nell’accezione comune del termine, soprattutto per il suo carattere, mirabilmente e sinteticamente espresso nei Pirqè Avoth da cinque parole ebraiche: «Lo hamidrash ‘iqqar ellà ha-ma’asè», che in un italiano moderno, meno conciso, si può tradurre: «Non la ricerca teorica, non le disquisizioni filosofiche o erudite sono quelle che contano, ma l’azione, la traduzione in atti concreti dei principi a cui si dice di aderire».
L’ebraismo parte sì da presupposti di fede – come quello dell’esistenza e dell’onnipotenza di Dio e quello della divinità della Torà – però nessuno dei suoi testi classici (Bibbia, Mishnà, Talmud, ritualisti antichi) li impone come dogmi da accettarsi acriticamente, ma piuttosto come elementi alla cui accettazione l’individuo deve essere portato attraverso l’educazione, che si basa soprattutto sulla pratica delle Mizvoth. L’azione dell’ebreo è centrata su questo mondo, e per quanto sia idea accetta alla tradizione ebraica che esista un altro mondo, in cui gli individui saranno retribuiti a seconda delle loro azioni in questo, l’ebreo non deve vedere come scopo ultimo delle sue azioni il godimento nel mondo futuro, ma il vivere da giusto su questa terra, godendo della vita, commo dono divino, entro certi limiti segnati dalle Mizvoth, tra cui assai importante quello che nessuno dovrebbe godere a scapito dei diritti altrui. Seppure ci sono nel campo ebraico pensatori e cerchie che hanno cercato di dare un carattere più dogmatico all’ebraismo e anche di sopravvalutare l’al di là, tutto ciò è riprova dell’asserzione che ciò che più conta è l’azione e non la posizione teorica; ché infatti tutte le varie tendenze ebraiche – se non si arriva ai riformati nelle loro varie gamme – sono concordi nell’affermare il valore assoluto della completa adesione all’osservanza delle Mizvoth come caratteristica precipua in questo mondo, né una frazione considera l’altra come «eretica» per il fatto che la pensa diversamente su questioni teologiche e metafisiche.
L’insieme delle Mizvoth ha lo scopo di fare di Israele il popolo eletto – non un popolo che abbia degli speciali privilegi; al contrario, un popolo che abbia doveri molto più gravosi e responsabilità molto più pesanti degli altri, allo scopo di costituire una società modello, in cui le idee di uguaglianza e fratellanza di tutti gli uomini, di giustizia, di amore nella società non siano solo belle frasi prive di contenuto, ma soprattutto atti concreti nella vita di ogni giorno e di ogni minuto dell’individuo e della collettività. Questa società può essere costituita dalla prassi delle Mizvoth, alcune delle quali sembrano avere lo scopo diretto di instaurare una società ideale come si è detto, mentre altre sembrano essere rivolte ad educarci all’accettazione dei principi metafisici ed altre ancora sembrano essere destinate soprattutto a tenerci sotto una rigida disciplina.
La prassi delle Mizvoth è, in sostanza, il modo di affermare il nostro «diritto ad essere diversi», di cui tanto si parla ai giorni nostri, ma che non si vede in che cosa si estrinsechi, allo stato attuale delle cose, se non in affermazioni verbali ed in strutture burocratiche.
Un ambiente assimilato in maniera piuttosto profonda, che voglia ritrovare la sua identità ebraica, non può che compiere a ritroso il suo cammino negli ultimi secoli, nei quali ha fatto gettito prima delle Mizvoth più strettamente «religiose» (come Shabbath, Kesheruth), poi di quelle di carattere sociale ed ultimamente va perdendo anche la santità della famiglia, che sembrava essere l’ultima inespugnabile roccaforte dell’ebraismo. Varie possono essere le vie per giungere ad una riconquista completa dell’identità ebraica, e solo per questa via Israele avrà un futuro; il problema è come e da quale punto invertire la direzione di marcia. Varie possono essere le possibilità e la scelta dipende moltissimo dalle posizioni soggettive di ogni individuo. Mi sembra che comunque nella società attuale, così sensibilizzata ai problemi di giustizia sociale, il primo passo per molti potrebbe essere quello di cercare di applicare in pieno le Mizvoth di carattere sociale: l’applicarle in pieno significa esser molto diversi da quello che avviene generalmente ai nostri occhi, perché non si tratterebbe certo di sventolare begli slogan, né di urlare i comizi o cortei né tanto meno di prendere con la violenza ad altri; ma si tratterebbe di un impegno continuo, di ogni giorno e di ogni momento, di applicare norme che portino alla cancellazione delle differenze di classe, delle sperequazioni economiche ed all’affermazione con i fatti dell’equivalenza di tutti gli uomini. È sì vero che una tale condotta, seguita da una sparuta minoranza in mezzo a masse estranee ad essa, non avrebbe un’immediata e diretta influenza sul mondo; ma certo essa servirebbe, se non altro, ad educare noi stessi, a conservare e vivificare quegli elementi che dovranno essere base della vera società ebraica che dovremo instaurare in Erez Israel indipendente. L’iniziare così il ritorno verso la propria identità ebraica riporrebbe in altri termini, più seri, il problema del sionismo e della ‘alijà; il voler riprendere la prassi di tali Mizvoth porterebbe con sé la necessità di studiare ed approfondire l’ebraismo; e non vi è dubbio che queste azioni – prassi delle Mizvoth sociali e studio – ci riporteranno alla convinzione che senza adesione completa tutto il sistema delle Mizvoth, unico vero modello culturale ebraico, non vi è avvenire per l’ebraismo e che l’ebreo, che non desideri la scomparsa del suo popolo, non può che tornare ad esso, sia pure per gradi; l’ebraismo italiano, al punto a cui è arrivato, non può sperare in una sua sopravvivenza se non farà subito almeno i primi passi in questa direzione.
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Nell’ambito dell’iniziativa suindicata ho visitato, nella seconda metà di aprile e di maggio, anche le Comunità di Venezia (due volte), Mantova, Firenze (tre volte), Torino, Modena, Trieste, Mentre, e sono stato una seconda volta a Padova; in esse ho trattato temi come quelli della storia e del contenuto della liturgia ebraica, l’aborto e la contraccezione nella Halakhà, la libertà di stampa e la difesa dell’individuo nella concezione ebraica, il messianesimo, la Kesheruth, gli anziani nella Bibbia. Inoltre sono intervenuto al Congresso dei giovani sionisti religiosi di Europa, tenutosi a Roma, con una lezione in ebraico sulle Mizvoth legate ad Erez Israel; ho trattato al Seminario su «Ebrei e società italiana», tenutosi a Livorno per iniziativa della FSI, il tema «Samuel David Luzzato e la sua scuola: loro insegnamento e valore attuale»; a Torino ho tenuto un breve seminario per le insegnanti della scuola ebraica su problemi didattici inerenti all’insegnamento dei Pirqè Avoth e delle Mizvoth alimentari; ho partecipato ad Asti, con un breve intervento, all’apertura della mostra dei ricordi ebraici di quella città.
Menachem Emanuele Artom