Per quale verità si dialoga
La verità “finale” che determina l’identità specifica della nostra fede come Cristiani e come Ebrei, la verità del Calvario e del Sinai, non ci unisce. Ci divide. È piuttosto, l’imbarazzo e la vergogna per le conseguenze della nostra comprensione umana di queste verità, il nostro riconoscimento della sofferenza e della crudeltà commesse in loro nome, che ci ha costretto a rivedere e ridefinire le nostre teologie, a civilizzare e umanizzare i nostri dogmi, a liberarci delle demonologie che abbiamo creato sull’altro.
Il fatto è che le norme dell’umanesimo laico hanno avuto sul nuovo ecumenismo un impatto più profondo di quanto lo abbiano avuto le nostre norme religiose. Lasciate ai loro meccanismi interni, le nostre norme religiose producono lo scandalo di un’anima religiosa così nobile come Bonhoeffer, che trovava una giustificazione cristiana, nel senso di una punizione, al brutale trattamento che i nazisti riservavano agli ebrei. Lasciate ai loro meccanismi interni, non avrebbero potuto produrre un documento del Vaticano II che celebrava la sacralità e inviolabilità della coscienza individuale.
La questione suprema è se noi siamo vivi o morti alla sfida e all’attesa del Dio vivente
Non è per le nostre verità “finali” che abbiamo necessità di dialogare. A parte la loro incommensurabilità, non sono ciò che ci porta insieme, ciò che ci apre all’autenticità religiosa dell’altro. Piuttosto come Abraham Joshua Heschel sottolineava, sono i termini sottostanti queste verità finali che ci uniscono, cioè se c’è un pathos, una realtà divina preoccupata del destino dell’uomo che misteriosamente spinge sulla storia. La questione suprema, scrisse Geschel, è se noi, Cristiani ed Ebrei, siamo vivi o morti alla sfida e all’attesa del Dio vivente. È la nostra coscienza del fatto che, malgrado il ‘no’ che ci scambiamo sulla questione della verità finale, ciò che rende possibile il nostro dialogo è che entrambi rimaniamo responsabili rispetto a Dio e oggetti della Sua preoccupazione. Se noi siamo tutti preziosi agli occhi di Dio, allora dobbiamo trovare il coraggio di discutere quegli aspetti della nostra comprensione umana delle nostre verità finali che diminuiscono questa preziosità. È un compito ancora disatteso sia dalla cristianità che dall’ebraismo.
Dopo aver citato le classiche opinioni sul Cristianesimo di Maimonide, Jehuda HaLevì, Jacob Emden, Siegman scrive:
“Bisogna riconoscere che queste autorità classiche non riconoscono al Cristianesimo la dignità religiosa che richiede, o che la stessa fede ebraica richiede. La domanda alla quale la teologia ebraica ha mancato di rispondere è: data l’interpretazione ebraica del ruolo di Dio nella storia, può un fenomeno così vasto e universale come la nascita e la diffusione del cristianesimo — per due millenni e sulla gran parte del globo — esistere al difuori della salvezza e provvidenza divina? È concepibile che le credenze, la fede, la pietà di generazioni che Gli prestano culto come Cristiani siano una conseguenza del Signore della Storia solo nella misura in cui non siano incompatibili con la fede di Israele? Pensare il Cristianesimo come un accidente della storia — per quanto ispirato dal monoteismo ebraico — è banalizzare il Dio di Israele. Ciò che io suggerisco è che l’Ebraismo ha mancato di trattare il Cristianesimo con la serietà che la sua stessa teologia richiede. Quella serietà, quella comprensione del Cristianesimo come agente di Dio nella storia non compromette il mistero dell’elezione di Israele: la concezione ebraica dell’infinito amore di Dio è compatibile con molte scelte, vale per molti obiettivi. Né comporta un giudizio negativo per il rifiuto ebraico della divinità del messia cristiano.
Per quanto importante sia il progresso che abbiamo fatto, il dialogo ebraico-cristiano è ancora in età infantile. Ma la sua direzione storica e la sua inesorabilità non sono più in alcun modo in dubbio”.
da un articolo di Henry Siegman, vice presidente dell’American Jewish Congress, (“Christian — Jewish Relations; Still a Way to Go”), in Judaism, n. 137, 1986, pp. 25-28.