Non ignorare la Storia
Per gli Ebrei che tradizionalmente sono stati preoccupati per il ‘”dialogo’ Cristiano-Ebraico, i cambiamenti successivi all’Olocausto non suscitano il senso di pericolo, ma danno origine a nuove ansietà, malgrado l’atmosfera costruttiva. Il problema fondamentale sembra stare nella natura stessa del discorso teologico, che trasferisce e interpreta eventi storici entro una grandiosa soprastruttura di assunti, commenti, polemica e dottrina derivati da una lettura della Bibbia particolarmente angolata. Gli Ebrei vengono proiettati in categorie teologiche: come testimoni, rifiutati da Dio, destinati alla sofferenza, all’errare, a non avere salvezza fintantoché non accettino Gesù come Cristo. Noi esistiamo soltanto in termini definiti dalle tensioni e dai conflitti tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Ci vengono dati destini e missioni in termini definiti dalla cornice ferrea della scrittura. La storia vivente del popolo ebraico nel tempo e nello spazio terreno per i diciannove secoli passati non è in alcun modo assorbita o compresa. Non ci si dovrebbe solo lamentare, ma bisognerebbe anche protestare per la vistosa assenza di qualsiasi senso di esperienza pratica e quotidiana nel mondo dei teologi fatto di soprastruttura incorporea di pensiero. Né la carne e il sangue ebraico di oggi, né il popolo ebraico nella sua grande diversità possono essere compresi entro questa cornice. In tal modo persino in teoria la grande maggioranza degli ebrei di oggi sono di fatto esclusi dalla discussione e dalla partecipazione.
Questo punto solleva l’ulteriore questione fondamentale dell’essenziale asimmetria delle due parti definite teologicamente. I Cristiani in effetti appartengono a una ben definita comunità di fede e aderiscono a certi principi e dottrine di fede. Gli Ebrei d’altra parte, sono un popolo, alcuni dei quali aderiscono religiosamente all’ebraismo, altri no. Gli scambi teologici partono da una definizione religiosa dell’ebraicità, ma vi sono molte altre vie di essere Ebreo, vie che rifiutano l’incastro entro categorie teologiche.
L’Emancipazione ha restituito gli Ebrei alla storia, alla turbolenza di eventi vivi nel modo ‘qui e ora’, alla coscienza, persino prima della seconda guerra mondiale, del fatto che non erano della seconda guerra mondiale, del fatto che non erano senza potere ma che avrebbero potuto contribuire a determinare il loro destino personale.
Questa coscienza dette luogo al Sionismo politico, ai vari movimenti socialisti Yiddish, alla rinascita culturale ebraica e Yiddish, e a numerose critiche razionaliste ebraiche dell’ebraismo pre-emancipazione. Nessuno di questi grandi movimenti nella cornice di un discorso teologico, mentre molti ebrei del mondo contemporaneo si definiscono nell’ambito di queste tradizioni essenzialmente laiche, che costituiscono al cune delle forze più creative e vigorose della storia ebraica recente. Questi movimenti non possono essere incastrati a forza nelle categorie teologiche standardizzate di Dio, halakha, patto, attesa messianica, salvezza e redenzione, per quanto questi concetti tradizionali dell’Ebraismo possano avere potere emozionale e culturale nel definire positivamente o negativamente questi movimenti.
Cosa possono fare i teologi Cristiani di siffatti Ebrei? Ignorarli significa ignorare tutta la storia ebraica post-emancipazione.
Confrontarli significa invece un intero ripensamento del dialogo teologico, un’impresa molto più radicale del ripensamento cristiano dell’ebraismo nel mondo dopo Auschwitz. Tra gli altri nuovi punti di partenza sembrerebbe necessario, come il filosofo cattolico Frederich Heer ha sottolineato, che la chiesa stessa si immerga nel corso della storia. L’attuale rifiuto della storia tra i teologi cristiani è allarmante perché le Scritture sono ancora una volta studiate e invocate secondo la vecchia via di leggere e interpretare la storia.
Una delle decisioni del Vaticano II stimolava una nuova era di “mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo”. Temo che la prima delle vie possa condurre a una tensione maggiore, piuttosto che a diminuire la tensione.
Continuare a trattare le relazioni Cristiano-Ebraiche solo sul piano teologico può compromettere le possibilità di un “fraterno dialogo” e quindi di comunità umana. Come Ebreo non voglio essere pensato come una categoria teologica. Né voglio essere descritto in termini di Antico o Nuovo Testamento. Né desidero essere definito da promesse, minacce attese reperite in questi testi allo scopo di stabilire tra noi — Ebrei e Cristiani — relazioni civili e fraterne. Per gli Ebrei, la lettura cristiana della storia ispirata dalla scrittura ha significato la sofferenza ebraica, sopportata da uomini di carne e sangue nel mondo laico. Siamo stati afflitti da questo assalto per secoli e siamo stati testimoni nel nostro tempo della più grande catastrofe della nostra storia, che in parte aveva le radici in quell’assalto.
Vedo i rischi del rinnovo di quella tradizione ora, solo una generazione dopo l’Olocausto. Non è possibile una deviazione radicale dal discorso teologico in un nuovo piano di discussione, che riconosca le attualità della storia e, più in particolare, la storica esperienza concreta del popolo ebraico dall’emancipazione, fuori dalla cornice della storia sacra? Furono di fatto questi Ebrei, Ebrei nella storia umana, piuttosto che Ebrei nella forma cristologica, che durante l’Olocausto furono aiutati da qualche Cristiano, da persone oneste che rischiarono ogni cosa per salvarli e dar loro rifugio. Difendere e salvare la vita era il comando più sacro.
Il nostro nuovo piano di discussione potrebbe iniziare con l’interessante interpretazione di Gesù, proposta da Martin Buber: per Gesù il Regno di Dio non significava una trasformazione apocalittica o una chiesa, ma piuttosto una comunità genuina, vita perfetta dell’uomo con l’uomo, una comunità in cui ciascuno è assetato di giustizia e rettitudine, una comunità nella quale si resiste al male facendo del bene. So che molti Ebrei, come anche teologi Cristiani non amano l’interpretazione di Buber. Ma non potrebbe servire come ponte attraverso il nostro spazio teologico? E non potrebbe aiutare a diminuire l’astrattezza polemica della teologia stessa? Non è tempo di pensare le relazioni Cristiano-Ebraiche in termini di comunità umana e storia umana?
Tratto da un articolo di Nora Levin, assistant professor di Storia ebraica moderna al Gratz College di Philadelphia, pubblicato su Judaism n. 130, 1984, pp. 232-239 (titolo originale: “Whither Christian Jewish Dialogue?”).