Perché il dialogo ebraico-cristiano
Non è certo molto originale iniziale queste mie brevi osservazioni con l’affermazione che ebraismo e cristianesimo si trovano di fronte e in contrasto da circa 2000 anni. Il contrasto, per usare una parola blanda, ha significato in numeri 10 milioni di vittime ebree prima ancora dello sterminio nazista. Può sembrare strano perciò, considerando le umiliazioni e il sangue versato, parlare di dialogo ebraico-cristiano e ancor più di amicizia ebraico-cristiana.
Eppure l’iniziatore delle associazioni di amicizia ebraico-cristiana, l’uomo che, dopo lo sterminio, si è proposto come fine della propria sopravvivenza attivare questo dialogo è stato Jules Isaac, un uomo che aveva perduto nei lager la moglie e la figlia e che nel suo libro L’insegnamento del disprezzo fa risalire chiaramente la responsabilità degli eccidi ebrei all’insegnamento diffuso nei secoli dalle chiese cristiane, ai pregiudizi e stereotipi creati da loro e da molti dei loro santi.
Jules Isaac era uno storico e aveva capito che alla base di tanto orrore e negazione sta l’ignoranza spontanea e voluta; che l’ignoranza voluto è tergiversazione e malafede, e che è proprio questo che deve essere attaccato.
Con questo breve chiarimento si può adesso tentare di rispondere alla domanda che molti si fanno sul motivo e sull’eventuale utilità del dialogo ebraico-cristiano.
Ho ricordato l’esempio di Jules Isaac che è l’esempio chiave. Il mio è molto più modesto e meno drammatico, ma può essere indicativo perché facilmente riferibile ai più. Appartengo alla generazione che ha assistito allo sterminio ed alla creazione dello Stato d’Israele. Sono riuscita a fuggire dall’Europa in tempo per non essere coinvolta nella deportazione dall’Italia; ma il mio allora giovanile impegno con l’ebraismo e con il sionismo mi mantenne, anche lontano, in un’attività febbrile ed a volte disperata. Alla fine della guerra di fronte alle notizie, ai lutti di ognuno di noi, ai dolori di ogni famiglia ebrea di Europa, sorse in me, come in molti altri un nuovo pensiero; nella mia mente cominciarono a risuonare due brevi parole: mai più. Un concetto simile nel momento che nasce richiede in risposta un’azione. Non si può restare tranquilli sperando ed aspettando che Dio aiuti. Dopo Auschwitz erano e sono troppi gli interrogativi in ognuno di noi su Dio e sull’aiuto dall’esterno. La risposta che mi diedi allora fu, senza saperlo, la stessa che si era data Jules Isaac. Bisognava risalire all’origine del male, e la radice per me come credo per molti di noi è nella malevola diffusione di pregiudizi, di falsi storici, di deviazioni che sono partiti e continuano a partire dalle chiese cristiane. Il nostro dovere allora di fronte a noi stessi, ai nostri figli, alla nostra sopravvivenza è smascherare questa cattiva volontà degli altri, è far conoscere quale è la verità storica e quale è la realtà della nostra identità ebraica. Far capire che non siamo demoni come hanno voluto far credere; che le nostre sinagoghe non sono luoghi di perdizione, ma centri di preghiere e di studio; costringendoli a rivedere la loro teologia perché contrariamente a quanto hanno asserito per secoli, noi continuiamo a vivere come il popolo che Dio ha amato ed ama, e che è per testimoniare la nostra fede in Lui che abbiamo sofferto le peggiori persecuzioni.
Per fare capire questo dobbiamo accettare di dialogare, dobbiamo avvicinarci a spiegare; non stancarci di spiegare. Prendere un salmo, leggerlo con loro e far capire che è stato scritto da ebrei per ebrei, prima che per gli altri; far capire anche come fa D. Flusser — che Gesù non è uscito dal seminato ebraico e che sicuramente non si riconoscerebbe nelle chiese di oggi ma nemmeno in quelle del II e III secolo.
Forse se riusciremo a farci conoscere per quello che siamo nella nostra realtà: senza coda, amanti del denaro quanto tutti gli altri esseri umani, meno sporchi degli altri, non fosse che per le nostre regole di purità, non vendicativi come abbiamo dimostrato nei secoli ed ancora oggi dopo la Shoà, studiosi, applicati amanti della pace e soprattutto fedeli alla nostra ebraicità, forse allora cadrà qualche pregiudizio, migliorerà l’opinione sul singolo e sulla collettività, e quella che oggi è una persona di coscienza di qualche eletto cristiano potrà diffondersi e gli errori potranno attenuarsi. Sarà un lavoro lungo, forse di generazioni, ma credo che sia uno sforzo che dobbiamo a noi stessi come ebrei.
Spesso chi lavora in questo dialogo si sente scoraggiato e avvilito, ma le difficoltà non ci debbono far abbandonare la lotta. Se ci scoraggiamo perché il papa nelle sue omelie continua a volte ad ignorare gli stessi documenti della Chiesa, ricordiamo che ha anche attuato la visita alla sinagoga di Roma in atto di riconciliazione, e che questa visita in tutta la sua spettacolarità è stata trasmessa e vista in tutto il mondo cristiano e non.
Per portare avanti un cammino di relazioni così difficili la costanza non deve abbandonarci, ma soprattutto è necessario conoscere bene noi stessi. Se l’ebreo non ha chiara in sé — per sé e per gli altri — la propria identità, il significato intrinseco del suo essere ebreo, non può affrontare il compito del dialogo. Per questo il primo impegno è imparare ad essere veramente e sanamente ebrei, e poi dialogare senza timore con chiunque altro, cristiano e non. Se riusciremo a farci conoscere per quello che siamo in realtà forse riusciremo un giorno a distruggere l’antisemitismo.
Lea Sestieri