Gli inserti di Alef Dac – La via italiana alla Torà
Realtà o mito
Che cosa ha dato alla Torà l’ebraismo italiano
Rabbì Ovadià Sforno
Arte ebraica in Italia
Leon da Modena
Azarià de’ Rossi
Fino all’ultimo boccale
Filosofia e Kabbalà
Il parere degli storici
La situazione attuale e il futuro: tre opinioni contrapposte
La grande rivoluzione
Un commento finale – Per saperne di più
Val più un maestro, un buffone o un porcaio? (G. Limentani)
Maimonide in Italia (J. N. Pavoncello)
“Quando scoprii l’ebraismo come comunità” – Intervista a Rita Levi Montalcini
Chanukkà: La shekhinà si avvicina
Realtà o mito?
Questo numero di Alef-Dac esce mentre si svolge il Congresso dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. È un momento importante di riflessione in cui si prendono decisioni determinanti per la vita dell’ebraismo italiano, le sue strutture organizzative, la sua condizione giuridica. Desideriamo per questo motivo concentrare l’attenzione su un aspetto dei problemi in discussione, che per quanto generalmente passi in secondo piano, è di importanza fondamentale. Si tratta di verificare il rapporto dell’ebraismo italiano con la parte più essenziale della sua tradizione, con la Torà intesa come modello di vita, come patrimonio da studiare, insegnare, mettere in pratica. Proponiamo in queste pagine una riflessione su questi temi: Guardando alla storia dei secoli passati vediamo che il contributo degli ebrei italiani è stato notevole nel campo della Torà, tanto più se si considera l’esiguità numerica del gruppo italiano rispetto agli ebraismi di altre nazioni. È un passato fonte di orgoglio: ma fino a qual punto il contributo italiano è stato veramente determinante? In Italia è stato costruito un mito, quello della “via italiana alla Torà” che sarebbe rispettosa della tradizione ma al contempo illuminata e aperta allo scambio con altre culture. Che cosa c’è di vero in questo mito? Dal passato al presente queste glorie e questi miti vengono riproposti oggi per giustificare un modello attuale di convivenza pacifica delle varie componenti (più o meno legate all’ortodossia). Ci vantiamo del nostro modello, come di una soluzione che ha salvato il salvabile. Mantenendo la denominazione ufficiale di ortodossia e lasciando spazio alla libertà individuale. Ma non possiamo ignorare che da 50 anni a oggi la struttura dell’ebraismo italiano è cambiata radicalmente, mentre l’incontro con modelli esteri di ortodossia integrale pone interrogativi radicali sulla nostra effettiva natura.
Il nostro modello è ancora valido? Possiamo nella nostra globalità definirci ancora e veramente una comunità ortodossa? Abbiamo ancora nelle nostre strutture la possibilità di una produzione culturale ebraica autonoma e costruttiva come nei ‘secoli gloriosi’? Cosa possono dare oggi veramente gli ebrei italiani al mondo della Torà?
Che cosa ha dato alla Torà l’ebraismo italiano
È noto che gli ebrei risiedono in Italia da almeno venti secoli. Si tratta di una presenza ininterrotta nel tempo, che ha conosciuto una storia travagliata di continue migrazioni interne ed esterne. La distruzione geografica e la suddivisione etnica interna sono continuamente cambiate. Piuttosto stabile invece è stato il dato della consistenza numerica: con l’unica eccezione del XVI secolo, in cui la popolazione ebraica italiana arrivò o forse superò il centinaio di migliaia, l’entità numerica complessiva del gruppo ebraico è stata intorno alle 30-50 mila unità. Questo tipo di presenza particolare, continua ma frazionata e in movimento, ha saputo produrre un tipo di cultura ebraica rilevante, per molti aspetti originale e caratteristica. Non è certo possibile individuare degli elementi comuni per una storia che è durata venti secoli; ma si possono mettere in evidenza alcuni tratti essenziali rilevanti. Parlando di questi argomenti si corrono, tra l’altro, due rischi: di fare soltanto una lista e di finire con l’omettere molte cose importanti. Il secondo rischio è inevitabile, per lo spazio di cui disponiamo; il primo si cercherà di evitarlo, per quanto è possibile.
Per comodità di esposizione abbiamo diviso l’argomento in diversi titoli principali.
La letteratura ritualistica
Non c’è bisogno di essere un addetto ai lavori per comprendere come nell’ebraismo la letteratura ritualistica rappresenti il punto centrale della cultura religiosa. In molte altre culture il diritto è una componente fondamentale, ma pur sempre delegata nello studio e nell’applicazione a specialisti, agli uomini di legge. Nell’ebraismo il diritto si identifica con la Torà, e quindi la sua importanza è centrale, coinvolge tutti, nello studio come nell’applicazione. Quando ci si interroga su che cosa l’ebraismo italiano abbia dato alla Torà, bisogna quindi in primo luogo esaminare la natura della produzione ritualistica.
In tutto il mondo ebraico dagli inizi del medioevo il punto di partenza è stato lo studio del Talmud. Alla fine del secondo secondo dell’era volgare i rabbini palestinesi codificarono la tradizione orale precedente nei sei ordini della Mishnà; nei secoli successivi il materiale fu arricchito, approfondito e elaborato nei centri di studio Palestinesi e Babilonesi e ciò dette luogo alla produzione di due opere monumentali, dette Talmud Palestinese (redatto verso la fine del IV secolo) e Babilonese (fine del V secolo). Queste opere, che raccoglievano la gran parte della tradizione di studio rabbinico in ogni settore dell’ebraismo, furono e sono tuttora la base per ogni successivo studio, approfondimento e ordinamento. Dalla fine della redazione delle due opere ogni insegnante, ogni scuola, ogni comunità ebraica non ha potuto fare a meno di rivolgersi a questi testi come fonte essenziale della propria cultura.
Tutto ciò che è stato prodotto dopo la redazione dei Talmudìm e che ad essi si richiama, può essere ricondotto a quattro gruppi principali di opere. Nel dettaglio vedremo che cosa ha fatto l’ebraismo italiano in ognuno di questi campi.
I codici
Il Talmud discute e interpreta la legge, raramente sentenzia definitivamente. Dall’XI secolo in avanti la necessità di disporre di sintesi pratiche di leggi ordinate, dette luogo alla produzione di codici: sono noti quello dell’Alfassi, di Maimonide, i Turìm, lo Shulchàn ‘Arùkh. Nessun codice principale è stato compilato in Italia.
Piuttosto esistono opere ‘minori’ di codificazione, come le Halakhòt di Isaia di Trani e il Shibbolè haLèqet del romano Zidqià Anav, entrambi del XIII secolo. Sono opere che insieme a tante altre minori hanno rilevanza nella storia dello sviluppo della halakhà, il diritto ebraico, ma che non raggiungono mai l’ampiezza e il respiro delle grandi compilazioni oggetto di continua e ubiquitaria consultazione.
I commenti
Ogni opera essenziale è tradizionalmente oggetto di una serie di commenti che ne spiegano il contenuto e ne allargano le implicazioni. Questo tipo di produzione è stato molto vivace nell’Italia ebraica. Alla rilevanza internazionale e alla condizione di testo base di quotidiano riferimento è arrivata soprattutto un’opera, il commento alla Mishnà di Ovadià di Bertinoro (rabbino a Città di Castello, quindi a Gerusalemme, dove morì tra il 1500 e il 1510).
La letteratura responsoria
Uno degli strumenti essenziali di sviluppo del diritto è la domanda-risposta, il quesito su problematiche nuove che dà luogo all’analisi del problema e a una decisione del giudice-rabbino. La letteratura che raccoglie questi testi si affianca ai codici e ai commenti come strumento indispensabile e fonte autorità. L’esistenza di un’autorità che viene interpellata anche da luoghi molto lontani indica la vitalità di un centro di studio di Torà, la sua zona di influenza, il modo di affrontare e risolvere ogni nuova problematica. Per questo motivo lo studio in chiave storica di responsa fornisce precise indicazioni sul livello e la qualità degli studi ebraici in un dato luogo in un determinato periodo, insieme a dati precisi sui flussi, le gerarchie e le influenze. In Italia la produzione di testi di responsa è stata nei secoli passati molto ricca. In un riquadro a parte pubblichiamo una lista essenziale di alcuni titoli maggiori: la lista è una scelta fatta da uno storico del diritto ebraico, che ha diviso questi testi in periodi ed origine geografica.
I testi vi sono citati per l’importanza che hanno avuto nella loro opera e nelle generazioni successive. Anche la semplice consultazione di questo elenco suggerisce alcune considerazioni importanti in primo luogo quella della presenza (minore per numero ma sempre rilevante) per un’ampia fascia di secoli di schiere di dotti e di scuole che hanno dettato Torà al loro interno e all’esterno del piccolo mondo italiano; in secondo luogo salta in evidenza il dato dell’interruzione di questo tipo di produzione alla fine del XVIII secolo; non che dopo sia scomparsa del tutto, ma la sua importanza è decisamente crollata nel resto del mondo ebraico. Un altro dato che merita considerazione è quello della permeabilità dell’ebraismo italiano: molti dei maestri che compaiono nella lista (e altri ancora che sono passati alla storia come grandi personalità dell’ebraismo italiano) non erano in realtà di nascita italiana, ma in Italia erano arrivati dopo qualche peregrinazione; per l’Italia ebraica è segno della presenza di un ambiente fecondo per la fioritura di intelligenze e cultura ebraica, di un’insolita capacità attrattiva.
Altre opere, come dizionari, guide, compilazioni
Sono opere non essenziali allo sviluppo del diritto, ma comunque sempre di notevole importanza; per l’ambiente che le produce sono indice di un approccio non convenzionale alla materia, di una mentalità differente e sistematica; forse l’espressione più o meno conscia di voler contribuire in maniera significativa e originale negli spazi che opere e personalità maggiori hanno lasciato ancora aperti. I contributi in questi campi dell’ebraismo italiano sono stati significativi, e questo forse è un indice di una mentalità particolare, di un desiderio di emergere nella Torà a modo proprio. La tradizione in proposito è lunga e illustre dal dizionario ‘Arùkh di Natan ben Jechiel (romano, 1035-1106), a diverse opere rinascimentali di metodologia, fino alla Enciclopedia Rabbinica, di Isac Lampronti, (ferrarese, 1679-1756), il monumentale Pàchad Iizchàq.
Tutta questa vasta produzione è oggi al centro di attenti studi che si propongono diverse finalità.
Un primo obiettivo è quello di raccogliere, ordinare e finalmente pubblicare in edizioni critiche il materiale che per complesse vicende è assai spesso rimasto relegato i manoscritti isolati, o rare edizioni a stampa dimenticate; in altre parole riproporre le opere all’attenzione del pubblica – che non è solo quello degli specialisti della storia della Halachà, ma potenzialmente potrebbe essere esteso a fasce più larghe di cultori di studi ebraici. Un secondo livello di intervento è l’analisi dell’originalità e dell’importanza di tutti questi contributi, mettendoli a confronto con le produzioni contemporanee e successive di altri paesi. In base a questi studi l’ulteriore livello di ricerca dovrà determinare “se esiste una scuola italiana distinta, con suoi speciali caratteri, identificare, la catena di tradizione da maestro a discepolo, la sua autocoscienza, i suoi tratti metodologici, il collegamento con l’uso locale e la tradizione consolidata”; stabilire quindi i termini di un processo di “disseminazione e assorbimento nella corrente principale della creatività rabbinica — o in altre parole — stabilire i parametri dell’influenza dei maestri italiani (collettiva o individuale), l’estensione temporanea, l’impatto sui codici maggiori e il loro ruolo di intermediari e trasmettitori” (le citazioni da I. Twerski in Italia Judaica p. 383-384).
Gli studi e le valutazioni sono ancora a un livello iniziale, ma gli studiosi che si occupano dell’argomento hanno già formulato qualche idea o qualche idea o qualche ipotesi di lavoro. Una delle idee prevalenti è che non si può parlare di un’individualità o di un’innovazione italiana, né di una dinamica di sviluppo locale; vi sono solo — per quanto rilevanti — dei contributi distinti; è un concetto che vale per tutta la produzione culturale ebraica italiana, ma particolarmente per la letteratura rabbinica. Queste idee erano già state espresse da uno studioso vissuto in Italia nella prima metà di questo secolo, Isaia Sonne, che sosteneva che l’Itala ebraica nel corso della sua storia ha aggiunto ‘note e glosse’ alle realizzazioni di altri centri, senza dare un suo contributo distinto; l’ebraismo italiano rimase ricettacolo di influenze esterne. Sonne partiva dal presupposto che solo un ambiente esterno potente e pulsante può essere di stimolo e avere funzioni di catalizzatore per la creatività ebraica e per nuove sintesi. È un’analisi che viene in parte ridimensionata da altri studiosi. Nelle conclusioni di I. Twerski, che ha esaminato in particolare l’epoca medioevale e il primo rinascimento “l’ebraismo italiano non ha creato una scuola, non si identifica con uno sviluppo specifico, non coltivò alcun genere con passione esclusiva, ma ciononostante i saggi italiani comunque contribuirono alla letteratura rabbinica.”
La trasmissione e la diffusione
Essenziale nella cultura non è soltanto il momento della produzione; questo deve legarsi a meccanismi di trasmissione e diffusione. Nella storia della cultura ebraica questo ruolo è stato inizialmente affidato alla trasmissione orale e successivamente è stato integrato dalla diffusione di testi scritti. Il primo compito, quello dei maestri e delle scuole, è tuttora il nucleo centrale dell’insegnamento e della perpetuazione della tradizione religiosa. Per valutare l’importanza di questo ruolo in una determinata area geografica bisogna cercare le tracce della presenza di dotti e di discepoli. Un’altra caratteristica da mettere in evidenza è quella della circolazione, dei movimenti di questi personaggi: gli studiosi che si muovono da un luogo all’altro portano con sé la tradizione. In Italia la presenza di studiosi, da un lato, e l’esistenza di movimenti, dall’altro, sono fatti ben documentati; anzi in alcuni momenti della storia ebraica certi movimenti hanno avuto un ruolo estremamente importante, se non essenziale. L’elemento che ha favorito l’Italia ebraica è stato inizialmente quello dell’importanza politica, e successivamente la posizione geografica. L’importanza politica può spiegare perché all’inizio del secondo secolo una delle uniche due scuole — fuori dalla Palestina e Babilonia — ricordate nella Mishnà avesse sede a Roma, con a capo il tannà Matià Ben Cherèsh, un rabbino di origine palestinese. Fino al decimo secolo il centro culturale dell’ebraismo fu la Babilonia, che estendeva una preponderante influenza su quasi tutta la Diaspora. Solo alcune aree, come l’Italia, rimanevano legate alla diverse e più antica influenza Palestinese. Ma fu attraverso l’Italia iniziando dal meridione (Puglia e zone limitrofe) che la cultura ebraica babilonese penetrò in Europa, e proprio in Italia meridionale i due modelli culturali entrarono in opposizione iniziando un conflitto che si concluse con la vittoria schiacciante del modello babilonese, del suo Talmud, delle sue tradizioni rituali, liturgiche e linguistiche. L’Italia ebraica, terra di transito e di scontro con le nuove idee finì anch’essa con il soccombere a questa ondata preponderante, ma riuscì a conservare a lungo i segni del precedente legame. Un esempio è quello della conservazione — praticamente esclusiva — di una lingua ebraica pura, ferma nelle sue forme a quella degli strati più antichi della Mishnà e immune dalle contaminazioni aramaiche successive: questa lingua oggi è possibile trovarla solo in manoscritti ebraici iscritti in Italia, fino al XIV secolo. Un altro esempio, che risulta ancora vivamente attuale, è quello delle tradizioni liturgiche: il rito italiano o romano, tuttora seguito dalla maggioranza degli ebrei ‘indigeni’ conserva, malgrado le numerose contaminazioni e sovrapposizioni, i testi, le melodie, gli stili recitativi propri di un filone originale remoto e altrove praticamente introvabile.
Fu attraverso l’Italia che le prime dottrine mistiche provenienti dall’Oriente penetrarono in Europa e trovarono ferventi seguaci e prosecutori; che i modelli poetici liturgici vennero introdotti e diffusi, dando poi lo stimolo a una produzione locale ricca e dotata di una certa originalità. Dall’Italia i Re Carolingi importarono nel cuore dell’impero i primi dotti di ebraismo, i cui discepoli e discendenti diretti, ancora nel XIV secolo in Germania, erano al centro di un vivace gruppo di ritualisti e mistici.
La posizione geografica, ma anche la frammentazione politica e la diversificazione delle aree di influenza favorirono costantemente il passaggio e il confronto di diverse tradizioni, sostenute dagli esuli di decine di cacciare differenti; un clima di relativa tolleranza e di prosperità economica richiamò accanto agli esuli di ogni condizione dei dotti di chiara fama. Questi elementi costanti della storia ebbero il loro culmine nell’epoca rinascimentale.
Di tutta questa continua circolazione e diversificazione sono vive le tracce ancora oggi, quando vediamo coesistere anche in comunità ormai in netto calo demografico diversi riti liturgici, ciascuno con la sua Sinagoga e con il vanto delle proprie differenti origini. Tanta diversità, coesistenza di complesse articolazioni è difficile da incontrare in altre parti del mondo ebraico, dove se pure esistono delle divisioni sono limitate essenzialmente a due-tre gruppi principali. Il fenomeno italiano è il segno di una terra di transito, di passaggio continuo. Dai tempi dell’istituzione dei ghetti agli inizi di questo secolo il fenomeno si è fermato nella sua evoluzione e le differenze si sono attenuate; ma nell’ultimo mezzo secolo è ripreso vivamente con nuovi caratteri.
Un mezzo fondamentale di circolazione della cultura è stato quello della scrittura; dapprima la tradizione manoscritta, e dalla seconda metà del ‘400 la stampa. In entrambi i campi il ruolo dell’ebraismo italiano è stato veramente decisivo. Per quanto riguarda la tradizione manoscritta si valuta che la quantità di testi ebraici scritti e copiati in Italia, e che sono ora conservati nelle biblioteche di tutto il mondo, rappresenta una percentuale considerevole (almeno un quarto o un terzo del totale generale), assolutamente sproporzionata rispetto all’entità numerica relativa dell’ebraismo italiano. Segno dunque di un ruolo essenziale di trasmissione.
Questa tradizione è continuata con l’invenzione della stampa. I primi libri ebraici sono stati stampati in Italia (iniziando probabilmente a Roma intorno al 1472) e da allora si è sviluppata un’imponente tradizione topografica. Numerosi centri hanno ospitato diversi stabilimenti tipografici, in continua evoluzione qualitativa; le edizioni classiche della letteratura rabbinica sono quasi tutte italiane, come italiana è tutta una lunga serie di edizioni più o meno popolari, dalle Bibbie ai comuni testi liturgici che in edizione anastatica ancora vengono ristampati e diffusi nel mondo ebraico.
Anche su questo tipo di produzione culturale, esaurita o quali la ricerca classificatoria e descrittiva, sta iniziando un profondo lavoro di interpretazione critica, che vuole comprendere i motivi di questo straordinario sviluppo, nelle sue varie componenti, economica, culturale, di fruizione. Bisognerà dimostrare — e su questi punti è iniziata un’importante ricerca archivistica — per quali utenti e in base a quali scelte i libri venivano stampati e quali motivi spiegavano per differenti produzioni la scelta di una tipografia o di un’altra. Questa ricerca arricchirà le nostre conoscenze su un fenomeno che in ogni caso rappresenta per la storia dell’ebraismo italiano un elemento distintivo per quantità, qualità e stile di presenza.
I contributi italiani alla letteratura ritualistica-responsoria
XIII secolo:
Responsa di Isaia di Trani senior (conosciuto con la sigla R.I.D. = Rabbenu Ieshajà Di Trani). Prima edizione A. J. Wertheimer, Gerusalemme 5727 (1967) (1/11)
XIV secolo:
Decisioni e responsa di Rabbì Menahem (di Beniamin) Recanati. (1/6).
XV secolo:
Responsa di MaHaRIQ (Josef Qolon). Stampati a Gerusalemme (ed. Pines) nel 5730 (1970).
Responsa di Rabbì Jehudà (di Eliezer Levi) Minz. La maggioranza è andata dispersa in seguito a eventi bellici. Una piccola parte è stata pubblicata insieme ai responsa del genero del figlio, il MaHARaM di Padova (v. sotto). (2/10).
XVI secolo:
Responsa di MaHaRaM di Padova (Meir Katzenelbogen).
Responsa di Rabbi Menahem ‘Azarià di Fano, Montavano (recente riedizione Gerusalemme 5723-1963).
Responsa di Rabbì Isac di Immanuel Lattes (vissuto a Bologna e Ferrara) (3/32).
XVII secolo:
Responsa di ReMeZ (Moshè di Mordekhai Zakhut Veneziano).
Ziknè Jehudà (di Leon da Modena), pubblicate da S. Simonsohn, Gerusalemme 5716 (1956).
Devar Shemuel (di Shemuel di Avraham Aboav). (3/43).
XVIII secolo:
Shemesh Zedaqà, di Shimshon Morpurgo (Ancona).
Màim Rabbìm, di Refael Meldola (Livorno).
Mikhtàm me Davìd, di David di Jaaqov Pardo.
Todàth Shelamìn, di Isaia Bassan (diviso in due parti; la seconda intitolata Lachmè Todàh).
Chajjim Shaàl, Josef Omez e Tuv ‘Ain di Chajjim Josef David Azulai (il CH.I.D.’à.). (5/35).
La lista è tratta da Elon, Jewish Law, p. 1347-1367. I numeri tra parentesi indicano per ogni secolo le presenze italiane in rapporto al totale dei titoli citati.
r.d.s.