Il qiddùsh
La tradizione prescrive che la sera del sabato, prima della cena, si compia in ogni casa la cerimonia del qiddùsh, e che questa venga ripetuta anche nel primo pasto della mattina successiva. Secondo le fonti rabbiniche l’uso deriva da un’interpretazione estensiva della norma dei dieci comandamenti che riguarda il Sabato: “ricorda il giorno del Sabato per santificarlo”. Il qiddùsh, letteralmente santificazione, è quindi una dichiarazione particolare, un riconoscimento esplicito che si è tenuti a fare per ricordare la sacralità della giornata festiva. Ci sono due tipi di dichiarazione da fare in questo senso: una pubblica durante la preghiera serale, nell’aggiunta speciale alla ‘Amidàh, e un’altra, a carattere domestico, prima della cena. Per dare solennità alla dichiarazione che si sta recitando è prescritta la presenza di un alimento particolarmente importante, sul quale deve essere recitata la benedizione relativa.
Generalmente l’alimento prescelto è il vino. Pertanto questa è la spiegazione più semplice del rito: bisogna ricordare in casa la sacralità del momento recitando una formula, e solennizzare questa recitazione con l’accompagnamento di un alimento gradito e importante.
La storia e il significato del qiddùsh non possono tuttavia esaurirsi in queste semplici considerazioni. La tradizione fornisce numerosi indizi che allargano la prospettiva e che oggi possiamo interpretare correttamente senza paura di incontrare aspetti sgraditi o incomprensibili.
Consideriamo un aspetto molto particolare del rito: l’uso, da molti conservato, di tenere gli occhi fissi sul vino su cui si recita la benedizione, o addirittura di cercare la propria immagine riflessa nel bicchiere al momento della berakhàh. Le fonti ufficiali danno due spiegazioni differenti. La prima è che il vino deve essere fissato con attenzione per non distrarsi durante la recitazione; è una spiegazione razionale che inquadra quasi tutti i termini del problema, ma non chiarisce l’intenzione dei molti che si specchiano nel vino. Un’altra notizia viene dal Talmùd, ed è espressa in questi termini:
“Il passo troppo lungo toglie un cinquecentesimo della luce degli occhi dell’uomo; come può essere recuperato? con il qiddùsh del venerdì sera” (Shabbàth 113b).
È un’affermazione che in senso letterale non risulta comprensibile, o dà l’impressione di rispecchiare qualche strana credenza popolare. Ma è vero il contrario. Per capirne il senso, che spiega coerentemente tutti i dettagli, bisogna fare un passo indietro e ricostruire la storia molto più antica su cui si è innestato il rito ebraico con significati rivoluzionari.
Molti ricorderanno la storia di Giuseppe in Egitto, che per far dispetto ai suoi fratelli nasconde, tra l’altro, la sua coppa nel sacco di Beniamino per poterlo accusare di furto. Quando le guardie egiziane la recuperano, dichiarano che quella è la coppa con la quale il loro signore pratica la divinazione (Genesi 44: 5). Questa antica testimonianza biblica mostra la diffusione di pratiche divinatorie intorno al primo gruppo ebraico, che anche gli ebrei conoscono e sembrano utilizzare. Che cosa è la divinazione? È l’arte di individuare i segni di prossimi eventi, di prevedere il futuro con differenti tecniche. Una delle più diffuse è la ricerca di immagini in superfici lucide o speculari, naturali o artificiali; comune e antichissimo l’uso di una coppa con liquidi speciali, il vino soprattutto. La tradizione biblica (cfr. Levitico 19: 31; Deuteronomio 18: 10 ecc.) condanna con molta severità tutte queste pratiche, seguita da quella rabbinica, con qualche limitata eccezione. L’opposizione tra divinazione e cultura ebraica non può essere che assoluta e radicale; la prima rappresenta un mondo idolatrico, che dà importanza ad esseri e realtà che l’ebraismo in una rigorosa visione monoteistica non può accettare come entità superiori. Più profondamente il contrasto tra i due mondi si pone in questi termini: la divinazione è l’espressione del dubbio e dell’angoscia dell’uomo, che in una situazione di crisi ricorre all’irrazionale e al metafisico per risolvere le proprie tensioni. Mentre l’ebreo che osserva coscientemente la sua tradizione deve in questa saper trovare la risposta e la soluzione alle sue angosce, senza rinunciare alla propria razionalità, e perdere il controllo della realtà.
Il Sabato rappresenta uno dei modi più sistemici per imporre all’uomo una visione corretta del rapporto con il mondo; è il giorno in cui bisogna saper dimostrare la propria capacità di rinunciare a trasformare la realtà, e mostrare il distacco dalle proprie creazioni; è il giorno in cui si recupera la propria dimensione e si risolve razionalmente, padroni del proprio destino, l’angoscia dell’essere nel mondo.
È possibile ammettere che il rito del qiddùsh si sia inserito, polemicamente, in un ambiente culturale in cui prendere una coppa di vino, guardarla intensamente, e recitare strane formule rappresentava un preciso rituale divinatorio. L’ebraismo può aver ripreso la forma, modificando radicalmente la sostanza. Per cui il ricorso all’irrazionale è stato trasformato in una recitazione cosciente, nel ricordo dell’azione divina creatrice (genesi) e liberatrice nella storia (l’uscita dall’Egitto); nella riaffermazione di un ordine differente, che mette in primo piano la responsabilità dell’uomo e la sua capacità di trovare nelle sue scelte la risposta alle angosce del mondo: santificazione opposta alla fuga nell’irrazionale.
“Il passo troppo lungo” di cui parla il Talmùd è il voler superare i li miti dell’uomo, credere di potere oltrepassare le regole della natura, dimenticare la propria condizione di uomo, il senso pieno di sé, che è “la luce degli occhi dell’uomo”. Il rito sabbatico rovescia la prospettiva e fa recuperare l’identità, in ogni simbolo, in ogni atto, a cominciare dal ricordo della santità di questo giorno.
Il qiddùsh pertanto, anche nei dettagli, ripropone l’opposizione e la scelta tra due monti in antagonismo, sempre attuale; perché anche se l’angoscia non si manifesta più — generalmente — nella ricerca del futuro in una superficie riflettente, è sempre presente con il suo rischio di violenza irrazionale, pronta a riorganizzarsi ed esplodere paganamente in ogni momento.
Riccardo Di Segni
Regole sul qiddùsh
— Prima di recitare il qiddùsh non si può mangiare niente; ma chi ha già mangiato può comunque recitare il qiddùsh.
— Secondo il Sefardìm il qiddùsh si recita in piedi; solo tra alcuni Ashkenazìm si usa farlo seduti.
— Le donne hanno lo stesso obbligo degli uomini e possono con la loro recitazione farli uscire d’obbligo.
— L’uso migliore è di usare il vino la sera e la mattina. In mancanza di vino si benedice la sera con due pani (sostituendo la benedizione del vino con quella del pane, e dicendo birshùth rabbotài al posto di savrì maranàn) e al mattino con del liquore (invece della benedizione del vino si dirà: shehakòl nihià bidvarò).
— Se il vino non è sufficiente per tutti e due i qiddùshìm va riservato per la sera.
— Il qiddùsh non è valido se chi lo recita, o al suo posto qualcuno dei commensali, non ha bevuto almeno 43 cc di liquido.
— Il qiddùsh che si recita in Sinagoga è un ricordo storico dell’epoca in cui i viandanti mangiavano e pernottavano in Sinagoga; pertanto non fa uscire d’obbligo chi l’ascolta, che è tenuto a ripeterlo in casa.
— Il qiddùsh si può fare solo nel luogo dove si mangia; non è valido se non è accompagnato dalla consumazione di un alimento. Questo perché nella giornata che simbolicamente rappresenta la sintesi completa tra spirito e materia, non si addice una consacrazione puramente spirituale priva di un minimo di soddisfazione materiale.