Maimonide e la scienza
Che cosa possiamo imparare da Rambam (Maimonide) circa il rapporto tra scienza e religione ebraica? Per rispondere a questo interrogativo bisognerebbe prima descrivere quale fosse il rapporto religione-scienza al tempo di Rambam; questa a sua volta pone la domanda preliminare: che cosa era la scienza al tempo di Rambam?
E qui si urta contro un primo forte limite: infatti si può parlare di scienza solo in termini contemporanei; al tempo di Rambam la scienza era cosa alquanto diversa da come si intende oggi.
Basti considerare che oggi la fisica è fra le scienze naturali la più matematizzata, mentre al tempo di Rambam si notano due tipi di scienza, riassumibili nel modo seguente.
1) La fisica, è fisica aristotelica, anche per Rambam; questa fisica è qualitativa e tratta della realtà. Si divide in: a) fisica terrestre (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, due tendenti all’alto, verso i cieli, due al basso, verso il centro della terra); b) fisica celeste; non i quattro elementi, ma la quintessenza incorruttibile, che compone l’universo delle sfere celesti, al centro delle quali è la Terra.
Tutto questo è reale.
2) Il mondo dei fenomeni. Questo è originato: a) dal problema delle apparenze, che non coincidono con la scienza aristotelica (ne è chiaro esempio il problema del moto retrogrado di Saturno (1); b) dal fatto che l’osservazione e la previsione dei moti celesti interessa soprattutto gli astrologi. Per lungo tempo l’uomo è stato impressionato dall’osservazione che il moto circolare degli astri si ripete costantemente, e ciclicamente, quindi eternamente, richiamando l’idea di perfezione, mentre l’uomo, che pure si sente soggettivamente il protagonista della vita, perlomeno della sua vita, ha coscienza che la vita umana segue un percorso per così dire lineare: ha un principio, un divenire a senso unico, che non può tornare indietro, che non si ripete mai, e una fine. Il contrario della perfezione.
Occorre dunque uno strumento di calcolo. Questo è dato dalla matematica, che viene applicata al calcolo astrologico-astronomico. Questa astronomia però non è considerata realtà, ma, o apparenza, o strumento usato dagli astrologi (o entrambe le cose).
Rambam tratta entrambi questi tipi di scienza.
Il primo lo tratta nel primo libro del Mishnè Torà, che s’intitola Séfer ha–Maddà (che si potrebbe tradurre “Il libro della conoscenza”; oggi maddà significa scienza tout court): i primi quattro capitoli dell’opera descrivono quelle che la tradizione ebraica chiama Maasé Merkavà, che per Rambam corrisponde alla metafisica (la Divinità, l’Unità, l’Incorporeità, il Motore immobile), e il Maasé Berescìt, che per Rambam corrisponde alla fisica (aristotelica).
Il secondo tipo di scienza è trattato nel terzo dei 14 libri del Mishné Torà, nella parte intitolata Hilkhòt kiddùsh ha–hò–desh, dove, in 19 capitoli densi di calcoli, Rambam riporta e formalizza le regole per la determinazione del Rosh hòdesh (neomenia, capomese).
Forse l’ordine in cui Rambam tratta la materia non è dovuto solo alla necessità di classificazione degli argomenti che compongono la sua vasta opera a carattere enciclopedico, ma anche a una scelta di importanza: il primo argomento è di carattere fondamentale, in quanto relativo all’assenza (o meglio, conoscenza dell’assenza del sacro); il secondo, molto specifico, è in sé strumentale, anche se naturalmente finalizzato a un’azione sacra, qual è appunto l’osservanza e l’attuazione di uno dei 613 precetti della Torà.
Fin qui l’aristotelico Rambam sembra coerente con la scienza aristotelica del suo tempo.
Libera religione in libera scienza
Ma c’è un problema importante che, da Galileo a Newton a Berkeley a Darwin, sembra aver diviso scienza e religione: è il problema dell’origine del mondo, della Creazione, che ancor oggi interessa entrambe, senza che, pur caduti negli ultimi tempi molti muri di pregiudizi, si possa dire che fra i due campi si sia instaurato quel clima di armonia, omogeneità, per non dire unitarietà, che vigeva al tempo di Rambam.
Se oggi religione e scienza non sembrano più antitetiche come pochi decenni orsono, questo è dovuto a mio avviso alle due ragioni seguenti.
A) Lungi dall’integrarsi sul tutt’uno che dovrebbe essere il mondo e il suo contenuto, di cui l’uomo è il protagonista riconosciuto da entrambe, religione e scienza sembrano essersi tacitamente accordate su una separazione di poteri, una specie di libera Chiesa in libero Stato, da leggersi libera Religione in libera Scienza. Resta da vedere se quello che può andar bene nell’amministrazione politica va bene nella ricerca del sapere.
B) Oggi alcune importanti teorie e scoperte scientifiche mettono in crisi la fiducia un tempo acquisita che la scienza, grazie ai suoi continui progressi, possa scoprire tutto in campo naturale. Per esempio il principio di indeterminazione (2) di Heisenberg pone le premesse per scardinare addirittura il principio di causalità che è alla base della fisica classica. Ne consegue che: o si vuole a tutti i costi mantenere la concezione deterministica (il comportamento futuro e passato di un sistema è determinato quando se ne conoscono sufficienti dati nel presente), ma allora è necessario introdurre una corte limitazione al futuro del sapere scientifico, in quanto non solo è impossibile osservare contemporaneamente posizione e velocità di una particella subatomica, ma addirittura l’osservatore modifica l’osservato attraverso il semplice osservare, quindi rende impossibile l’osservazione oggettiva: oppure si deve ammettere che le particelle non hanno una posizione né una velocità determinante, sono cioè grandezza indeterminate, che si possono definire soltanto nell’istante della misurazione (e sempre con il limite che per ogni aumento della conoscenza di un valore si ha un aumento di ignoranza rispetto a un suo valore coniugato, p. es. posizione-velocità).
Questa teorizzazione non piaceva a Einstein, che la respinge con l’esclamazione (forse religiosa o filosofica, certo poco scientifica): “Dio non gioca a dadi!”. Ma è seguita dalla maggior parte dei fisici teorici.
Per Rambam il problema della creazione non è un problema scientifico, ma filosofico. Perciò ne tratta nel Morè Nevukhìm. I capitoli 1′-26 della seconda parte sono dedicati a questo problema. Nel cap. 13 inizia l’esposizione delle principali tesi sull’origine del mondo:
1) La prima è quella dei fedeli della Torà: creatio ex nihilo (3);
2) la seconda è quella di Platone e altri filosofi: i cieli e i mondi nascono e periscono (c’è una specie di materia preesistente “come argilla per il vasaio”);
3) la terza è quella di Aristotele: il mondo è eterno e sarà eterno; eterni sono pure tempo, spazio (cioè materia), movimento; ci sono eterni passaggi di stato da potenza a atto.
Qui l’aristotelico Rambam non è aristotelico: la religione ebraica è creazionista (e per di più rivelata), dunque non può ammettere l’eternità del mondo. Il linguaggio usato da Rambam a questo proposito è molto efficace; eccone alcune frasi dal capitolo 25:
Sappi che la ragione per cui respingiamo l’idea dell’eternità del mondo non è da cercarsi nei passi della Torà che proclamano il mondo creato. I passi che indicano che il mondo è stato creato non sono più numerosi di quelli che indicano la corporeità di Dio.
Il metodo dell’interpretazione allegorica non è meno possibile e permesso riguardo alla creazione del mondo che in altri testi e avremmo potuto spiegarla allegoricamente come abbiamo usato questo procedimento per escludere la corporeità di Dio. Forse sarebbe stato persino più facile. In ogni modo non ci sarebbe mancata la capacità di interpretare quei testi in modo da stabilire l’eternità del mondo esattamente come abbiamo interpretato altri testi in modo da escludere la corporeità di Dio. Se non lo abbiamo fatto e non ammettiamo che si faccia, ciò è dovuto a due ragioni, di cui la prima è questa:… l’eternità del mondo non è stata provata e perciò non conviene far violenza ai testi e interpretarli allegoricamente per amore di un’opinione il cui contrario è altrettanto bene sostenibile e persino preferibile per varie ragioni. Questa è dunque una ragione, l’altra è come segue: … ammettere l’eternità del mondo secondo la concezione di Aristotele (cioè che il mondo esiste necessariamente, che la natura di nessuna cosa può cambiare, che la natura di nessuna cosa può cambiare, che niente può mai deviare dal suo comportamento consueto), significherebbe minare la religione alla sua base, concedere senz’altro che tutti i miracoli sono menzogne e rendere inconsistenti le speranze e i timori che la religione suscita. Bisogna chiaramente comprendere che dal momento che ammettiamo la creazione del mondo, tutti i miracoli diventano possibili e con essi la rivelazione della Legge. Tutte le domande che si potrebbero fare riguardo a quest’ultima perdono ogni forza. Se si chiede: Perché Dio si è rivelato a tal uomo e non a tal altro? Perché Dio ha dato la Legge a una determinata nazione e non ad altre? Perché l’ha data a tale epoca, né prima, né dopo? Perché ha comandato tale cosa e proibito tal altra?…
A tutte queste domande si può rispondere: “Così Egli ha voluto”, oppure: “Così l’ha richiesta la sua saggezza”.
… uomini di valore hanno speso e spenderanno la loro vita a meditare su questo problema. Perché, se si potesse provare la creazione del mondo…, cadrebbero tutte le obiezioni dei filosofi. Se, al contrario, si riuscisse a fornire la prova per la sua eternità secondo l’opinione di Aristotele, tutta la religione cadrebbe e altre concezioni prenderebbero il suo posto; perché, come ti ho spiegato, tutto dipende da questo punto. Rifletti quindi bene (4).
Galileo e Maimonide
La dicotomia religione-filosofia, messa così chiaramente in luce da Rambam, sembra precludere un’altra simile dicotomia, forse più nota: quella religione-scienza, iniziata da Galileo col cardinale Bellarmino, continuata dal vescovo Berkeley nei confronti di Newton, e tuttora diffusa; perché, se la filosofia si è occupata piuttosto poco di scienza (fino a quando, dal secondo dopoguerra, ha avuto uno sviluppo notevole, soprattutto per gli impulsi di Popper e di Kuhn), si può dire che, tranne rare eccezioni (Heisenberg e alcuni fisici teorici), gli scienziati si sono arroccati nel chiuso di un linguaggio tecnico da “addetti ai lavori”, trascurando da tempo il confronto filosofico (più precisamente col nascere della scienza moderna). A questo proposito è opportuno citare un passa famoso di una lettera del card. Bellarmino:
… mi pare che V. P. et il Sig. Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’apparenze meglio che non porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma voler affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia nel 3° cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante… (5).
È chiaro che qui l’accento si pone sulla parola-chiave realmente. Il problema è chi detiene il monopolio del reale. Le apparenze si possono delegare.
La Chiesa era riluttante a riconoscere come vero il sistema copernicano proposto da Galileo per varie ragioni:
1) apparentemente contraddiceva il testo biblico nel famoso passo di Giosuè X, 12 (“Sole, fermati su Chivòn…”);
2) attaccava il principio di autorità;
3) come poi vide Berkeley nei confronti di Newton, il ero pericolo per la religione era che gli scienziati, ritenendo vere le loro teorie comprovate dal successo sperimentale, avrebbero diffuso la credenza che l’intelletto umano può autonomamente scoprire la verità (cioè la realtà nascosta dalle apparenze) senza bisogno della rivelazione. Questo processo avrebbe demolito la religione (come infatti avvenne, perlomeno da parte dei credenti nella scienza in modo acritico).
Infatti la differenza fra la tradizione scientifica moderna e Galileo nel quale pure affonda le sue origini, si può schematizzare come segue.
Per gli scienziati moderni, come per Galileo, la teoria è strumento; ma, per i primi, questo strumento produce tèchne, non epistéme, scientìa; cioè la tecnica, l’arte che “descrive”, non “spiega” il mondo; descrive le apparenze, non spiega la realtà vera. Invece per Galileo la teoria è strumento per la descrizione del mondo nel senso che produce epistéme, scientìa; è doxa, cioè opinione; ma questa doxa, a differenza dell’opinione soggettiva, è opinione sulla realtà vera in quanto: a) è vagliata dalla critica (ratio); b) è controllata dalla tèchne (sperimentazione). Quindi Galileo è un vero rinascimentale, in quanto si riallaccia alla tradizione razionalistica greca nella ricerca della verità.
E Rambam come avrebbe reagito al problema? Premesso che l’interpretazione del pensiero altrui in merito a problemi non manifestamente esplicitati deve essere molto cauta, per non incorrere in facili attribuzioni arbitrarie ai testi, tuttavia mi sembra che le seguenti risposte siano in linea col pensiero di Rambam.
Quanto al punto 1 (problema dell’interpretazione del testo biblico), sicuramente lo avrebbe risolto trovando un’interpretazione adatta, dato che, come si legge nel passo citato (M. N., II, 25), egli stesso afferma che, se l’eternità del mondo fosse provata, non avrebbe difficoltà a interpretare in maniera conseguente anche i brani biblici attinenti alla Creazione. Ma certo questo non era neppure il vero problema per la Chiesa.
Il punto 2 (principio di autorità) praticamente non si poneva, perché, come noto, in materia di dogmatica il problema dell’autorità nell’ebraismo quasi non si pone, perlomeno non nei termini posti dalla Chiesa.
Il vero problema è il punto 3 (che si potrebbe intitolare “a chi compete il monopolio del reale vero?”). Qui forse si può fare un parziale confronto fra Rambam e Galileo. Per Rambam, come per Galileo, la scienza è contemporaneamente strumento di descrizione del reale: è strumento di descrizione del reale: è strumento, come si vede nell’uso che ne fa per il calcolo del capomese; è descrizione del reale, per la collocazione che le assegna all’inizio del Mishné Torà. Ma Rambam ritiene che Torà e filosofia siano entrambe fonte di verità; lo stesso si può dire per Torà e scienza: in Rambam non c’è posto per le dispute sulla doppia verità. Sia per Rambam sia per Galileo (6), la giusta valutazione è la seguente: lungi dall’essere l’avversario della religione, la scienza può e deve essere il migliore aiuto per la conoscenza del creato e quindi amica della religione.
In questo Rambam è maestro di una felice sintesi che configura l’uomo ebreo, cioè l’uomo religioso-filosofo-scienziato. La filosofia e la scienza sono necessarie alla religione, la quale mira essenzialmente alla conoscenza del Creatore, come scrive Rambam in apertura al Mishné Torà:
Fondamento dei fondamenti e pilastro delle saggezze è sapere che esiste il Nome del Primo Ente…
E così conclude l’opera:
I maestri e i Profeti anelavano all’epoca messianica non per conquistare il mondo, né per dominare i popoli, né per essere esaltati dalle nazioni, né per mangiare e bere in allegria, ma per essere liberi, scomparsi tutti gli oppressori, di dedicarsi allo studio della Torà e della sapienza, in modo da meritare la vita del mondo a venire … E in quel tempo non vi sarà fame, né guerra, né gelosia, né rivalità, ma vi sarà abbondanza di benessere… e non vi sarà altra occupazione da parte di tutti all’infuori della conoscenza di Dio, e tutti gli ebrei saranno grandi sapienti … come è detto: (Isaia, 11,9) “La terra sarà piena della conoscenza di Dio, come le acque coprono il mare”.
NOTE :
(1) In parole per quanto possibile semplici è questo. Saturno percorre la sua orbita in un tempo molto maggiore della Terra; osservando Saturno dalla Terra ogni sei mesi, nei momenti in cui la Terra è in uno dei due estremi del diametro dell’orbita terrestre perpendicolare alla direzione di Saturno, si ha l’impressione che Saturno si sposti lungo la sua orbita avanti e indietro, non con moto unidirezionale e neppure regolare e uniforme; cioè per sei mesi lo si vede procedere, e nei sei mesi successivi retrocedere (un po’ meno, perché procede sempre più di quanto retroceda). Questa apparenza è, relativisticamente, dovuta al moto della Terra. Ma per gli astronomi antichi questa apparenza contraddice la fisica aristotelica (che è realtà) e non può essere accettata. Tolomeo introduce l’ipotesi-strumento degli epicicli, che “trasferisce” su Saturno la rotazione terrestre: si immagina che Saturno si muova circolarmente intorno ai successivi punti della sua orbita. In questo modo l’aristotelico concilia la scienza del reale con l’apparenza che sembra contraddirla.
(2) Per brevità cito l’esempio che mi sembra più chiaro:
“… per poter conoscere la posizione di un corpo, noi, nella vita quotidiana, lo illuminiamo in modo da poterlo vedere e fotografare. Ma se io penso di voler determinare la posizione di un elettrone, non posso agire nello stesso modo; e non posso non per ragioni pratiche ma per ragioni concettuali. Perché se illumino l’elettrone, questo, urtato da un quanto di luce, ne riceve un impulso, come è dimostrato da una celebre esperienza dell’americano Compton; esso si mette, allora, in moto in una direzione che non è possibile prevedere e con una velocità, diversa per le varie direzioni, il cui valore massimo dipende dall’energia del quanto incidente. Quindi la posizione dell’elettrone muta per il fatto che noi lo osserviamo” (G. Amaldi, Materia e antimateria, Verona, 1961, p. 126-7).
V. Anche F.S.C. Northrop, in W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Milano, p. 31-2.
(3) Qui, fra l’altro, in poche frasi Rambam pone l’accento sull’interrelazione tempo–spazio (e quindi materia), concetto che distingue fondamentalmente la fisica einsteniana da quella newtoniana (v. tr. it. in S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, Roma, 1980, I, p. 505 sgg).
(4) Tr. it. in S. Avisar, op. cit., 510-1.
(5) Lettera del Bellarmino al Foscarini in Roma. Roma, 12 aprile 1615. In O. G., XII, p. 171, N. 1110. Devo questa segnalazione e la seguente all’amico prof. Michael Segre, che ringrazio per i preziosi consigli fornitimi.
(6) Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molte diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne seguita, che qualunque volta alcuno nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono liberale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani ed occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio…
… procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservatissima esecutrice de gli ordini di Dio. Pare che quello degli effetti naturali che e la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi e le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condannato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura, né meno eccellentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura che ne’ sacri detti delle Scritture…
Ma non per questo voglio inferire, non doversi aver somma considerazione de i luoghi delle Scritture Sacre; anzi, venuti in certezza di alcune conclusioni naturali, dobbiamo servircene per mezzi accomodatissimi alla vera esposizione di esse Scritture ed all’investigazione di quei sensi che in loro necessariamente si contengono, come verissime e concordi con le verità dimostrate.
… Ma che quello istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anche in quelle conclusioni naturali, che e dalle sensate esperienze e dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all’intelletto, dobbiamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo…
… Stante questo, ed essendo, come si è detto, che due verità non possono contrariarsi, è officio de’ saggi espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de’ luoghi sacri, che indubitabilmente saranno concordanti con quelle conclusioni naturali, delle quali il senso manifesto e le dimostrazioni necessarie ci avessero prima resi certi e sicuri. (G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena, 23 marzo 1615. In O. G., V, p. 297-305).Davide Nizza