Joseph B. Soloveitchik: Confronto
Noi ebrei abbiamo avuto il peso di un doppio compito da assolvere; dobbiamo infatti far fronte al problema di un doppio confronto. Noi pensiamo a noi stesi sia come esseri umani che condividono il destino di Adamo nel suo rapporto con la natura, che come membri di una comunità del patto che ha conservato la propria identità sotto le condizioni più sfavorevoli.
Noi ci riteniamo portatori di un doppio peso carismatico, quello della dignità dell’uomo e quello della sacralità della comunità del patto. Questo ruolo difficile, è stato affidato da Dio, che si è rivelato sia a livello della creazione universale che nel patto privato, affinché ci impegnassimo in una doppia missione — quella umana universale e il confronto del patto esclusivo.
Come il patriarca Giacobbe — la cui lotta notturna con un nemico misterioso è raccontata così drammaticamente nella Bibbia — l’ebreo d’altri tempi era un essere caratterizzato da questo doppio confronto. Il moderno ebreo emancipato ha cercato per molto tempo di fare a meno di questa duplice responsabilità che pesa gravemente su di lui. L’ebreo occidentalizzato sostiene che è impossibile affrontare entrambi i livelli, quello universale e quello del patto, i quali secondo lui si escludono reciprocamente. A suo parere è assurdo camminare fianco a fianco con un’umanità impegnata nell’approntare strumenti tecnologici per il benessere di tutti, in ubbidienza al mandato a noi affidato dal Creatore — e subito dopo voltare le spalle per rivolgersi ai nostri compagni come a una comunità distinta e separata. Ecco perché, sostiene l’ebreo occidentale, dobbiamo scegliere tra questi due tipi di confronto. Noi possiamo presentarci o come esseri umani o come ebrei. Il doppio confronto possiede una contraddizione interna.
Un doppio peso carismatico: quello della dignità dell’uomo e della sacralità della Comunità del patto
Ciò che caratterizza questi filosofi del confronto unico è il loro atteggiamento ottimista e disinvolto. Al pari dell’Adamo naturale e del vecchio ebreo, che aveva se stesso come parte del proprio ambiente e non provava mai la sensazione di essere esistenzialmente differente, si ritengono al sicuro e pienamente integrati nella società. Non si interrogano sulla ragionevolezza e giustificazione di un atteggiamento così ottimistico, né cercano di scoprire nei profondi recessi della loro personalità un impegno che trascenda gli obblighi mondani nei confronti della società.
I sostenitori della filosofia di un confronto unico (con l’eccezione di alcuni gruppi marginali) non predicano una completa de-ebraizzazione e un’assimilazione indistinta. Anch’essi parlano di identità ebraica (almeno in senso religioso), della personalità ebraica e della volontà naturale per la conservazione della comunità ebraica come un’identità separata. Di fatto, molto spesso parlano con grande zelo e calore del ruolo passato e futuro svolto dall’ebraismo per il progresso dell’umanità e delle sue istituzioni. Eppure, essi non riescono ad afferrare la natura vera e tutte le implicazioni di una piena identità.
Unicità e alterità
Questo errore si basa su due equivoci circa la natura della comunità di fede. Innanzitutto, la filosofia del confronto unico continua a parlare di identità ebraica senza capire che questa espressione può essere compresa soltanto dal punto di vista della singolarità e dell’alterità. Non c’è alcuna identità senza unicità. Così come non ci può essere un’equazione tra due individui se essi non vengono trasformati in due astrazioni, è altrettanto assurdo parlare della commensurabilità di due comunità di fede che sono entità individuali.
L’individualità di una comunità di fede si esprime in tre modi.
Il primo riguarda gli imperativi e comandamenti divini cui una comunità di fede si impegna senza riserve, le quali non possono essere eguagliate con i riti e l’eticità di un’altra comunità. Ogni comunità di fede è impegnata in un’azione normativa singola che riflette la natura numinosa dell’atto di fede vero e proprio, e non ha senso cercar di trovare denominatori comuni. In particolare quando pariamo della comunità di fede ebraica, la cui vera essenza è espressa nell’azione halakhica che è il suo elemento più individualizzato, ogni tentativo di paragonare la nostra identità con un’altra è un’assoluta assurdità. In secondo luogo, la consapevolezza assiologica di ogni comunità di fede è unica ed esclusiva, poiché si basa sul fatto di credere — e questa convinzione è indispensabile alla sopravvivenza della comunità — che il proprio sistema di dogmi, dottrine e valori è il più indicato per il soddisfacimento del bene ultimo. Terzo, ogni comunità di fede è inamovibile nelle proprie aspettative escatologiche. Ciascuna percepisce gli avvenimenti della fine del tempo con esultante certezza, e spera che l’uomo, abbandonando ogni meschinità egoistica e consacrandosi al grande destino della vita, abbracci la fede che questa comunità è andata predicando nei millenni. La standardizzazione delle pratiche, l’ugualitarismo delle certezze dogmatiche, e l’abbandono delle istanze escatologiche segnano la fine dell’esperienza di fede grande e vibrante di ogni comunità religiosa. Essa è unica ed enigmatica al pari dell’individuo stesso.
Il secondo errore della filosofia del confronto unico consiste nel non rendersi conto dell’incompatibilità dei due ruoli. Se il rapporto tra mondo ebraico e non ebraico fosse stato predisposto dalla volontà divina perché ciascun essere umano incontrasse l’altro sulla base dell’uguaglianza, amicizia e simpatia, l’ebreo sarebbe stato capace di impegnarsi totalmente assieme al resto dell’umanità nel confronto cosmico. La sua unicità nel patto e il suo mandato aggiuntivo per affrontare un’altra comunità di fede come membro di una comunità diversa di fedeli non avrebbe mai interferito in nulla con la sua disponibilità e capacità di integrarsi nelle azioni culturali del resto dell’umanità. Non c’è contraddizione tra coordinare la nostra iniziativa culturale con tutti gli uomini e al tempo stesso confrontarci con loro in quanto membri di un’altra comunità di fede. Sta di fatto che perfino all’interno della società non ebraica ogni individuo vede se stesso da un duplice punto di vista: come membro di una comunità culturalmente creativa in cui tutti sono impegnati per il bene comune, e allo stesso tempo come un individuo che vive separato e in solitudine.
Purtroppo, la società non ebraica si è confrontata con noi attraverso i secoli sotto una veste di sfida, come se noi fossimo stati parte di un ordine oggettivo subumano separato da un abisso da quello umano, come se noi non avessimo alcuna capacità di pensiero logico, di amore appassionato, di profonda nostalgia, aspirazioni e speranze. Naturalmente, per tutto il tempo che siamo stati esposti a un simile confronto impersonale e crudele da parte della società non ebraica, è stato impossibile per noi prender parte in tutti i sensi al grande confronto universale e creativo tra l’uomo e l’ordine cosmico. Il ruolo limitato che abbiamo svolto fino a tempi recenti nel grande confronto cosmico non lo abbiamo scelto noi. Dio sa che non abbiamo mai incoraggiato il rapporto crudele che il mondo ha avuto nei nostri confronti. Noi abbiamo sempre considerato noi stessi come un’inseparabile parte dell’umanità e siamo sempre stati pronti ad accettare la sfida divina “Riempite la Terra e conquistatela” (Genesi 1: 28) e la responsabilità implicita nell’esistenza umana. Non abbiamo mai proclamato la filosofia del contemptus o odium seculi. Abbiamo fermamente mantenuto che l’impegno nello schema creativo delle cose è vincolante.
L’impegno con il resto dell’umanità nel confronto cosmico non esclude, ripetiamo, il secondo confronto personale di due comunità di fede, ciascuna consapevole di cosa condivide con l’altra e cosa è invece particolarità sua. Allo stesso modo Adamo ed Eva hanno affrontato e cercato di soggiogare una natura beffarda e malvagia e tuttavia mai si sono considerati reciprocamente come due individui separati consapevoli della propria incommensurabilità e unicità, così due comunità di fede che coordinano i propri sforzi per confrontarsi con l’ordine cosmico possono affrontarsi nella piena consapevolezza della propria differenziazione e individualità.
Noi stiamo fianco a fianco con la società civilizzata contro un ordine che sfida tutti noi
Noi rifiutiamo la teoria di un confronto unico e invece insistiamo sulla indispensabilità di un doppio confronto. Innanzitutto, come abbiamo prima accennato, creati a immagine di Dio, abbiamo il peso della responsabilità del grande confronto tra l’uomo e il cosmo. Noi stiamo fianco a fianco con la società civilizzata contro un ordine che sfida tutti noi. In secondo luogo,come comunità di fede carismatica, dobbiamo accettare la sfida di confrontarci con la comunità di fede ebraica in generale. Siamo chiamati a dire a questa comunità non soltanto la storia che già conosce che siamo esseri umani, impegnati per il bene generale e per il progresso dell’umanità, che siamo interessati a lottare contro le malattie, ad alleviare le sofferenze umane, a proteggere i diritti dell’uomo, ad aiutare i bisognosi, ecc. ma anche qualcosa che è ancora sconosciuto ad essa, vale a dire la nostra alterità come comunità del patto metafisico.
Quattro condizioni (per un confronto)
È evidente che un confronto tra due comunità di fede è possibile soltanto se è accompagnato da una chiara assicurazione che entrambe le parti potranno godere di eguali diritti e piena libertà religiosa. Non rifiuteremo ogni tentativo da parte della comunità dei molti di coinvolgerci in un incontro peculiare in cui il nostro interlocutore vorrà ordinarci di porci sotto di lui che nel frattempo si collocherà non sul nostro stesso piano ma al disopra di noi. Un confronto democratico certamente non richiede che noi ci sottoponiamo a un atteggiamento di auto-legittimazione della comunità dei molti che, mentre dibatte se ‘assolvere’ oppure no la comunità dei pochi di qualche mitica colpa, ignora completamente la propria responsabilità storica per la sofferenza e il martirio così frequentemente registrati negli annali della storia dei pochi, dei deboli e dei perseguitati.
Siamo una Comunità di fede totalmente indipendente: non ruotiamo come un satellite…
Noi non siamo ancora pronti per un incontro con un’altra comunità di fede in cui diventeremo un oggetto di osservazione, giudizio e valutazione, anche se la comunità dei molti può perfino mostrare con condiscendenza un senso di compassione verso la comunità dei pochi e consigliare i molti di non far male né perseguitare i pochi. Un simile incontro trasformerebbe l’incontro personale Adamo-Eva in confronto ostile tra un soggetto-conoscitore e un oggetto conoscibile. Noi non intendiamo svolgere il ruolo dell’oggetto incontrato dall’uomo dominatore. Sollecitare commiserazione è contraddizione con il carattere di un confronto democratico. Piuttosto bisognerebbe insistere sui diritti inalienabili di ciascuno in quanto essere umano, creato da Dio.
In vista di questa analisi, sarebbe ragionevole sostenere che in ogni genere di confronto noi dobbiamo insistere su quattro condizioni basilari per salvarguardare la nostra individualità e la nostra libertà d’azione.
In primo luogo, dobbiamo sostenere in termini inequivocabili, quanto segue. Noi siamo una comunità di fede totalmente indipendente.
Noi non ruotiamo come un satellite nell’orbita altrui. Né ci rapportiamo ad alcuna altra comunità di fede come ‘fratelli’ anche se ‘separati’. La gente confonde due concetti diversi quando parla di una tradizione comune che unisce due comunità di fede come quella cristiana e quella ebraica. Questo termine ha importanza se si guarda alla comunità di fede da un punto di vista storico-culturale e interpreta il suo rapporto con un’altra comunità di fede secondo categorie sociologiche e umane per descrivere il dispiegarsi della coscienza creativa dell’uomo. Non dimentichiamo che la coscienza creativa dell’uomo. Non dimentichiamo chela coscienza religiosa si manifesta non solo in una singola esperienza di fede apocalittica ma anche in un’esperienza culturale mondana. La religione è sia un imperativo divino che è stato insinuato nell’uomo riscopre dentro se stesso. In una parola, vi è un aspetto culturale dell’esperienza di fede che è, da un punto di vista psicologico, la forza spirituale più integratrice, ispiratrice e innalzarne.
Concetti, dottrine e valori religiosi possono esser stati trasferiti in categorie culturali condivise e custodite perfino dall’uomo secolare. Tutti i riferimenti attraverso i secoli alla religione universale, la religione filosofica, eccetera, si riferiscono all’aspetto culturale dell’esperienza di fede di cui non solo la comunità dei credenti ma anche una società utilitaristica e pragmatica si serve. L’esperienza culturale religiosa dà significato e immediatezza all’esistenza umana e la mette in relazione con grandi principi, e così facendo innalza la dignità e valore umani perfino a livello mondano.
Se si guarda il rapporto tra Ebraismo e Cristianesimo da questo punto di vista, è abbastanza legittimo parlare di una tradizione ebraico-cristiana per due ragioni: primo, il giudaismo è una cultura che ha influenzato, e foggiato la formula universale cristiana etico-filosofica. Le premesse e categorie basilari di quest’ultima si sono sviluppate nell’orbita culturale ebraica. Secondo, la nostra civiltà occidentale ha assorbito sia elementi ebraici che elementi cristiani. Infatti, la nostra eredità occidentale ha preso forma dalla combinazione di tre fattori — classico, ebraico e cristiano, — e noi potremmo parlare facilmente di una tradizione ebraico-ellenistica-cristiana all’interno del quadro nella nostra civiltà occidentale. Tuttavia, quando spostiamo l’attenzione dalla dimensione della cultura a quella della fede — dove un impegno incondizionato assoluto è necessario — l’idea di una tradizione di fedi e la continuazione di dottrine rivelate che per loro stessa natura sono incommensurabili e relative a quadri di riferimento diversi è profondamente assurda, a meno che si voglia accettare la pretesa teologica cristiana che il cristianesimo ha sostituito l’ebraismo.
Come individualità di fede, la comunità dei pochi è dotata di un suo valore intrinseco che deve essere visto separatamente dal proprio indietreggiare meta-storico e senza essere rapportata al quadro di riferimento di un’altra comunità di fede. Infatti, la semplice valutazione del valore di una comunità, a prescindere dall’importanza e grandezza di questo servizio, costituisce una violazione della sovranità e dignità perfino delle più piccole comunità di fede.
Quando Dio ha creato l’uomo e l’ha dotato di dignità individuale, Egli ha decretato che la legittimità e rilevanza ontologica dell’essere umano individuale deve essere scoperta non al di fuori ma all’interno dell’individuo. Egli è stato creato perché Dio l’ha voluto un essere umano autonomo e non un essere ausiliario al servizio di qualcun altro. L’intenzionalità ontologica della sua esistenza è immanente in lui. Lo stesso vale per una comunità religiosa, il cui valore non si misura rispetto a degli standard esterni.
Ragione per cui ogni intimazione, implicita e esplicita, da parte della comunità dei molti guardante il fatto che la comunità dei pochi dissolva la propria unicità e cessi di esistere perché ha ormai compiuto la propria missione preparando la strada alla comunità dei molti, deve essere rifiutata perché antidemocratica e contraria a ogni idea di libertà religiosa.
La piccola comunità ha lo stesso diritto di professare la propria fede nelle certezze ultime relative al valore dottrinale della sua formula mondiale e osservare la propria visione escatologica della comunità dei molti. Non nego il diritto della comunità nei suoi termini escatologici. Tuttavia, Tuttavia, costruire un programma pratico su questo diritto è scarsamente in sintonia con il liberalismo e la democrazia religiosa.
Il confronto dovrebbe avvenire non a livello teologico, ma a quello umano mondano.
Secondo, il logos, la parola, in cui si esprime la molteplicità dell’esperienza religiosa non si presta alla standardizzazione o universalizzazione.
La parola della fede riflette i desideri intimi, privati, paradossalmente inespressi dell’individuo nei confronti di, e per affermare i suoi legami con, il Creatore. Essa riflette il carattere numinoso e l’estraneità dell’atto di fede di una comunità particolare che è totalmente incomprensibile all’uomo di una diversa comunità di fede. Esso perché è importante che il logos religioso e teologico non debba essere impiegato come il mezzo di comunicazione tra due comunità di fede i cui modi di espressione sono unici al pari delle loro esperienze apocalittiche. Il confronto dovrebbe avvenire non a livello teologico, ma a quello umano mondano.
Qui tutti noi parliamo la lingua universale dell’uomo moderno. Di fatto, i nostri comuni interessi non poggiano sul regno della fede, ma su quello degli ordini secolari (1). Qui, noi tutti fronteggiamo un potente antagonista, noi tutti dobbiamo far fronte a un gran numero di faccende di grande importanza.
Il rapporto tra le due comunità deve essere diretto all’esterno e riferirsi agli ordini secolari entro cui uomini di fede si fronteggiano l’un l’altro. Nella sfera secolare possiamo discutere quali posizioni prendere, idee sviluppare, progetti formulare.
Su queste faccende, le comunità religiose possono programmare azioni comuni e organizzare iniziative che possono essere attuate in seguito dalla società generale. Tuttavia, il nostro impegno comune in questo genere di imprese non deve annebbiare il nostro senso di identità come comunità di fede. Noi dobbiamo sempre ricordare che il nostro impegno singolo nei confronti di Dio e la nostra speranza e volontà indomita alla sopravvivenza non sono negoziabili e razionalizzabili e non possono diventare oggetto di dibattito o argomentazioni. Il grande incontro tra Dio e l’uomo è una faccenda privata interamente personale incomprensibile a chi è esterno — perfino a un fratello della stessa comunità di fede. Il messaggio divino è incomunicabile dal momento in cui esso sfida tutti i mezzi di comunicazione standardizzati e tutte le categorie oggettive. Se la potente comunità dei molti vuole rimediare a una situazione umana imbarazzante o modificare un errore storico, dovrebbe farlo a livello etico umano. Tuttavia, se la discussione deve svolgersi intorno ad argomenti di fede, allora uno dei contendenti sarà costretto a servirsi del linguaggio del proprio rivale. Questo vorrebbe dire di fatto abbandonare l’individualità e la differenziazione.
Terzo. Noi in quanto membri della comunità dei pochi dovremmo sempre agire con tatto e capire e trattenerci dal suggerire alla comunità dei molti, che è orgogliosa e prudente, cambiamenti nei propri riti o emendamenti ai propri testi. Se i dignitari genuinamente liberali della comunità di fede dei molti ritengono opportuni alcuni cambiamenti, essi agiranno in accordo con le loro convinzioni senza alcuna sollecitazione da parte nostra. Non è nelle nostre intenzioni consigliare o sollecitare.
(1) Il termine ‘ordini secolari’ è adoperato qui in accordo con il suo significato popolare. Per l’uomo di fede, questo termine è sviante. Dio rivendica l’interità, non una parte dell’uomo, e qualunque cosa Egli stabilisca come ordine all’interno dello schema della creazione è sacra.
Poiché sarebbe sia impertinente che imprudente per un estraneo fare intrusione nel settore più privato dell’esperienza esistenziale umana, vale a dire, il modo in cui una comunità di fede esprime il proprio rapporto con Dio.La non interferenza con, e il non impegno in qualcosa che è totalmente estraneo da noi è la conditio sine qua non per promuovere la buona volontà e il rispetto reciproco.
Quarto. Noi non siamo certo stati autorizzati dalla nostra storia, santificata dal martirio di milioni, neanche di suggerire a un’altra comunità di fede che siamo mentalmente pronti a rivedere atteggiamenti storici, a commerciale favori appartenenti a fondamentali argomenti di fede, e di riconciliarci su ‘alcune’ differenze. Una simile suggestione non sarebbe che un tradimento della nostra grande tradizione ed eredità e non produrrebbe, tra l’altro, alcun beneficio pratico. Non dimentichiamo che la comunità dei molti non sarà soddisfatta con mezze misure e compromessi che sono solo indicativi di un sentimento di insicurezza e di vuoto interiore. Non possiamo richiedere rispetto ai nostri antagonisti se mostriamo un atteggiamento servile.
Il diritto della Comunità dei pochi a vivere, creare, e pregare Dio alla propria maniera e con dignità
Soltanto una politica aperta, franca e inequivocabile che rifletta un impegno incondizionato a Dio, un senso di dignità, orgoglio e gioia interiore per essere ciò che siamo, la convinzione della grande passione con cui crediamo nella verità ultima delle nostre concezioni, la preghiera fervente e l’aspettativa fiduciosa nella soddisfazione della nostra visione escatologica quando la nostra fede si solleverà dalla particolarità all’universalità, potrà impressionare i membri dell’altra comunità di fede tra cui contiamo sia amici che nemici. Io prego e spero che i nostri amici nella comunità dei molti sosterranno le loro convinzioni liberali e ideali umanitari articolando la loro posizione sul diritto della comunità dei pochi a vivere, creare, e pregare Dio alla propria maniera, in libertà e con dignità.
Ospite e straniero
I nostri rappresentanti che si incontrano con i portavoce della comunità dei molti dovrebbero essere istruiti in maniera simile a quella enunciata dal nostro patriarca Giacobbe quando egli spedì i propri inviati a incontrare suo fratello Esaù.
“E diede quest’ordine al primo: Quando Esaù mio fratello, ti incontrerà, e ti domanderà: di chi sei tu? e dove vai? e di chi sono questi che vanno davanti a te?
Dì: “io son del tuo servitore Giacobbe; questo è un presente mandato al mio signore Esaù; ed ecco, egli stesso viene dietro a noi. E diede lo stesso ordine al secondo, ed al terzo, ed a tutti quei servitori che andavano dietro a quelle greggi; dicendo: Parlate ad Esaù in questa maniera, quando voi lo troverete.”
Quale era la natura di queste istruzioni? Il nostro approccio e rapporto con il mondo esterno è sempre stato di carattere ambivalente, intrinsecamente antitetico, certe volte sconfinante nel paradossale. Noi ci rapportiamo a, e contemporaneamente ci tiriamo fuori da, noi ci avviciniamo e allo stesso tempo ci allontaniamo dal mondo di Esaù. Quando il processo di avvicinamento progressivo è quasi compiuto noi cominciamo immediatamente a ritirarci subito nell’isolamento. Noi collaboriamo con gli esponenti di altre comunità di fede in tutti i campi dello sforzo umano costruttivo, ma contemporaneamente alla nostra integrazione nel quadro sociale generale, noi ci impegnamo in un movimento di arretramento e ritorno sui nostri passi.
In una parola, noi apparteniamo alla società umana, e al tempo stesso, ci sentiamo come stranieri ed estranei. Noi siamo radicati nella realtà qui e ora come abitanti del globo, e tuttavia sperimentiamo un senso di sradicamento e solitudine come se appartenessimo ad un altro luogo. Siamo al tempo stesso realisti e sognatori, prudenti e pratici da un lato, e visionari ed idealisti dall’altro. Siamo impegnati nello sforzo culturale e tuttavia siamo impegnati in un’altra dimensione dell’esperienza. Il nostro primo patriarca. Abramo, si è presentato con le seguenti parole: “Sono uno straniero e un ospite assieme a voi.” È possibile essere entrambi allo stesso tempo?
Non è forse questa una definizione assurda che contravviene al principio basilare della logica classica che nessun giudizio cognitivo può contenere due termini che si escludono reciprocamente? E tuttavia, l’ebreo degli antichi ha sfidato questo secolare principio e pensava a se stesso in termini contraddittori.
Egli sapeva bene in quali aree poteva estendere la propria piena cooperazione verso i vicini e agire come un residente, un ospite, e fino a che punto questo gesto di cooperazione e buona volontà sarebbe potuto durare, e come avesse dovuto disimpegnarsi quasi fosse uno straniero. Egli sapeva a quali imprese poteva partecipare dando il meglio della propria abilità e quali offerte e suggerimenti, per quanto attraenti e seducenti doveva risolutamente rifiutare. Era consapevole di ciò su cui poteva fare dei compromessi, sulla natura dei beni che poteva dare, e viceversa, sui principi che non erano negoziabili e i beni spirituali che dovevano essere difesi a qualunque costo.
La linea di confine tra un’idea finita e un principio alimentato dall’infinito, proprietà transeunti e tesori eterni, era chiara e precisa. Giacobbe, nelle istruzioni date ai suoi inviati, dettò la legge: “Quando Esaù mio fratello ti incontrerà, e ti domanderà: di chi sei tu, e di chi sono questi animali che vanno davanti a te?”. Mio fratello Esaù, disse Giacobbe ai suoi inviati, vi rivolgerà tre domande. “Di chi siete?” A chi, come essere metafisici, come anima, come personalità spirituale appartenete? “E dove andate?” A chi è impegnato il vostro destino storico? A chi avete consacrato il vostro avvenire? Qual’è il vostro fine ultimo, il vostro obiettivo finale? Chi è il vostro Dio e qual’è il vostro modo di vivere? Queste due domande riguardano la vostra identità come membri di una comunità del patto. Tuttavia, Giacobbe proseguì, mio fratello Esaù farà anche una terza domanda: “E chi sono questi davanti a voi?” Siete pronti a contribuire con il vostro talento, capacità sforzi al benessere materiale e culturale di tutta la società? Siete pronti a donarmi buoi, capre, cammelli e tori? Siete disposti a pagare tasse, a sviluppare e industrializzare il paese? La terza domanda riguarda gli aspetti temporali della vita. Riguardo alla terza domanda, Giacobbe disse ai propri inviati di rispondere affermativamente. “È un dono per il mio signore, per Esaù”. Sì, siamo disposti a prender parte a ogni impresa civica, scientifica e politica. Ci sentiamo obbligati ad arricchire la società con i nostri talenti creativi e a essere cittadini attivi e costruttivi. Ma riguardo alle prime due domande — di chi siete e dove andate — Giacobbe ha raccomandato ai suoi inviati di rispondere negativamente, in maniera chiara e precisa, con sicurezza e coraggio. Egli ordinò loro di dire a Esaù che la loro anima, la loro personalità, destino metafisico, avvenire spirituale e impegni sacri appartengono esclusivamente a Dio e al suo servo Giacobbe. “Sono del suo servo Giacobbe”, e nessun potere umano può avere possibilità di successo nel recidere il legame eterno tra essi e Dio.
Una storia di millenni ci chiede di rispondere
Questo testamento che è pervenuto a noi da Giacobbe è diventato molto importante ora nell’anno 1964. Ci troviamo a dover confrontarci ancora una volta come Giacobbe, e i nostri protagonisti sono pronti a rivolgerci le stesse tre domande:
“Di chi siete? Dove andate? Di chi sono quelli davanti a voi?”
Una storia vecchia di millenni ci chiede che noi rispondiamo a questa sfida in maniera coraggiosa e rispondiamo nello stesso modo con cui Giacobbe istruì i suoi messaggeri molte migliaia di anni fa.
(Traduzione di Paola Di Cori)
Delibera del rabbinical council
L’organo rappresentativo del rabbinato americano ortodosso (Rabbinical Council of America), recependo le indicazioni di Soloveitchik, formulò in un documento ufficiale (datato 3-5 febbraio 1964) le indicazioni sul dialogo interconfessionale, in questi termini: