Ebraismo anno zero: a colloquio con Arrigo Levi
Editorialista de “La Stampa”, presentatore ed animatore di programmi giornalistici e televisivi, — ma anche inviato, corrispondente, scrittore di successo. Senza dubbio Arrigo Levi è fra le figure di rilievo del mondo dell’informazione italiana da anni, un personaggio conosciuto e da conoscere che noi abbiamo incontrato per rileggere sotto un profilo ebraico i suoi successi, la sua vita.
Il primo ricordo di Levi è per la Modena dell’anteguerra “una comunità molto piccola, all’inizio del secolo gli ebrei modenesi erano qualche migliaio, poi molti emigrarono verso le grandi città, si ridussero sempre più e nel periodo della mia infanzia c’erano poco più di un centinaio di ebrei tanto che spesso v’era difficoltà a far minian in Sinagoga”. I ricordi di Levi sono molto nitidi, descrive una comunità di proporzioni modeste ma attiva: infatti “la Sinagoga era aperta, c’era un rabbino permanente, i bambini come me andavano al Talmud-Torà, i sedarim si facevano in comunità o da parenti”, tuttavia la sua famiglia non era fra le più osservanti tanto che “il kippur — ci racconta — iniziai a farlo nel periodo delle leggi razziali, cioè questa scelta si inserisce nel contesto di un evento traumatico per gli ebrei di allora”.
A Modena dunque gli ebrei si riunivano in genere in occasione delle festività quando “c’era un raccogliersi di persone che venivano da molto lontano, si riapriva la seconda sinagoga, la Scuola tedesca, dove si incontravano i Donati, i Mortara, che si vestivano con il frac per le grandi feste e parlavano ghettaiolo, un dialetto modenese infarcito di parole ed espressioni ebraiche che ora rimangono per lo più nel lessico familiare. Come per esempio guyà per dire “donna” o davar per far intendere di tacere.
Tuttavia, come ci spiega Levi che ebbe i natali nella Modena di allora, il ghettaiolo originale nasceva dal ghetto del secolo precedente ed era una lingua più complessa ed articolata, le ultime persone che lo parlavano nel vero senso del termine “erano Angelo Donati, Benvenuto Donati, poi professore e rettore dell’Università di Modena”. In seguito questo idioma come lingua scomparse rimanendo appunto solo come insieme di espressioni da usare in determinate occasioni.
Rodolfo Levi era il rabbino di quella Modena fine-anni Venti, anche lui poi deportato nei campi di sterminio insieme ad altri centodieci ebrei del capoluogo emiliano, dove c’era l’usanza di organizzare feste da ballo per favorire incontri fra i giovani e prevenire così i matrimoni misti. In queste occasioni “venivano a Modena giovani anche di altre comunità, come Reggio, Bologna, Padova,” ma si organizzavano spesso anche recite, come sottolinea Arrigo Levi ricordando una foto della sua sorella maggiore, che ora ha settant’anni, mascherata da Esther per Purim.
Tutto ciò però “aveva poco spessore; infatti è vero che la comunità aveva prodotto professori e professionisti di valore, ma fuori dal vero e proprio nucleo ebraico; inoltre a Modena il nucleo sionista non era molto attivo. V’erano sì due o tre grandi benefattori come Salvatore Donati, ma l’ebraismo tornò come fattore dominante all’indomani della proclamazione delle leggi razziali. Già da prima del 1938 comunque qualcosa era cambiato, per Modena infatti transitavano alcuni profughi ebrei tedeschi che in una qualche forma raccontavano ciò di cui erano stati testimoni”.
In effetti l’Italia era divenuta in quegli anni una via di transito per chi poteva mettersi in fuga, rifugiarsi lontano dai nazisti. Levi ricorda che questi profughi portavano con loro delle lampadine, forse per venderle forse per usarle in qualche modo, come anche degli studenti che giungevano dall’Europa Orientale, dove c’era il numero chiuso nelle università. Tutto ciò contribuì ad avere le prime percezioni di “un mondo più ostile, lontano, che si ricollegava ai ricordi dei pogrom“, anche se molti ebrei modenesi, come il padre stesso di Arrigo Levi, erano antifascisti e quindi rimasero meno sorpresi di tanti altri dai provvedimenti antiebraici del fascismo, “per gli ebrei antifascisti dunque — continua Levi — le leggi razziali arrivarono come un fenomeno che in qualche modo ci si aspettava”.
Portammo in dono ad un Tempio di Buenos Aires una grande lampada della Sinagoga di Scandiano
Dopo il 1938 Arrivo Levi con la sua famiglia resta nella città emiliana ancora a lungo, fino al 1942, quando fu fra gli ultimi ebrei a lasciare l’Italia legalmente prima della caduta del fascismo. Passando per il territorio della Francia libera e poi via Spagna grazie anche a “raccomandazioni e protezioni del Vaticano” i Levi attraversano l’Atlantico e giungono in Argentina. Qui c’è l’incontro con los rusos, come venivano chiamati dalla popolazione locale gli ebrei che erano arrivati verso la fine dell’800 dando vita alle prime comunità israelitiche. “Portammo in dono — ricorda Levi che allora aveva poco più di quindici anni — ad uno dei Templi di Buenos Aires, quello di Ovilleros, una grande lampada che veniva dall’antica Sinagoga di Scandiano in provincia di Reggio Emilia, oramai chiusa”.
Tuttavia sarebbe un errore vedere in questo gesto il carattere tipicamente religioso della famiglia Levi, che invece apparteneva alla tradizione libero-pensatrice dell’emancipazione, slegata dall’osservanza tradizionale nel contesto dello spirito di integrazione che animò gli ebrei italiani all’indomani dell’apertura dei ghetti. Un ritorno all’osservanza casomai si ebbe “all’indomani delle leggi razziali, prima di allora mio padre andava al Tempio solo per i matrimoni”, precisa infatti il nostro interlocutore.
In Argentina c’è poi l’incontro con altri ebrei italiani di Trieste, Milano ed altre città di estrazione alto-borghese, e l’inizio dell’attività giornalistica nell'”Italia Libera”, un giornale antifascista italiano su cui scrisse anche il padre di Arrigo Levi. Come studente ed antifascista il giovane giornalista si trovò poi coinvolto nella lotta al Peronismo, che aveva delle caratteristiche assai simili alle dittature fasciste europee. Le notizie dell’Olocausto allora arrivavano scarse e con difficoltà. Levi ricorda che all’indomani della liberazione di Roma giunse a Buenos Aires l’elenco delle vittime delle Fosse Ardeatine, che fu pubblicato su “Italia Libera” ad eccezione di un nome che Levi stesso per cautela fece togliere, perché uguale a quello del padre di un suo cognato, (poi si scoprì che si trattava di un caso di omonimia).
Alla fine del secondo conflitto mondiale la famiglia Levi torna in Italia, il padre di Arrigo è molto malato, ma tuttavia riesce a recarsi alle urne il giorno del loro arrivo — era proprio il 2 giugno 1946 – per votare a favore della Repubblica nel referendum. Inizia qui, proprio a Modena, l’esperienza israeliana e sionista del giovane Arrigo che oggi ricorda come “nel 1948 arrivarono gli shlihim della sohnut e dalla città emiliana partirono due dei centoventi giovani italiani che andarono in Israele”. Così descrive Levi il momento-decisione della partenza: “allora io mi consideravo — come anche ora — un ebreo assimilato, con una molteplicità di links, legami, ma in quel momento fra questi rapporti era dominante quello con il mondo ebraico e con Israele, specialmente per un giovane come me che aveva ‘mancato’ la grande occasione della guerra partigiana”.
Fra quei giovani che partirono vi furono poi anche dei romani, alcuni dei quali ancora oggi incontro, come Angelo Pavoncello, o “Pavoncellino” come lo chiamavano a causa della sua età. Era infatti un quindicenne, ma riuscì lo stesso a farsi prendere per andare in Israele. “Il gruppo con Levi si trasferì poi ad Ansano del Darco, in Lombardia, in un campo dell'”American Joint” dove gli furono date le prime istruzioni insieme a molti superstiti dei campi di concentramento “molto magri”, affamati. Il periodo di addestramento “militare senz’armi” durò per due-tre mesi dopo la partenza illegale per Israele sotto falsi nomi, per far apparire gli italiani degli scampati ai lager, e l’arrivo vicino Haifa. Da allora inizia la partecipazione ai giorni dell’Indipendenza: il volto del nostro interlocutore si fa sereno, ricorda ili campo di addestramento vicino Tel Aviv, l’arruolamento con un suo compagno di Modena nella compagnia da campo numero 2 del genio (“Mahleket sadè mispar shtaim dei meandesim” ci dice ricordando la denominazione in ebraico dell’unità). Nei genieri della Hativat ha Negev, della brigata del genio, Levi fu subito in contatto con gli israeliani “infatti quella era un’unità composta unicamente da sabra, esclusi noi due: quindi iniziammo subito a dover parlare in ebraico, una lingua di cui noi ricordavamo quel poco che ci era rimasto dalle lezioni nel Talmud–Torà“. “Ricordo quando ci unimmo alla compagnia a Beer Yaakov, a sud di Tel Aviv, e partimmo per il fronte meridionale verso i kibbutzim più lontani”. I ricordi ora si fanno più chiari, ecco i nomi dei compagni, dei luoghi di quella guerra che per Levi “era un fatto personale, l’esercito non era di militari, ma di civili” non vi era insomma una rigida disciplina, ma la sensazione di fare tutti insieme qualcosa di “comune”. In quella tzavà non c’erano divise (“il berretto mi fu dato solo mesi più tardi”) ed appena la guerra si interrompeva si andava a casa. “Ricordo che il nostro comandante, Michaeli, aveva un garage” racconta sottolineando come fosse l’aspetto umano più che militare a caratterizzare il loro “servizio” che li portò a compiere azioni clamorose come la distruzione di un grande ponte di Abu Aghila a sud di Beer Sheva, in territorio egiziano, “una zona dove sono tornato venticinque anni dopo, constatando come gli egiziani non l’avessero subito sostituito ma fosse stato costruito un nuovo ponte poco distante”. Dopo di allora ritroviamo Levi a Haifa, con Marcello Savaldi al Beit Rughemberg, dove si occupa dei programmi di integrazione per gli ebrei nordafricani appena arrivati, “erano i primi sefarditi che arrivavano, molto lontani dalla cultura occidentale, molto religiosi” a cui si insegnava l’ebraico ed altre attività.
Una storia ebraica di un ebreo che si dice “assimilato”, ma questa definizione, per quanto riguarda Levi è molto lontana dal significato classico di rinuncia della propria identità; è invece un modo più complesso ed articolato di vivere l’ebraismo nell’insieme dei rapporti culturali e personali che ogni persona ha. Nonostante ciò è evidente che il suo ebraismo si manifesti giornalmente. Gli chiediamo come e lui ci risponde: “Ci sono diversi modi: da quello di pensare all’approccio stesso che si ha con la realtà, dai valori dell’educazione familiare a quelli dell’ebraismo italiano dell’epoca della rottura dei ghetti, che era l’ebraismo che portava allo studio, all’operosità per ‘poter riuscire’. Un’etica che ha le sue radici nei ghetti, dove si studiava anche senza quaderni. Se queste sono le radici più importanti del modo di essere, di comportarsi, la parte più importante della formazione quindi, bisogna dire che anche Israele ha un suo ruolo. L’eredità sionista è sempre infatti un elemento costante, e per aver preso direttamente delle posizioni sul Medio Oriente, come quando collaborai alla stesura di un opuscolo su questo tema nell’ambito delle ricerche della commissione trilaterale insieme all’attuale primo ministro irlandese Fitzgerald, al sottosegretario di Stato Joe Sisco ed all’ambasciatore giapponese”.
Il fatto di essere stato un Levi “per molti anni ha fatto sì che nella mia carriera giornalistica — continua l’editorialista — non mi sia occupato di Medio Oriente, ero infatti un sovietologo e credevo che altri fossero più adatti di me nel trattare l’argomento di Israele. Ho ricominciato ad occuparmi di Medio Oriente solo negli ultimi dieci-quindici anni con scritti, interventi ed anche partecipazioni, come quella di questi giorni nell’ambito dell’Istituto per Israele e la Diaspora dell’Università di Tel Aviv, dove si sta costituendo una “Coalizione Israele-Diaspora” che si preoccupa di ravviare i rapporti fra israeliani e non, coinvolgendo anche quegli ambienti ebraici spesso più lontani”. L’episodio più difficile, per il contrasto fra l’elemento personale e quello professionale, che ricorda, è quando si trovò a commentare per la televisione la guerra dei Sei Giorni (“vissi angosciatissimo per una settimana” ci dice). Terminato il conflitto, assieme alla moglie andò di fronte alla Sinagoga temendo di dover affrontare i rimproveri dei correligionari; invece, fra una folla immensa, l’ambasciatore di Israele l’abbracciò.
Questo il suo passato, sul presente Arrigo Levi è convinto che “siamo all’anno zero dell’ebraismo perché ancora non riusciamo a renderci conto di quale sarà l’impatto che avrà l’esistenza dello Stato d’Israele su un Ebraismo che continuerà ad essere composito ed in parte diasporico.
Se infatti è vero che oggi l’ebreo è emancipato, sappiamo anche che di tale processo nuovo, che comprende anche un allontanamento dalla religione verso un’identità più laica, oggi ben poco si può prevedere: infatti bisogna tener presente che l’identità ebraica è molto complessa, ha le radici nel profondo di tutti noi, per cui alcuni processi, come il rispetto della tradizione, hanno spesso una matrice molto personale”.
Termina qui il nostro incontro con un ebreo fra i più conosciuti in Italia. Brillante come sempre Arrigo Levi ci ha raccontato con la sua vita una parte della storia ebraica contemporanea sotto un’ottica particolare, descrivendo un’identità ebraica poliedrica e singolare, aperta al confronto nel contesto del più vasto complesso dei rapporti fra gli uomini.
Maurizio Molinari