La liturgia dei defunti
Come dice il titolo di questo scritto, non intendo qui trattare dei riti del periodo di lutto (Aveluth nei suoi diversi gradi), ma degli usi liturgici collegati direttamente o indirettamente con il ricordo dei defunti, facendo notare quali delle pratiche correnti siano più o meno consone alla nostra tradizione.
La formula liturgica che da più tempo si usa recitare in relazione con i defunti è il Qaddish Jathom — un testo prevalentemente aramaico con alcune frasi in ebraico, destinato in origine alla chiusura di riunioni pubbliche in cui venivano studiati i testi biblici. Nulla nel Qaddish ha diretta attinenza ai defunti: la prima parte è un’esaltazione di Dio, in quanto Creatore, l’augurio che Egli instauri ai giorni nostri il Suo regno celeste, ossia faccia iniziare l’era messianica, e la certezza che il Suo nome verrà celebrato nella forma più completa in tutto il mondo. La seconda e la terza parte contengono l’augurio che Dio conceda pace e benessere al popolo ebraico.
Il Qaddish è stato scelto come passo da recitarsi dai parenti — in origine soprattutto dai figli — durante il periodo di lutto, perché il fatto che individui colpiti da una grave sciagura esaltino il Signore proprio durante il periodo di lutto, costituisce prova, o almeno indizio, che essi sono stati educati all’idea dell’assoluta giustizia di Dio — educazione che li porta ad esaltarlo anche quando Egli li ha colpiti negli affetti.
Secondo una credenza molto diffusa, le colpe compiute in questo mondo vengono espiate dall’individuo con un periodo di punizione nell’aldilà che non dura mai più di un anno. Perciò si usa recitare il Qaddish per 11 mesi: ognuno deve esser persuaso che il suo genitore scomparso non sia stato tanto colpevole da meritarsi la pena massima, tutt’al più potrà essere punito per 11 mesi — e quindi per 11 mesi ogni figlio (e secondo certi usi anche altri parenti) deve recitare alla fine di ogni Tefillà (nel rito italiano originale non a Minchà — uso questo che rimane tuttora, per quanto mi risulta, solo a Torino) il Qaddish Jathom, in quanto ogni Tefillà comprende, dopo la sua parte fondamentale, alcuni passi biblici che hanno carattere di studio. Questa recita deve servire quasi di prova di fronte al Tribunale celeste che lo scomparso aveva provvisto in modo adeguato all’educazione dei suoi familiari al rispetto della volontà divina — elemento che dovrebbe servire all’alleviamento della pena, nel caso che il defunto debba espirare sue colpe. Per inciso, si oti che il Qaddish viene recitato anche in ricordo di persone che si sono distinte in vita per la loro alta moralità, onestà e religiosità, perché presupposto ebraico è che non esista nessuno che non abbia mai peccato.
Secondo un’altra idea di carattere mistico, il Signore si ricorderebbe per un periodo non infinito — secondo certe idee 40 anni o 50 o anche di più — dei peccati commessi in vita ogni anno nel giorno dell’anniversario della morte, e di qui l’uso di recitare il Qaddish anche nell’anniversario della scomparsa dei parenti, con intento analogo a quello della recita dello stesso Qaddish nei primi 11 mesi di lutto.
Generalmente le persone in lutto o nel giorno di anniversario recitano anche il Qaddish ‘al Jisrael — che è una formula più ampia del Qaddish Jathom, comprendente frasi di augurio per gli studiosi della Torà, e che viene recitato dopo lo studio in pubblico di letteratura tradizionale postbiblica. Alla fine di Shachrith, e secondo certi usi anche in altri punti della Tefillà si recitano, a scopo di studio, passi talmudici e quindi dopo di essi si recita il Qaddish ‘al Jisrael.
Da quanto detto finora si può concludere:
a) chi è stato colpito da una disgrazia familiare manca di rispetto verso il defunto se non fa tutto il possibile per recitare quotidianamente, mattina e sera, il Qaddish — brano che può recitarsi solo in presenza del Minjan;
b) il continuare a recitare il Qaddish dopo trascorsi gli 11 mesi, lungi dall’essere omaggio al morto,significa quasi che il parente lo ritenga colpevole in misura gravissima;
c) il recitare il Qaddish in giorno diverso da quello dell’anniversario, dopo trascorsi gli 11 mesi, non ha senso;
d) incaricare una persona estranea, che dica il Qaddish invece del parente, zelantemente o dietro pagamento, non ha senso: se uno non può recitare il Qaddish tutte le volte per un impedimento grave e reale, pur avendone il desiderio, può sperare che il Signore tenga conto del suo desiderio come se lo avesse realizzato; chi invece vuole evitarsi il disturbo di partecipare ogni giorno alla Tefillà pubblica e crede che la recitazione materiale della formula da parte di un volontario o di un mercenario estraneo alla famiglia abbia un valore magico di suffragio per il defunto, dimostra di non aver capito niente dell’ebraismo e ben difficilmente la sua iniziativa potrà costituire prova di aver avuto una vera educazione ebraica.
Si noti che la recita del Qaddish deve aver inizio solo dopo la sepoltura del defunto, in quanto fino a quel momento i parenti stretti sono nello stato detto di onen, durante il quale sono esenti da tutte le Mizvoth di tipo culturale ed in quanto tali non contano neppure per Minjan.
Nella settimana di Aveluth (lutto stretto) è proibito ai parenti obbligati all’Aveluth (figli, genitori, coniuge, fratelli del defunto) uscire di casa, tranne che di Shabbath; perciò è uso universale ebraico che in tali tristi occasioni parenti ed amici si riuniscano nella casa del defunto o nella casa in cui si trovano i suoi parenti stretti, in modo che questi ultimi possano adempiere il loro dovere di recitare il Qaddish senza uscire di casa.
Purtroppo questa bella usanza è quasi scomparsa in Italia. Sarebbe veramente meritevole adoperarsi per rimetterla in uso. Comunque, chi si trovi in Aveluth e non avesse amici e parenti che gli assicurino il Minjan in casa, dovrebbe evitare di partecipare alla Tefillà pubblica: dovrebbe recarsi al Tempio, accompagnato da persona non in lutto, verso la fine della Tefillà per recitarvi il solo Qaddish. Trascorsi i sette giorni, e così pure nello Shabbath in essi incluso, invece, come detto sopra, deve partecipare a tutte le Tefilloth pubbliche, se non ne è seriamente impedito. Non ha nessun senso ed anzi è contrario al rito che le persone nella settimana di Avelluth si rechino al Beth ha-Keneseth se non vi è Minjan; coloro che si recano al Beth ha-Keneseth nella prima settimana di lutto e poi non vi vanno più, fanno esattamente il contrario di quello che sarebbe il loro dovere.
Tutto questo porta, come inciso, ad un’altra osservazione: in quasi nessuna delle Comunità italiane si ha il Minjan regolare nei giorni feriali; l’abbandono della pratica della frequenza quotidiana della sinagoga, oltre che essere riprovevole di per se stesso, è causa che colui che dovrebbe recitare il Qaddish non possa farlo, è, in altre parole, indice di poca sensibilità e poca fratellanza verso il prossimo; e inoltre, prima o poi, ognuno avrà bisogno del Minjan per recitare il Qaddish, (perché la morte è insita nella natura umana).
Molto più tardi, meno generalizzato, e vario nelle forme è l’uso di recitare Hashkavoth (preghiere in cui si chiede a Dio di concedere riposo e anime di defunti o di ricordarle in bene, indicando di solito il nome dei defunti che si commemorano). È uso molto diffuso (ma no generale) di recitare una tale formula subito dopo l’interramento e poi ogni anno nel giorno dell’anniversario, o in un giorno ad esso precedente in cui si legga il Sefer Torà.. Alcuni usano recitarla tutti i sette giorni dell’Aveluth e poi tutti i giorni fin dopo terminati gli 11 mesi dalla sepoltura, o in alcuni di questi giorni; altri escludono la recita di essi nei giorni dell’Aveluth; alcuni usano ricordare con queste formule i loro cari scomparsi solo nei giorni festivi), altri invece fanno recitare le Hashkavoth anche e soprattutto nei giorni festivi.
Le autentiche forme ebraiche di onoranze ai defunti: tenere riunioni di Torà, aiutare il prossimo…
Ognuno di questi usi, di carattere locale, può avere la sua ragione di essere;comunque in primo luogo si deve sempre avere presente che la recita delle Hashkavoth non ha un carattere magico, per cui più se ne dicono e più volte si fa proclamare nel Beth ha-Keneseth il nome del defunto, tanto meglio sia per la sua anima. Le Hashkavoth hanno un senso se chi le fa recitare si sforza di agire in tutti i momenti della sua vita per eseguire la volontà divina, ossia per mettere in atto le Mizvoth, i doveri di amore e fratellanza verso il prossimo non meno che quelli definiti impropriamente come più strettamente “religiosi”; un tale sforzo sta ad indicare che l’individuo ha ricevuto in famiglia un’educazione nel senso giusto e la preghiera che i superstiti innalzano in memoria del defunto si crede possa esser accolta appunto in merito dell’educazione data.
Per gli stessi motivi per cui è inopportuno recitare il Qaddish dopo passati 11 mesi dalla scomparsa di una persona cara o in giorno che non sia l’anniversario della sua morte, non è certo commendevole far recitare Hashkavoth in giorni diversi da quelli suddetti.
Va pure notato che non tutte le cerchie ebraiche ammettono la recita di Hashkavoth; una fiera opposizione a questo uso ha espresso in Italia nel secolo scorso S. D. Luzzatto.
In Comunità di tradizione sefardita si usa pure far recitare Hashkavoth dopo che si sale alla lettura del Sefer, e questo uso si è ultimamente diffuso nella stessa forma, o facendo ricordare defunti nel “Mi–she–berakh“, anche in comunità d’Italia di rito non sefardita. Quest’uso non è certo commendevole, sia perché l’abbandonare in Hashkavoth non è segno di riguardo per i defunti, come accennato sopra, sia perché l’interruzione della lettura della Torà a questo scopo non è desiderabile, sia perché la recita di liste di nomi, spesso lunghe, è un disturbo per il pubblico, il quale a sua volta non si unisce con la dovuta compunzione al ricordo dei defunti. In modo speciale è disdicevole indicare i nomi dei defunti, in quanto la Halakhà stabilisce, tra le forme di rispetto per i genitori, quella di non pronunciare neppure il nome. Molto meglio e, se si vogliono ricordare dei defunti dopo esser saliti alla lettura della Torà, usare una formula generica come “li–mnuchath nefesh kol qerovav she–metu” (per il riposo dell’anima di tutti i parenti defunti — e Dio sa bene chi sono!) o tutt’al più indicare il grado di parentela con i congiunti più vicini senza dirne il nome — e questo era del resto l’uso corrente nelle Comunità italiane, prima che la trascuratezza di quasi tutte le Mizvoth da parte della maggioranza venisse sostituita da un culto dei defunti che ben poco ha di ebraico. Le autentiche forme ebraiche di onoranze ai defunti sono di tenere, specialmente nei giorni di anniversario, riunioni di studio di Torà ed inoltre dedicare mezzi materiali, azione e consiglio a favore del prossimo che ne abbia bisogno. È ciò certamente più scomodo che far ripetere ad un sufficiente una lista di morti, credendo così di aver fatto il proprio dovere, ma è altresì assai più significativo, più consono all’idea ebraica ed assai più efficace perché la memoria del defunto si mantenga e sia benedetta.
Menachem Emanuel Artom