«Non vi è divinazione in Giacobbe né magia in Israele»
La Torà e i profeti ricordano più volte la proibizione di far uso di qualsiasi tipo di magia. (Esodo 22°, 17 e Deuter. 18°, 10°; Michà 5°, 11). Israele viveva a contatto con popoli pagani che facevano largo uso della magia e la condannavano solo se «pericolosa». La proibizione della magia era dovuta all’uso che ne facevano i pagani che presupponeva la possibilità di operare su forze che sarebbero state al di fuori del controllo divino, fatto questo in palese contrasto con i principi basilari della Torà stessa.
Tuttavia la Bibbia non nega che i maghi egiziani siano in grado di operare «prodigi» sarebbero però dovuti alle sole capacità dei maghi dotati di una sorta di scienza, assimilabili ad una delle forme della Kokhmà (sapienza) umana. Infatti i maghi stessi, quando non riescono più ad imitare le «magie» di Mosè, riconoscono che queste erano dovute al «dito di Dio» e non alla sapienza umana.
In realtà, le forme di «magia» di cui ad esempio faceva uso Mosè non hanno nulla a che fare con la «magia»: innanzi tutto perché più volte viene ribadito che è la volontà divina ad operare e in secondo luogo perché è sempre la preghiera dell’uomo a Dio a mettere in moto l’attuazione dell’atto «magico».
Un altro elemento che differenzia l’atteggiamento della Torà da quello del mondo pagano è la mancanza assoluta di ogni elemento mitologico. Le varie divinità non solo si servono di mezzi magici per perseguire i propri fini, ma si devono anche difendere dagli atti di magia che vengono usati contro di loro.
Il mago e le divinità dei pagani si trovano in definitiva nella stessa posizione di fronte alla magia: entrambi possono farne uso e subirne gli effetti. Nella Bibbia Dio non fa uso di magia, né le è sottoposto.
La Torà e i Profeti si ergono non solo contro la magia, ma anche contro l’uso improprio che il popolo fa dei precetti, contro l’idea che l’osservanza puramente tecnica dei precetti sia l’elemento sufficiente per «catturare» la benedizione divina. (Si legga in particolare Isaia 57-59, Haftarà per Yom Kippur).
Il mago viene sostituito dall’Ish ha – Elohim (l’uomo inviato da Dio, il profeta) che, anche quando fa uso di mezzi eccezionali, sottolinea sempre la sua dipendenza da Dio. L’atto «magico» viene concepito come una Berija Khadàshà (un nuovo atto di creazione, Numeri 15°, 30) che Dio può operare in qualsiasi momento e che molto spesso ha la funzione di segno, prova dell’autenticità della profezia, quando questa non si propone di far deviare il popolo dalla Torà.
In tutti gli episodi in cui sembra si faccia uso della magia, un’analisi più attenta – mostra che è sempre lo «spirito del Signore» o la Sua «benedizione» o comunque un Suo intervento la vera fonte di ogni evento.
Anche la parola non ha una potenza magica: quando Mosè chiede a Dio il suo nome è solo per riferirlo al popolo di Israele; quando il Sacerdote dà la benedizione, la Torà sottolinea che non sono in realtà le parole ad avere la funzione automatica di benedire, ma è Dio stesso ad impartire la benedizione («Porranno il mio nome sui figli di Israele, ma Io li benedirò»; Numeri 6°, 22-27).
Un ultimo elemento che conferma che la magia è estranea allo spirito della Torà, è la totale assenza di leggi o regole che abbiano la funzione di difendere l’uomo da azioni magiche e da spiriti malefici. In tutto il mondo antico buona parte del culto aveva proprio questa funzione di difesa.
L’idea monoteistica non poteva evidentemente lasciare spazio al timore che forze demoniache potessero attaccare l’uomo: né Mosè né Aronne devono combattere contro il mago Bilàm, tanto è la certezza nella protezione divina. «Non vi è divinazione in Giacobbe, né magia in Israele» (Numeri 23°, 23).
S.B.