Tishà Be Av: Il mistero del hurban
La memoria ebraica è attraversata da una ferita che la tradizione chiama 9 di Ab o Hurbàn, che segna la fine dello Stato ebraico e l’inizio dell’esilio. Per non disperare, per cercare almeno di chiudere la breccia ed il suo richiamo suicida, nacque una strana letteratura diversa da ogni altra che gli Ebrei chiamano Torà, anche se a rigore con questo termine si dovrebbe designare solo in Pentateuco. Il Talmud rappresenta così l’inizio di quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione di contenere, con la scrittura, una ferita inguaribile.
Ricordiamo brevemente i fatti: la storia di Israele può dividersi in tre grandi periodi: il primo è quello biblico, il secondo inizia con l’esilio di Babilonia e termina con quello imposto dai Romani, il terzo può darsi stai terminando sotto i nostri occhi.
Tre periodi separati da due catastrofi nazionali, anzi dalla stessa ripetuta due volte: il Hurbàn, la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta la prima volta ad opera del generale Nevuzaradan, agli ordini del babilonese Nabucodonosor, la seconda, alcuni secoli più tardi, ad opera di Tito.
La tradizione afferma che queste due sventure ebbero luogo lo stesso giorno, il 9 di !Av e che la stessa data segnerà più tardi altre tragedie nazionali ebraiche, come l’espulsione degli ebrei dalla Spagna.
L’Ebraismo resterebbe oscuro a colui che non intende comprendere il senso del Hurbàn, la sua dimensione enigmatica che organizza questa religione. Simbolo di ogni disgrazia personale o collettiva, il Hurbàn rappresenta il tormento del popolo ebraico, un tormento implacabile del tutto diverso dalla tematica cristiana della passione, che viene alleviata con una resurrezione quasi immediata.
L’Ebraismo è il solo grande culto che possiede una rovina come il più sacro dei luoghi e questo è un elemento essenziale nella struttura del pensiero ebraico.
Dopo venti secoli il lutto per la distruzione del Tempio è, per chi sa osservarlo, straordinariamente presente nell’anima ebraica, nei giorni di dolore come di gioia, e infatti viene significativamente ricordato il giorno del matrimonio, sotto la Chuppà.
Lutto di una durata record “patologia”, una malinconia collettiva che, ad ogni tentativo di alleggerirne il peso, sembra approfondire la sua traccia. Questo “approfondimento di traccia” è l’Ebraismo stesso, quello che noi conosciamo.
Il paradiso del Hurbàn sta nell’aver permesso allo stesso tempo la sopravvivenza del piccolo popolo ebraico, mentre tutte le grandi nazionali rivali dell’antichità sono ormai relegate nell’archeologia.
Un apologo rabbinico, che riprende, modificandola, l’Apologia di Socrate, può aiutarci a comprendere il significato del Hurbàn: l’oracolo di Delfi avrebbe rivelato a Socrate che per quanto riguardava la saggezza egli era secondo, dopo un uomo chiamato Geremia che abitava a Gerusalemme. Socrate si mise in viaggio, arrivò nella città devastata e interrogò gli abitanti:
“Dove sta Geremia?”
“Sali sul monte Morià, lo troverai lì tra le rovine del nostro Tempio”. E infatti a Socrate apparve innanzi un uomo cencioso che esprimeva tutto il dolore del mondo.
“Come è possibile che tu, l’uomo più saggio della terra, sia così affranto per la distruzione di un edificio di pietra e legno?”
“Se si fosse trattato di sola pietra e solo legno il tuo rimprovero sarebbe giusto, ma il mio sconforto nasce da qualcosa di più profondo: prima, quando venivano dei giorni difficili mi bastava entrare in questo edificio perché tutta la mia tristezza scomparisse. Ora, dopo la sua distruzione sono invaso da un risentimento nuovo che mi spezza l’anima.”
“Quale?”
“Il dubbio”.
E prima di tutto, il dubbio di sé.
Questo tempio non era altro che la materializzazione della teologia di Israel, che si potrebbe rappresentare come una serie di anelli concentrici, di sacralità crescente man mano che ci si avvicina al centro; la funzione di tutto l’edificio consisteva nel conservare questo foro centrale, ossia quel fuoco molto particolare che Mosè incontrò la prima volta nell’esperienza del roveto ardente, poi nella colonna incandescente che guidava gli ebrei liberati dall’Egitto, infine nell’abbraccio del Sinai. Era stato necessario inventare un modo per rendere eterno questo incontro decisivo, trovare un’equivalenza. Mosè stabilì la seguente: roveto ardente = Santo dei Santi (Luogo Santissimo), dove sarebbero state conservare le Tavole della Legge.
Nessuno, pena la vita aveva il diritto di entrarci, ad eccezione del Cohen Gadol il Sommo Sacerdote, una volta l’anno, a Kippur, con delle catene alle caviglie, perché nel caso fosse morto nel Santissimo lo si potesse tirar fuori.
Il Santo dei Santi era posto, durante la traversata del deserto nella “Tenda dell’adunanza” prototipo del futuro Tempio di Gerusalemme. Durante gli spostamenti, attorno alla tenda viaggiavano prima i Sacerdoti, poi i leviti infine le dodici tribù divise tre a tre per punto cardinale. Nel suo cammino, Israel è a sua volta circondato dal popolo dei credenti chiamato a divenire l’umanità intera. All’interno di questa topografia concentrica, gli occupanti di un anello sono i sacerdoti di quelli che occupano l’anello più esterno. Più tardi questa configurazione sarà riprodotta nella terra di Canaan, i cerchi concentrici si disporranno attorno a Gerusalemme; poi all’interno della città, intorno al Tempio, ed infine intorno al Kodesh Ha-Kodashim, il luogo santissimo.
Il Tempio era il centro di ogni attività: quella religiosa e culturale, ma anche politica, sociale ed economica. Queste differenti funzioni non erano separabili, formavano una catena dalla quale non poteva essere tolta alcuna malia pena la rottura. La dimensione del Sacro determinava evidentemente tutte le altre.
Il Santo dei Santi, questo punto geometrico, designava il centro dell’Universo, il cordone ombelicale attraverso il quale il mondo degli uomini e quello di D. comunicavano. Attraverso esso l’uomo poteva agire sul reale, quantomeno prevederne i ritmi; e, attraverso esso, D. penetrava il mondo ed elargiva il nutrimento che solo, dirà Isaia, può placare la fame degli uomini. Il Santissimo era in un certo senso il seno divino.
Comprendiamo allora quali conseguenze provocò la perdita di questo “organo”; un autentico collasso, lo spezzarsi della catena da esso sostenuta, la disgregazione dello spazio psichico (o mentale?). Una fine del mondo, qualcosa di peggio della morte. Gran parte degli ebrei di allora non voleva sopravvivere a questa prova. Giuseppe Flavio ci ha descritto il loro eroismo senza confronti di fronte a Roma.
Poiché terra e cielo avevano divorziato, per i superstiti del cataclisma iniziava una solitudine totale, una depressione con tutti i caratteri della melanconia: un profondo senso di colpa per aver causato, con l’infedeltà a D. e l’idolatria, la distruzione del Tempio; una sensazione di inadeguatezza e di inferiorità per non aver saputo impedire la rovina di ciò che era più prezioso al mondo e del quale essi avevano la custodia. Ora potevano solo rivolgere le loro preghiere verso un mucchio di rovine.
I valorosi guerrieri di Giudea, dopo qualche ultimo sussulto, colpiti come da “inibizione motoria” diventeranno incapaci a difendersi dagli assassini dell’Inquisizione e dei pogroms.
Tale doveva essere lo stato d’animo di Geremia quando aveva incontrato Socrate: scontro di due concezioni del mondo radicalmente diverse: quella ebraica dove primeggiano la storia e i suoi eventi e quella greca che procede per miti.
Ci si può chiedere quale è la ragione della paradossale sopravvivenza del popolo ebraico. In tutte le culture la distruzione del “santuario” ha determinato la loro scomparsa. Se l’Ebraismo ha conosciuto una sorte diversa è perché un edificio invisibile si sostituì a quello di pietra, come se l’edificio di pietra non fosse stato altro che l’immagine manifesta di un tempio spirituale molto più vasto e indistruttibile.
La prima metamorfosi in questo senso avvenne dopo Babilonia, sotto l’impulso energico e visionario di Ezrà, un maestro che reinventò l’insegnamento di Mosè e il popolo ebraico. Il fatto che questo nuovo popolo presentasse delle differenze sensibile con la precedente (non parlava né comprendeva più la sua lingua, ma un’altra, l’aramaico) non ebbe una grande importanza. Giustamente i Maestri paragonarono Ezrà e Mosé.
Ezrà seppe trarre dalla catastrofe babilonese una lesione decisiva, ma volle ricostruire una nazione ebraica, praticamente scomparsa, simile alle altre nazioni, aggiungere una unità ad una moltitudine; volle ricondurre Israele al suo compito di far vivere l’insegnamento di Mosé (un D. unico, una Legge, insomma la funzione paterna). In questo progetto il nazionalismo e le strutture statali non erano prioritarie.
La precedente organizzazione del Regno di Giuda, basata sui pilastri della monarchia, del Tempio e dei Profeti si era rivelata poco sicura. Ezrà la modificò completamente.
Nell’accettare il semi-stato offerto da Ciro, semplice protettorato persiano, non ristabilì la monarchia ma istituì delle strutture molto flessibili articolate attorno alla Grande Assemblea dei Saggi.
Ezrà soppresse anche il profetismo. È importante ricordare che esso non si limitava al piccolo pugno di giganti: Isaia, Geremia, Ezechiele la voce dei quali vibra ancora negli scritti biblici, ma costituiva una vera istituzione: attorno al Tempio gravitavano veri e falsi profeti e non era sempre facile distinguere gli uni dagli altri. Anche i più grandi profeti non erano esenti da critiche, non essendo in definitiva riusciti nella loro missione pedagogica. Infatti, se la retorica di Isaia è superba, la sua didattica molto più semplice e pavloviana si riassume nell’uso del bastone e della carota: obbedite alla Legge o sarebbe castigati.
Infine il Tempio: Ezrà lo ricostruì ma modestamente; si dice per mancanza di mezzi, ma forse anche per diminuire il suo speciale modo religioso si era rivelato un altro punto fragile del sistema. Esso conserva il culto precedente dei sacrifici di animali, ma vi aggiunge un secondo rito: la lettura settimanale e lo studio del Libro di Mosè in ogni comunità. Questa iniziativa rivoluzionaria, malgrado la sua apparente semplicità, malgrado la sua apparente semplicità, trasforma la sua apparente semplicità, trasforma fin dall’antichità il popolo ebraico nella sua totalità in un popolo di lettori e di letterati. Nasce così un’arte nuova ed essenziale nell’ebraismo, quella del Midrash.
In tal modo viene prolungata l’equazione di Mosè che ora diviene: roveto ardente = Santo dei Santi = Libro.
Nessuno più di Ezrà si è impegnato nell’edificazione del “Tempio invisibile”.
Con il trascorrere dei secoli egli si è rivelato uno straordinario pedagogo dando origine a un sistema di trasmissione che costituisce una delle risorse del perpetuarsi dell’Ebraismo.
Un gruppo di saggi, Ha-Knesset ha Gdolà la grande Assemblea proseguì l’opera di Ezrà (sui due secoli successivi si sa molto poco).
Una cosa è certa: l’idolatria è ora scomparsa e la Torà trionfa definitivamente tra gli Ebrei. La pedagogia di Ezrà era riuscita là dove le collere visionarie di Elia e di Isaia avevano fallito.
Michel Monheit