Sionismo, Israele e Vaticano
La protesta ebraica per il mancato riconoscimento dello Stato d’Israele da parte del Vaticano è stata uno dei temi più vivacemente dibattuti nella scia delle discussioni che hanno accompagnato la visita del Papa alla Sinagoga. Al di là delle dichiarazioni ufficiali che vorrebbero giustificare la posizione vaticana, è opportuno riflettere su quelle che sembrano le due principali motivazioni a monte del rifiuto. La prima è di ordine esclusivamente politico: la presenza nel mondo arabo, e in Palestina in particolare, di popolazione araba di fede cristiana. Il riconoscimento Vaticano dello Stato ebraico potrebbe rappresentare per queste popolazioni un indebolimento della propria posizione nel mondo arabo di fronte alla maggioranza musulmana; è probabile inoltre che più di queste considerazioni incida (o almeno in passato abbia inciso) la posizione antisraeliana di queste popolazioni: un Mons. Capucci non è un isolato. Forse le vicende libanesi degli ultimi anni, in cui arabi cristiani e musulmani si sono senza pietà combattuti e massacrati, hanno rimesso in discussione tutti i termini precedenti del problema. E quindi la politica vaticana potrebbe cambiare. Resta il fatto che se ciò non è stato fatto fino ad ora per motivi di opportunità politica, il giudizio morale da parte ebraica per questo atteggiamento (visto che il Vaticano vuole essere un’autorità morale), non può essere lusinghiero.
Ma il problema non è solo politico, perché affonda le radici in una questione religiosa essenziale. Nel Gennaio del 1904, il cardinale Merry del Val, così dichiarava a Theodor Herzl che chiedeva di incontrare il papa: “Finché gli Ebrei negano la divinità di Cristo, noi non possiamo pronunciarci in loro favore. Non che noi vogliamo loro male (…). Per noi essi sono i testimoni necessari dell’evento della presenza di Dio sulla terra. Ma essi negano la divinità di Cristo. Ora come possiamo noi, senza rinunciare ai nostri supremi principi, dichiarare di consentire che essi ritornino in possesso della Terra Santa?” (Pagine scelte dai diari di T. Herzl, p. 303). E il papa (Pio X), tre giorni dopo confermava: “Noi non possiamo favorire questo movimento. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme — ma favorire non possiamo mai. (…). Io come capo della chiesa non posso dirle altra cosa. Gli Ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, e perciò non possiamo riconoscere il popolo ebreo”. “Noi preghiamo infatti anche per loro: che la loro mente venga illuminata (…). E così se Ella andrà in Palestina e vi ristabilirà il suo popolo, noi vogliamo tener pronti chiese e preti per battezzarli tutti” (ibid., p. 312 e 314). In pratica l’idea che sottintende questo storico rifiutò è che la vocazione nazionale del popolo ebraico non può essere riconosciuta in quanto contraddice il riconoscimento della divinità di Gesù. L’idea affonda in lontane radici storiche.
“Non potremo favorire il ritorno degli Ebrei a Gerusalemme”
Quando vi fu la distruzione di Gerusalemme nel 70, si creò una separazione tra ebraismo rabbinico e chiesa nascente; la tesi che sarebbe stata allora sostenuta, e ancora di più lo fu dopo la rivolta di Bar Kochbà e quindi teologicamente rafforzata nei secoli successivi, era che la distruzione del Tempio e la dispersione del popolo ebraico nella Diaspora venivano come punizione storica per il rifiuto opposto al riconoscimento di Gesù. In tali termini riconoscere lo Stato di Israele potrebbe significare rinunciare a una consolidata tradizione teologica. Vi è di più: è indubbio che lo Stato di Israele rappresenta per molti ebrei (ma anche per alcuni cristiani) il segno di un’iniziale realizzazione messianica. Per questi motivi un cristiano, che per definizione ritiene il messianesimo realizzato da venti secoli, davanti allo Stato di Israele deve rimettere in discussione le sue categorie teologiche; accettare una visione più articolata del problema. È proprio impossibile dal punto di vista dottrinale? Siamo ancora ai tempi e alle dichiarazioni di Pio X? Pare proprio di no, e fortunatamente si può notare un certo (per quanto lento) fermento tra i teologi cristiani e anche cattolici in particolare. In ogni caso è chiaro che il problema del Sionismo e dello Stato d’Israele non è solo un problema politico, e che proprio per i suoi aspetti di complessità politica e teologica sarà uno dei veri banchi di prova della vera disponibilità della Chiesa cattolica al dialogo e la vero rispetto reciproco.
R.D.S.