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Itinerari ebraici/1 Il Mantovano e l’Emilia nord-ovest (L. Fiorentino) |
Indice Alef Dac |
Il diritto di curarePer una singolare concorrenza di diversi fattori nel corso della storia ebraica la figura del rabbino è stata frequentemente associata a quella del medico. Esempi numerosi, spesso illustri, hanno creato una specie di mito, del guaritore dei mali del corpo e dell’anima, che come tutti i miti resiste ancora ed è duro a scomparire. Che cosa c’è di vero in questo mito? Quali sono stati i reali motivi che hanno portato alla frequente associazione delle due attività?Cercando di capire, sia pure sommariamente, il fenomeno, la prima osservazione da fare è che si tratta di un processo protrattosi per secoli, forse per millenni, e che per questo motivo non è affatto possibile, né lecito, fornire una spiegazione unitaria e semplicistica. | Medici ebrei in ItaliaNel Rinascimento molti ebrei, in gran parte anche rabbini, esercitarono la professione medica. L’argomento è stato e continua ad essere oggetto di studi storici. Una sintesi su questo tema è stata pubblicata da I. Erlich, con il titolo “Medici ebrei nel periodo del Rinascimento”. Nel 1528 L’Università di Bologna conferisce, per la prima volta, il titolo di dottore a Moredekhai Angelo Modena. Per quanto una bolla di Gregorio XIII avesse proibito ai dottori ebrei di curare i malati non ebrei, vediamo che gli stessi re e pontefici ricorrono all’opera di medici ebrei. Tra questi vanno ricordati, in primo luogo, Mordekhai Angelo, figlio di Immanuel, abitante del quartiere di Trastevere a Roma | Il sabato e la medicinaSe una persona sta male, è lecito profanare la giornata festiva per curarlo? Quale dei due valori ha precedenza?In epoca rabbinica il problema è stato risolto con molta chiarezza, senza lasciar alcun adito a dubbi. | La preghiera del medico“L’intenzione del mio cuore è di occuparmi dell’arte medica nel Tuo nome santo e con il Tuo aiuto. Non mi appoggio sulla mia scienza, né ripongo la mia fiducia sui farmaci, le erbe e i rimedi che hai creato nel Tuo mondo, perché sono come dei mezzi per completare la Tua volontà, e per proclamare la Tua grandezza e la Tua provvidenza. |
Un permesso che è anche un obbligo
Nella nostra società è normale che quando una persona si ammala ricorra alle medicine e ai medici, senza porsi il problema della liceità religiosa o morale di questa sua scelta, che è praticamente automatica. In società diverse, fondate su sistemi religiosi profondamente condivisi, questa scelta non è altrettanto automatica. Se si ammette che l’ordine universale è guidato da una volontà superiore, e che ogni evento dell’esistenza umana sia guidata dallo stesso principio, questo può comportare che anche le malattie siano considerate un’espressione di una volontà superiore: una punizione, una prova, una sfida, secondo le differenti concezioni. Ma se c’è una volontà superiore che punisce l’uomo, è legittimo reagire, è permesso curarsi? Ricorrendo ai medici e alle medicine non si offende il disegno divino? Non è più giusto e logico riconciliarsi con chi punisce, invocando il suo perdono, piuttosto che basarsi sulle proprie forze e in questo modo continuare a mancargli di rispetto?
Questi problemi, comuni a tutte le antiche culture, se li pose anche l’ebraismo, fornendo una serie di risposte che nel corso dei secoli sono evolute verso una formulazione dottrinale ben precisa e ormai codificata senza obiezioni.
Una prima possibile risposta è quella a prima vista più logica in un sistema religioso: la malattia è una punizione, bisogna quindi accettarla come tale evitando ogni intervento medico o farmacologico. Nell’ambito ebraico questo atteggiamento estremista e fatalista è stato talora recepito da gruppi minori; l’esempio più importante è quello dei Caraiti, ma non mancano nel Talmùd gli echi di un influsso di queste concezioni su alcuni rabbini che mostrano di accettare la medicina obtorto collo e solo come un uso ormai consolidato.
La seconda soluzione, che troviamo ben diffusa e prevalente in epoca talmudica, considera l’esercizio della medicina come una necessità fisiologica dell’organismo: come chi ha fame mangia, così chi è malato assume i farmaci. E ancora: come per produrre gli alimenti che gli sono necessari per la sopravvivenza l’uomo è costretto a intervenire sulla natura, lavorando la terra, così per sostenere l’uomo che si ammala è lecito stimolare la propria intelligenza ricorrendo ai mezzi fisici opportuni. Un presupposto di questa concezione, dichiarato più o meno esplicitamente, è che le cause di gran parte delle malattie siano l’incuria e la trascuratezza; cause quindi sostanzialmente umane e naturali; solo un piccolo numero di altri mali avrebbe un’origine divina. Su questi ultimi è lecito intervenire? Il problema non del tutto risolto in epoca antica lasciò spazio a discussioni nel medioevo, come vedremo subito dopo.
La terza soluzione della difficoltà teologica sta nell’ammettere un esplicito permesso divino. Secondo Rabbì Ishmaèl il permesso si deduce dal verso dell’Esodo (21:19) che a proposito di ferite e danno prodotti dall’uomo chiude con l’espressione che letteralmente significa “e sarà curato (werappò jerapè)”, e che obbliga al risarcimento delle spese per cure mediche. Per Ishmaèl ciò presuppone un lecito esercizio dell’attività medica, come cosa scontata e da non mettere in discussione.
Da questa interpretazione di R. Ishmaèl deriva che l’esercizio della medicina è considerato una cosa permessa (reshùt) e come tale rimane nelle formulazioni ritualistiche. I commenti che spiegano le parole del Maestro seguono due linee; per alcuni Ishmaèl ha affermato il principio del “permesso” proprio per rispondere all’obiezione teologica di un’offesa all’ordine e alla volontà divina; secondo altri si parla di “permesso” perché altrimenti i rischi connessi con l’attività medica (possibilità di aggravare la malattia anziché guarirla) avrebbero potuto costituire un’obiezione di fondo alla sua legittimità.
Anche l’interpretazione di R. Ishmaèl, che si basa su un verso che parla di danni procurati dall’uomo, potrebbe prestarsi alla distinzione tra due tipi di malattia: uno, a causa nota, sul quale è permesso intervenire, e un altro, attribuibile alla volontà divina, che non dovrebbe essere curato dall’uomo. Questa distinzione è in effetti documentata presso numerose autorità medioevali e successive, che dissentono da altre opinioni parimenti autorevoli.
Sembra tuttavia che si tratti più di una discussione accademica e puramente teorica, che di una posizione a valore legale. Di fatto non esiste nei codici di legge ebraica alcuna opposizione all’esercizio della medicina; si possono tutt’al più segnalare dei casi isolati di rabbini strenui oppositori del ricorso ai medici. Un esempio illustre è quello di Nachman di Breslaw, uno dei più grandi maestri del chassidismo, la cui opposizione ai medici sembra sia stata dettata più che da motivi ideologici dalla personale triste esperienza di malato di tubercolosi. Nella seconda metà del settecento così formulava Chajjìm Josef David Azulai il concetto prevalente nell’ebraismo:
“Oggi non è permesso affidarsi al miracolo; il malato deve comportarsi secondo l’uso del mondo e chiamare un medico che lo curi; nessuno può cambiare le abitudini comuni affermando di essere superiore a tanti pii delle passate generazioni che furono curati da medici; anzi vi è quasi un divieto a comportarsi così, sia perché è una manifestazione di superbia, sia perché non ci si può affidare al miracolo davanti al pericolo (…); ci si comporti dunque come fanno tutte le persone, facendosi curare da un medico” (Birké Josèf, Jorè Deà 336, b).
Un questo modo la prospettiva della liceità veniva ribaltata, considerando tutti potenziali peccatori e quasi sfrontati nel momento che venivano a implorare un miracolo altrimenti evitabile.
Dal “permesso” di Rabbì Ishmaèl la concezione ha fatto nei secoli ulteriori progressi, e si è arrivati alla formulazione che non è solo permesso, ma è anche obbligatorio ricorrere alla medicina. Logicamente un permesso che è anche obbligatorio risulta di difficile comprensione. La questione è stata a lungo dibattuta nei commenti tradizionali, con differenti risposte. Una prima possibile risposta è di tipo storico: ciò che un tempo era considerato soltanto lecito, successivamente è divenuto obbligatorio. Altri spiegano che nell’ambito delle attività permesse vi sono delle cose che possono assumere minore o maggiore morale e quindi non solo consentita, ma anche considerata obbligatoria.
Un’ultima posizione considera l’attività medica nell’ambito delle varie regole di solidarietà umana stabilite dalla Torà: per alcuni rientra nell’obbligo della “restituzione” (Deuteronomio 22:2) che comprende tra i beni perduti anche quello della salute; per altri è un’applicazione dell’”amerai per il tuo prossimo come per te stesso” (Levitico 19:18); per altri deriva dalla regola che impone il soccorso: “non stare fermo davanti al sangue del tuo prossimo” (Levitico 19:16); per altri è doveroso salvare il prossimo anche in base al verso che dice “il tuo fratello vivrà con te” (Levitico 25:36); infine commenti più tardi, dall’esame di alcune regole di prevenzione di infortuni (come quella che impone la balaustra nei piani sopraelevati, cfr. Deut. 22:8), derivano il divieto di assumere atteggiamenti fatalistici e l’obbligo di fare il possibile per proteggere la propria vita e salute. Dunque l’obbligo dell’esercizio della medicina sarebbe implicito in tutte queste norme di igiene e solidarietà sociale, e il “permesso” sarebbe solo una risposta riservata alle possibili obiezioni di natura ideologica.
Una volta Rabbì Ishmaèl e Rabbì Aqivà passeggiavano per le strade di Gerusalemme insieme ad un’altra persona. Li incontrò un malato, e gli chiese: “Maestri, ditemi come posso curarmi”. Gli risposero: “Fai così e così fino a che guarirai”. Il malato domandò: “Chi è che mi ha colpito con questa malattia?”. Gli risposero: “Il Signore, che sia benedetto”. Allora chiese: “E voi vi permettete di entrare in un ambito che non è il vostro? Egli ha colpito e voi guarite? Non trasgredire la sua volontà?”Gli chiesero allora: “Che lavoro fai?”. “Rispose: “Lavoro la terra, come vedete ho la falce in mano”. Gli dissero: “Chi ha creato la vigna?”. Rispose: “Il Signore, che sia Benedetto”. Gli dissero: “E tu ti permetti di entrare in una cosa che non è tua? Egli l’ha creata e tu ne tagli i frutti?”. Rispose: “Ma non vedete la falce che ho in mano? Se non uscissi ad arare, tagliare, concimare e togliere erbacce, il campo non produrrebbe nulla”. Gli dissero: “Sciocco! Facendo il tuo lavoro non hai mai sentito il verso che dice: “I giorni dell’uomo sono come l’erba” (Salmi 103:15)? Come l’albero se non si tolgono le erbacce, si concima e si ara, non cresce, e se è cresciuto e non viene annaffiato e concimato finisce di vivere e muore; così è il corpo: il concime sono le medicine, e il contadino è il medico”.(Midràsh Shemuèl 4; Midràsh Temurà 2) |
Medici e malati nel momento della prova
Una fede tradizionalmente profonda, unita alla coscienza della propria limitatezza e dei rischi connessi all’attività medica, ha sviluppato la tendenza a comporre e usare preghiere speciali per l’esercizio della medicina. Ve ne sono esempi dal medioevo, di varia lunghezza, alcune molto belle, altre meno ispirate e di aspetto più “tecnico”, comunque sempre documenti interessanti della concezione del mondo e della professione.
Il rabbino medico Jaaqov Zahalon così scriveva tra l’altro nella sua preghiera pubblicata a Venezia nel 1665:
“L’intenzione del mio cuore è di occuparmi dell’arte medica, nel Tuo nome santo e con il Tuo aiuto. Non mi appoggio sulla mia scienza, né ripongo la mia fiducia sui farmaci, le erbe e i rimedi che hai creato nel Tuo mondo, perché sono come dei mezzi per completare la Tua volontà, e per proclamare la Tua grandezza e la Tua provvidenza; perché l’arte della medicina è molto pericolosa; e ancora perché io sono ignorante e privo di discernimento, e ho paura, e cammino a tentoni a mezzogiorno, come fa il cieco al buio, e pertanto dichiaro di affidarmi alla sua misericordia e procedere dietro a Te”.
La più nota di queste preghiere fu pubblicata nel 1738 in tedesco, e divenne famosa come la “preghiera di Maimonide”, a quanto pare si tratta di una falsa attribuzione; per alcuni l’autore sarebbe stato Marcus Hertz, il medico di Moses Mendelsohn, ma è stato dimostrato che il testo originale è a questi precedente di almeno una generazione. Il carattere universale di questa preghiera ne ha fatto un classico, e ne ha consentito una grande diffusione. Un altro esempio, di cui traduciamo il testo originale ebraico, è di origine italiana; è di evidente matrice erudita, con frequenti citazioni bibliche e rabbiniche; è la preghiera del medico, pubblicata per la prima volta a Ferrara nel 1747:
Preghiera da recitare ogni mattina prima di uscire da casa:
“O Signore mio Dio, sia Tua volontà di mandarmi in mio aiuto l’angelo Refael per guarire tutti i malati del tuo popolo, di farmi avere i farmaci migliori necessari per ogni malattia e piaga, di far avere successo alle mie opere, e che io non sbagli nelle mie prescrizioni; perché in mano Tua è la forza per far vivere i morti e curare ogni malattia e piaga, perché sei Dio re, medico fedele e pietoso, come hai detto: “Perché Io il Signore sono il tuo medico” (Esodo 15:26). Ed è anche scritto: “Ho colpito e guarirò” (Deuteronomio 32:39). “colpirà e la Sua mano guarirà” (Giobbe 5:18), perché non c’è medicina come la Tua e io, Tuo servo, mi baso sulle Tue sante parole per compiere la Tua missione, come è detto: “e sarà curato” (Esodo 21:19), e ciò dimostra che hai dato il permesso al medico di curare ogni malattia e piaga1; per questo il Tuo servo ha trovato una porta aperta per pregarTi di fargli trovare la medicina giusta e vera, che Tu o Signore, conosci sempre, mentre io non ho la capacità e la scienza per conoscere il fondamento delle qualità terapeutiche; ma tu mi darai nel cuore e nell’intelletto la possibilità di comprendere bene le medicine per curare ognuno senza errore e danno e veramente presto, come l’acqua spenge la fiamma e come si toglie un capello dal latte2 per ogni malattia e cambio della natura, e anche nella puntura dell’ape e nel morso dello scorpione, come guaristi Miriam dalla lebbra, Naaman dalla lebbra e Ezechia dalla sua malattia, così per mezzo mio manderai una guarigione completa a tutti coloro che sperano e spettano la Tua salvezza e la Tua guarigione. Purifica la mia mente e il mio pensiero, in modo che io non abbia pensieri cattivi curando le donne, vergini o sposate3, perché secondo le Tue parole ho fatto “ciò che l’uomo farà e ne vivrà” (Levitico 18:5)4, ed è scritto: “è tempo di agire per il Signore, hanno annullato la tua Torà” (Salmi 119-126)5: perché non vi è nulla che resiste davanti al pericolo di una vita, e Tu, o Signore, esamini i cuori e conosci i pensieri, e sai che ogni mia intenzione e volontà è per il Tuo grande e santo nome, per fare la Tua volontà. Pertanto proteggimi e purifica la mia mente, affinché io non pecchi, e affinché io possa procurare a tutti una completa guarigione con il Tuo aiuto e con la Tua salvezza. E se si avvicina per qualcuno il momento della morte, allontana da me le critiche, che non si dica dietro di me che sono stato io a provocare la morte, ma sia accettata la Tua giusta decisione; proteggimi quindi in modo che io non inciampi e non sia in pericolo con qualcuno di loro”.
NOTE
1 L’autore richiama l’interpretazione tradizionale del verso sulla quale si basa per giustificare l’esercizio della medicina; vedi per esteso l’articolo “Il diritto di curare”, a pag. 10.#
2 Espressione presa dal Talmùd (B Berakhòth 8a) per indicare un’azione delicata.
3 A differenza di altri sistemi religiosi, al medico ebreo, uomo, non è mai stato proibito di curare le donne. La preghiera vuole però prevenire i possibili rischi connessi con un’attività lecita.
4 Un commento a questo verso nell’articolo “Il Sabato e la vita in pericolo”, a pag. 19.
5 Il senso letterale del verso è che è tempo di agire perché hanno annullato ecc.; un midrash lo legge nel senso che nel momento in cui si deve agire per scopi superiori si può annullare la Torà.
Il particolare rapporto con il medico e la malattia, che non prescinde mai dal concetto della provvidenza divina, ha dato ampio spazio per la diffusione di preghiere su questo argomento. La preghiera più nota è inserita nell’Amidà costituendone l’ottava benedizione; quindi è recitata quotidianamente, tre volte al giorno, da chiunque, come invocazione collettiva.
La formula introduttiva riprende (cambiando il singolare in plurale) un’espressione di Geremia 17:14; il testo completo dice:
“Guarisci o Signore e saremo guariti, salvaci e saremo salvati, perché Tu sei l’oggetto della nostra lode. Procura dunque una guarigione completa per tutte le nostre piaghe e malattie; perché Tu sei un medico pietoso e degno di fede; Benedetto Tu o Signore, che guarisci i malati del suo popolo Israele” (secondo il rito italiano).
Per il singolo malato, è stabilita una formula particolare da recitare prima di essere sottoposto ad atti medici:
“Sia tua volontà, o Signore mio Dio, che questa operazione sia per me di guarigione, perché Tu sei un medico che non pretende ricompensa”.
Finita l’operazione il malato dice: “Benedetto Colui che guarisce i malati”. Secondo la lettera dello Shulkhàn Arùkh le due formule sono da recitare dopo un salasso; autori successivi se la stessa regola vale per qualsiasi intervento sul corpo, e se la formula finale debba essere recitata anche con l’aggiunta del nome divino e la proclamazione della sua regalità (“Benedetto tu o Signore Dio nostro Re del mondo, che guarisce i malati”). L’orientamento degli autori è che la formula introduttiva debba essere recitata in ogni intervento, mentre il nome divino e l’attributo della regalità debbano essere aggiunti alla formula finale solo per interventi di un certo impegno.
Oltre alle più semplici formule codificate, esistono numerose preghiere personali di vario tipo; un esempio è questa di Jehudà haLevì (che perde molto nella traduzione):
“Mio Dio, guariscimi, e guarirò / Non te la prendere con me, che io muoia / ogni farmaco è Tuo – buono / o cattivo, forte o debole / sei Tu che scegli e non noi / con la Tua intenzione cattiva e buona / non mi fido della mia medicina / solo la Tua medicina io aspetto”.
Quando il malato è guarito ha l’obbligo di ringraziare pubblicamente, recitando la “birkàt hagonèl” (“Benedetto il Signore che fa del bene ai peccatori, che mi ha fatto ogni bene”.
Vi sono poi le preghiere che i sani recitano per i malati. La formula più antica, e che si segnala per la sua irripetibile semplicità, è quella di Mosè in favore della sorella Miriam (cfr. Numeri 12, 13):
“O Signore, guariscila” (El na, refà na làh). Nella regola pratica quando si visita un malato bisogna invocare per lui misericordia, ricordando contemporaneamente tutti i malati ebrei: “Il Signore abbia pietà di te in mezzo ai malati d’Israele”. In presenza del malato questa benedizione si può recitare in qualsiasi lingua; lontano da lui soltanto in ebrei. Il Talmùd spiega questa norma con un’immagine interessante; lontano dal malato la preghiera viene raccolta dagli angeli del servizio divino, che capiscono soltanto la lingua ebraica; davanti al malato invece è presente la diretta immanenza divina, per cui è lecito usare qualsiasi lingua.
Altre preghiere, più complesse, sono state istituite per invocare pubblicamente la guarigione di un malato, e vengono recitate in sinagoga con l’Aròn aperto.
Esiste poi una normativa che regola le preghiere e i digiuni collettivi che vanno proclamati quando gravi pericoli minacciano la comunità, come il rischio di un’epidemia.
Il codice deontologico alla luce della Halakhà
Il medico è considerato un inviato e non un “collega” del Signore nella cura dei malati. Medico e malato devono avere fiducia in Dio e credere con fede assoluta che solo a Dio dipende la guarigione, mentre un certo farmaco o una certa persona non sino altro che suoi inviati; le possibilità di curare che il medico riesce a vedere sono solo una parte di quelle esistenti.
Anche se il medico è anziano, molto stimato ed importante, ha l’obbligo di occuparsi di qualsiasi malato, anche quando il salvataggio di una vita può comportare per chi interviene una diminuzione di decoro, o una fatica per un medico anziano.
Il medico è tenuto a porre grande attenzione nell’esercizio della sua professione, e in ogni caso dubbio ha il dovere di consigliarsi con persone più esperte, senza vergognarsi di chi lo può per questo schernire.
I medici devono porre la massima attenzione a non trasformare il malato in un oggetto di esperimenti; nella loro attività essi infatti stabiliscono non solo il destino della vita del malato, ma anche della propria.
Il medico deve pensare a se stesso come se avesse sempre davanti una spada affilata, e sotto ai piedi la porta spalancata dell’inferno.
Il medico può esercitare la sua professione anche in un luogo dove esiste un medico più esperto di lui, a condizione che il medico più esperto non abbia la possibilità di occuparsi di tutti i casi, oppure quando si tratta di malattie semplici, la cui cura è nota e accettata nei canoni abituali.
Ugualmente è consentito l’esercizio della medicina al medico meno esperto, quando il medico più esperto chiede un onorario troppo alto che il malato non si può permettere di pagare, o quando arrivare all’esperto è estremamente difficile e laborioso.
Quando il medico è chiamato per un malato in pericolo, mentre sta pregando o legge la Torà, ha l’obbligo di interrompere in ogni caso, anche se in questo modo passa il tempo prescritto per la preghiera.
L’antica regola ebraica prescriveva che per potere esercitare la professione medica in una comunità ebraica era necessaria l’autorizzazione del locale tribunale rabbinico. Nell’evoluzione del diritto ebraico l’autorizzazione è intesa come automatica quando il medico ha i titoli di studio richiesti dalla legge civile.
I danni provocati nell’esercizio della professione medica da chi è legalmente autorizzato non sono in linea di massima risarcibili dal medico autorizzato non sono in linea di massima risarcibili dal medico, che viene considerato come agente per forza maggiore. Il medico non è tenuto a risarcire i danni provocati quando si è ottenuto in interventi chirurgici o in prescrizioni di farmaci ai canoni correnti; tuttavia se ha commesso un errore nella prescrizione dei farmaci, o per disattenzione, o per non aver approfondito a dovere il caso, o per aver commesso un’azione che i suoi colleghi riconoscono come un errore, è responsabile delle sue azioni.
La stessa regola vale per tutti gli altri operatori sanitari.
La regola rabbinica in queste norme si sovrappone a quella delle moderne legislazioni civili, che puniscono l’imperizia, l’imprudenza e la negligenza nell’esercizio professionale.
Se un medico non si comporta con responsabilità e dà segni di disprezzo per la vita umana, deve essere allontanato dall’incarico e gli deve essere tolta l’autorizzazione.
Il medico ha diritto di chiedere l’onorario per le sue prestazioni solo quando visita il malato (e non per consulti e prescrizioni senza visita). Ha diritto di compenso anche quando insegna medicina.
Il medico ha l’obbligo di curare gratuitamente i malati che non sono in grado di pagarsi le spese, e il tribunale rabbinico può imporgli questo dovere. Dove esistono più medici, le difficoltà connesse all’applicazione di questa norma hanno portato alla creazione di una cassa pubblica di assistenza che stipendia regolarmente un medico per assistere i malati indigenti. (Questo è successo nelle comunità ebraiche molti secoli prima della creazione delle casse mutue o dell’assistenza pubblica. Di fronte a questi principi, la tradizione popolare ebraica ha però sempre rispettato un antico proverbio talmudico, di grande acutezza psicologica, per cui “il medico che cura per niente non vale niente”: i malati, anche i più poveri, hanno per questo cercato di pagare ogni prestazione medica con un minimo simbolico).
Nella richiesta degli onorari è imposta moderazione.
Il segreto professionale non può essere invocato davanti al tribunale.
Nell’insegnamento della medicina il segreto può essere violato, ma solo con l’autorizzazione del malato.
La violazione del segreto professionale è considerata grave colpa, a meno che non serva a impedire danni alla collettività (esempio per la denuncia di malattie pericolose).
(in base a Hilkhòth Rofìm uRfuà, pagg. 59-61, 221-225, 230-231).
“Medico del corpo e dell’anima”: mito o realtà?
Per una singolare concorrenza di diversi fattori nel corso della storia ebraica la figura del rabbino è stata frequentemente associata a quella del medico. Esempi numerosi, spesso illustri, hanno creato una specie di mito, del guaritore die mali del corpo e dell’anima, che come tutti i miti resiste ancora ed è duro a scomparire. Che cosa c’è di vero in questo mito? Quali sono stati i reali motivi che hanno portato alla frequente associazione delle due attività?
Prima di tutto qualche dato storico. In epoca biblica ai sacerdoti erano state affidate alcune attività di tipo medico, come il riconoscimento di una serie di malattie che comportavano lo stato di impurità e la relativa segregazione di chi ne era colpito. I sacerdoti quindi dovevano essere esperti in attività che oggi definiremmo di diagnostica differenziale. Oltre ai sacerdoti troviamo nella Bibbia altri esempi di persone coinvolte in attività sacrali, come i profeti, che si occupavano della cura di alcune malattie. Esisteva insomma un certo rapporto tra “medicina” e “religione”, con i due termini tra virgolette perché certamente non riportabili alle attuali categorie. Successivamente il rapporto tra i due ambiti proseguì: in epoca talmudica abbiamo numerosi esempi di illustri rabbini che si dedicavano ad attività mediche: possiamo tra gli altri citare Rabbì Amì, Minione, Todòs. Gli esempi più celebri sono quelli del medioevo, e basta pensare ai nomi di Jehudà haLevì, di Maimonide e di suo figlio Avraham (la cui fama è offuscata da quella del padre, ma che non era certamente di scarso valore), di Moshé Nachmanide, di Samuèl e Moshè ibn Tibbòn, di Josef Albo; senza poi pensare all’illustre schiera di rabbini italiani (a cui è dedicata la nota di N. Pavoncello a pag. 18), da Sforno a Lampronti, che nella associazione delle due nobili attività crearono una tradizione continua e autorevole per secoli.
Cercando di capire, sia pure sommariamente, il fenomeno, la prima osservazione da fare è che si tratta di un processo protrattosi per secoli, forse per millenni, e che per questo motivo non è affatto possibile, né lecito, fornire una spiegazione unitaria e semplicistica. Le risposte sono tante, e variano necessariamente da epoca ad epoca, e nei diversi ambiti geografici. Ma prima di tutto è da tener presente come il fenomeno che incontriamo nell’ebraismo non è isolato nelle culture del mondo. Da sempre e ubiquitariamente il rapporto tra religione, in ogni sua manifestazione, e cura malattie è stato sempre molto stretto; per cui nelle culture etnologiche( è lo stregone che cura le malattie, fondendo in un unico personaggio colui che ha il rapporto con il sacro e colui che appunto virtù di questo rapporto preferenziale ha la possibilità di curare il male. Non può sfuggire inoltre in termini sociali il significato di detenzione ed esercizio di potere che i due ambiti comportano; tuttora nella nostra società si riconosce autorità e potere a chi ha rapporti con il sacro e a chi, in qualsiasi modo, sia in grado di curare bene le malattie; da qui deriva una quasi ovvia tendenza a concentrare questo potere in mano ad un unico personaggio o a una casta privilegiata.
Questi concetti sono filtrati nell’ebraismo, ma con modalità profondamente differenti, in rapporto alle caratteristiche del tutto particolari della sua concezione religiosa, fin dai primi momenti istituzionali; concezione che tra l’altro respingeva gran parte delle implicazioni magiche sulle quali si basava nelle altre culture il potere medico-sacerdotale. Ecco perché, ad esempio, la differenza è estremamente significativa, il sacerdote biblico si occupa da vicino di malattie, ma la sua opera è essenzialmente limitata alla classificazione, alla diagnosi e alla prevenzione.
Andando avanti nei secoli, il caso dei rabbini del Talmùd esperti di medicina si pesta ad altre considerazioni. Diversi dati sono da tenere in considerazione: che l’attività del rabbino, in quell’epoca, era essenzialmente di giudice e di insegnante; che gran parte dei rabbini esercitava un mestiere o una professione, dalla quale ricavava il necessario per vivere, per poi dedicare il resto del tempo allo studio e all’insegnamento della Torà. Per cui troviamo i rabbini dell’epoca impegnati nelle più svariate attività, dall’agricoltura, all’artigianato, alle varie professioni; il tutto dipendente dalle differenti condizioni economiche e sociali delle aree in cui si trovavano ad agire. Tra queste attività vi poteva essere la medicina, una tra le tante possibili. i era tuttavia già qualcosa che in un certo senso indirizzava selettivamente molti rabbini all’esercizio della professione medica: la frequente necessità, al fine di chiarire numerosi problemi di applicazione della halakhà, di conoscere la medicina; necessità che ha portato al principio, sancito nel Talmùd, per il quale il giudice deve avere nel suo bagaglio culturale non solo le regole della Torà, ma una discreta preparazione in altre discipline preliminari e complementari, tra le quali appunto la medicina. In ogni caso in epoca talmudica il medico-rabbino non era la regola, anche se rappresentava un caso abbastanza frequente tra le possibili scelte che un maestro poteva prendere, per potersi permettere con il sostegno economico di una professione “civile” lo studio della Torà.
Non abbiamo comunque dati per affermare che in quell’epoca l’associazione delle due attività conferisse particolare sacralità e potere; e forse ciò è in parte dovuto al diverso rapporto – spesso sfiduciato – della società di allora con i medici e alla frequente commistione inquinante della medicina con pratiche magiche, elemento che riduceva, almeno in alcuni ambienti, il rispetto per queste attività.
Quando da questa situazione passiamo ad esaminare il fenomeno medioevale, specialmente nelle sue forme celebri dell’area spagnola e islamica, entrano in gioco altri fattori. Uno di questi è il tipo particolare di studi richiesti per diventare medico, un curriculum non limitato affatto alla patologia, ma esteso, come elemento integrante, alla filosofia. Per cui l’essere dotti in queste ultime materie si collegava necessariamente alla medicina; e in un ebraismo aperto al confronto con la cultura circostante la formazione di dotti passava necessariamente attraverso la medicina; essere medico non significava solo saper curare le malattie, ma avere una preparazione di base di cultura filosofica generale. Ma dobbiamo considerare altri due fattori. Uno, già presente in epoca talmudica, di natura economica: non tutti i rabbini (anzi probabilmente molto pochi) erano pagati per questa loro attività e quindi dovevano volgersi ad altre fonti di sussistenza. Anche nel mondo cristiano medioevale molti religiosi esercitavano la medicina; ma dal punto di vista economico ciò avveniva per motivi opposti a quelli ebraici. Tra gli ebrei i rabbini facevano i medici per guadagnare. Tra i cristiani nelle abbazie si potenziava la ricerca e la pratica medica perché la ricchezza di quei centri consentiva lo sviluppo di questa attività. L’altro motivo, di tipo politico, derivava dal particolare rispetto che la società attribuiva al medico; per l’ebreo, privato nella società di autorità e decoro, la medicina sostituiva una delle poche possibilità di esercitare ancora qualche influenza; un uso diverso e una versione del tutto particolare del “potere” medico. L’arte medica era inoltre, per chi la possedeva, un patrimonio non sopprimibile e che chiunque poteva recarsi con sé da una cacciata all’altra, permettendosi di ricominciare da zero ovunque. È stato probabilmente questo il motivo principale che per secoli – e forse ancora oggi – ha spinto gli ebrei alla medicina; nel caso dei rabbini, deve aver giocato in particolare il ruolo dello speciale decoro che la professione conferiva, un decoro che ben si conveniva a chi rappresentava la gloria della Torà. E il “medico del corpo e dell’anima”? Í un’invenzione teorica? Probabilmente no, anche con tutti i condizionamenti economici, sociali e politici che abbiamo visto. Da una parte perché personalità come Maimonide hanno, proprio per la loro complessa preparazione culturale, sviluppato delle concezioni di unitarietà corpo-anima, oggi al centro dell’attenzione scientifica per la loro attualità, che hanno riproposto una figura integrata di medico, che non si limita alla cura fisica meccanica, ma che interviene globalmente sulla realtà dell’uomo. Dall’altra parte perché il rispetto, la fiducia, la serietà, l’umanità, l’autorità attribuite alla figura del rabbino (dagli ebrei come è noto sempre in modo polemico e contraddittorio, ma in fondo come elemento presente, se non altro come provocazione) sono elementi indispensabili nel rapporto psicologico e pratico tra paziente e medico. Dunque quella di medico-rabbino sarebbe stata una formula vincente, da tutti i punti di vista, e non solo all’interno del gruppo ebraico, ma anche al suo esterno.
Nel Rinascimento i casi si moltiplicavano; nella scelta della medicina per i rabbini giocò, in particolare in Italia, l’elemento economico, perché le comunità ancora non usavano pagare i loro Maestri. Mentre la tradizione si consolidava (proseguendo per i secoli successivi) cominciavano ad emergere i segni della crisi. Vari i fattori convergenti: la medicina si evolveva lentamente da disciplina anche filosofica a professione sempre più tecnica; le comunità sentivano la necessità di delegare a maggiori impegni i rabbini e quindi dovevano pagarli; la convergenza ideale delle due attività cominciava a far posto allo scontro: esempi di rabbini che dettavano l’halakhà dopo una giornata dedicata alla visita dei malati sono abbondanti nella storia, ma presuppongono spesso forti personalità, con capacità psichiche e fisiche per sostenere il duplice impegno. Ma il crescere dell’impegno medico porta ad allontanarsi dalla Torà. Ed ecco l’esempio emblematico di Avraham Portaleone di Mantova, personalità eccezionale nei due ambiti: dopo una vita sempre più impegnata nella medicina alla corte Ducale (anche con pubblicazioni scientifiche) venne colpito da emiparesi nella primavera del 1606; nel letto dove fu costretto a giacere riconsiderò il senso della sua vita, ed arrivò ad interpretare la sua malattia come una punizione per aver trascurato lo studio della Torà; quindi lasciò la medicina e si impegnò negli ultimi anni al rinnovato studio dei testi sacri, e alla compilazione di opere ebraiche ancor oggi considerate fondamentali. Caso tipico che riassume la crisi dell’età moderna, una crisi che ancora oggi non si è risolta. Qual’è oggi infatti la situazione? Nel mondo ebraico vi sono ancora numerosi medici-rabbini, anche se certamente il loro numero è molto inferiore al passato. Si tratta di un modello in crisi, con elementi a favore e contrari: da un lato, nella Diaspora soprattutto, la mancanza di forze impegnate nell’educazione ebraica può fare ritenere un dispendio e uno spreco l’esistenza di rabbini che invece di dedicarsi a tempo pieno allo studio e all’insegnamento della Torà si interessano di discipline eminentemente mediche; dall’altro non si può sottovalutare l’importanza della persistenza di un modello, per molti secoli ideale e poi per necessità in gran parte abbandonato, che considera obbligatorio per l’ebreo l’esercizio di una professione dalla quale ricavare guadagno, per poi dedicarsi alla Torà senza implicazioni economiche: un ideale di libertà della Torà, fuori da ogni condizionamento materiale, che è importante che ogni comunità persegua e applichi. Se ciò oggi non è possibile, è perché chi si occupa di Torà è spesso una infima minoranza, che a questo viene “delegata” dagli altri; ma non è certo un modello ideale, è piuttosto una aberrazione. Il medico-rabbino può portare in ognuna delle due attività le esperienze derivate dall’altra: umanità e cultura nell’esercizio della medicina, rigore scientifico e bagaglio di nozioni tecniche nello studio della Torà. Se ne può fare a meno? È meglio che i medici-rabbini gettino il camice alle ortiche e si dedichino a tempo pieno alla Torà? È un problema aperto, in attesa di soluzione.
Il giuramento del medico ebreo secondo Asaf Harofè
Asaf il medico, fu autore della più antica opera di medicina in lingua ebraica, forse del VII secolo, di ambiente Siriaco o Palestinese. Questo giuramento del medico è una specie di versione ebraica del molto più noto e tuttora diffuso giuramento di Ippocrate.
Questo è il patto che Asaf ben Berekhiàu e Amon ben Zavda strinsero con i loro discepoli, facendoli giurare con queste parole:
“Non cercate di uccidere alcuno con una bevanda velenosa; non fate bere a una donna incinta per adulterio un farmaco per abortire, e non desiderate alcuna bellezza nelle donne, per fornicare con loro. Non rivelate il segreto dell’uomo che ha avuto fiducia in voi, non prendete alcuna ricompensa per danneggiare e distruggere, non siate duri di cuore e senza pietà rifiutando le cure a chi è povero e che è male bene. Non seguite le abitudini dei maghi, per fare ogni tipo di magia e stregoneria, per separare l’uomo dalla sua donna, o la donna dal suo uomo, e non desiderate alcuna ricchezza e alcuna ricompensa per aiutare questi propositi. Non appoggiatevi ad alcun tipo di idolatria per curare e per garantire come medicine ogni cosa connessa al loro culto, ma abbiate in abominio e in odio tutti coloro che la adorano, chi vi ripone fiducia e chi vi fa riporre fiducia; perché sono il nulla; sono satiri e spiriti di morti; non potranno salvare i loro corpi senza vita e come potrebbero salvare i viventi? E ora abbiate fiducia nel Signore vostro Dio, vero e vivente, che fa morire e rivivere, che ferisce e guarisce, che insegna all’uomo a conoscere e a giovare, che ferisce con giustizia e diritto, guarisce con amore e misericordia, e non Gli restano ignoti tutti gli intenti ingannevoli, e nessuno sfugge alla Sua vista; colui che fa fiorire le piante, le medicine, e che pone nel cuore dei sapienti la saggezza per guarire, per il Suo grande amore, e perché si possano raccontare le Sue meraviglie a grandi moltitudini. Il Signore sia con voi quando voi sarete con Lui; se osserverete il suo patto e procederete secondo i suoi statuti rimanendo ad essi fedeli, e sarete considerati santi da ogni creatura. (…)
Una traduzione illustre
Nel Rinascimento molti ebrei, in gran parte anche rabbini, esercitarono la professione medica. L’argomento è stato e continua ad essere oggetto di studi storici. Una sintesi su questo tema è stata pubblicata da I. Erlich, con il titolo “Medici ebrei nel periodo del Rinascimento” nel numero 122 di Machanaim, la rivista delle forze armate israeliane, redatta dal rabbino M. Cohen (1970, pp. 94-104). L’articolo è di particolare interesse, perché riporta notizie riguardanti anche medici ebrei vissuti in questo periodo in Italia. Dopo aver presentato, in un’ampia prefazione, un quadro abbastanza esauriente della funzione degli ebrei nel Rinascimento, le leggi e le restrizioni riguardanti questi ultimi, le leggi e le restrizioni riguardanti questi ultimi, per essere ammessi nelle università, l’Erlich passa ad elencare un certo numero di ebrei italiani esonerati da alcune di queste restrizioni ed ammessi a conseguire la laurea in medicina. Dall’articolo veniamo a sapere che il primo ebreo in Italia a godere di tali privilegi fu Yehudà Leone da Imola, che nel 1430 circa fu insignito dell’ambito titolo dall’Università di Padova. Negli anni successivi decine di studenti ebrei conseguirono il dottorato in medicina, oltre che nell’Università di Padova, anche presso quelle di Perugia, Napoli, Siena, Pisa, Ferrara, Pavia e Bologna. Questa nuova possibilità, scrive Erlich, fu forse dovuta all’influenza esercitata dal nuovo Pontefice Martino V, nella cui Bolla ammise anche gli ebrei nelle università. Nel 1528 l’Università di Bologna conferisce, per la prima volta, il titolo di dottore a Mordekhai Angelo Modena. Per quanto una bolla di Gregorio XIII avesse proibito ai dottori ebrei di curare i malati non ebrei, vediamo che gli stessi re e pontefici ricorrono all’opera di medici ebrei. Tra questi vanno ricordati, in primo luogo, Mordekhai Angelo, figlio di Immanuel, abitante nel quartiere di Trastevere a Roma, medico insieme ai suoi due figli, del Pontefice Bonifacio IX; Moshè da Rieti, medico del Papa Pio II; Eli’ezer Lazzaro da Pavia, scacciato dalla città di Faenza da Bernardino da Feltre, che fu medico personale di Lorenzo il Magnifico; Marco da Modena, medico di Carlo V; Binyamin Portaleone, famiglia questa dalla quale uscirono medici di chiara fama, medico di Ferdinando I di Napoli. I suoi due figli furono medici alle corti di Urbino e di Mantova; Elia figlio di Shabbathai Beer, medico dal pontefice e della nobiltà romana del suo tempo.
Dopo questa ampia descrizione l’Erlich passa poi a darci una rassegna dei medici secondo i secoli in cui essi vissero ed operarono. Nel XIV secolo, per quanto riguarda l’Italia, si segnala il noto poeta Immanuel da Roma o Romano, al quale vengono attribuite conoscenze nel campo della medicina; Kalonimos, figlio di Kalominos, conosciuto con il nome di Maestro Calò, nato ad Arli (Provenza), invitato da Roberto d’Angiò a Napoli, per tradurre testi dall’ebraico e dall’arabo in latino.
Nel XV secolo, dopo aver citato il nome di Yehudà Abrabanel o Abarbanel e la sua attività di medico in Italia, dopo l’espulsione dalla Spagna, vengono riportati i nomi dei più importanti medici ebrei del secolo: il già nominato Elia Beer; il medico Avraham Abramo Conat, in Mantova, noto per aver fondato in questa città una delle prime tipografie ebraiche; Yeudà Messere Leon ed il figlio Rabbi David; Yaakov Provenzal di Marsiglia, che esercitò l’arte del medico a Mantova; Yaakov Ascoli a Roma; Avraham da Balmes, che tenne cattedra di medicina a Padova. Una particolare figura di medico in questo periodo fu Moshè Remos o come altri leggono Remis, condannato a morte a Palermo sotto l’accusa di avvelenamento; Yaakov Cohen, storico e medico di Avignone venne a stabilirsi a Genova e qui studiò medicina.
Passando al XIV secolo si citano i nomi di David de Pomis di Spoleto, allievo dell’Università di Perugia, dalla quale uscì addottorato nel 1551; Moshè Amram Alatino e suo figlio Azhriel Petachyà, che esercitarono l’attività di medici a Ferrara. Il primo, allievo dell’Università di Perugia, si trasferì a Ferrara, dopo l’espulsione degli ebrei dallo Stato pontificio (1569), ottenendo il permesso di Clemente VIII di esercitare la medicina a Ferrara. Viene ricordato, con particolare interesse, il nome di Shelomò Ashkenazì, uomo politico, al quale viene attribuito il merito della prima trasfusione del sangue; Yosef Zarfatì, conosciuto con il nome di Giuseppe Gallo, celebre medico, ma anche matematico e filosofo insigne.
I nomi dei medici, appartenenti alla famiglia Portaleone, sono i più famosi dell’epoca: Avraham, figlio di Binyamin Guglielmo, medico dei duchi di Urbino, Mantova e Ferrara; El’azar Lazzaro, fratello di Abramo, medico a Venezia, Mantova, Rovigo e Sermide. I suoi tre figli Avraham, David e Meir, medici in varie città dell’Italia settentrionale. L’Erlich, dopo aver ricordato i nomi di medici ebrei al di fuori dell’Italia, chiude il suo articolo con il nome di Amato Lusitano, il maggiore dei medici del suo tempo. È noto per aver composto, in lingua ebraica, il giuramento del medico, sul tipo di quello del greco Ippocrate, ispirando le sue parole all’eterno D. d’Israele ed alle dieci parole da lui dettate sul monte Sinai, il cui testo è riportato nella stessa Rivista (p. 16).
a cura di Jehudà Nello Pavoncello
Medicina e halakhà / 1: Un problema essenziale
Il principio: la difesa della vita prevale sul Sabato
Può accadere in alcune situazioni che dei principi generali di un sistema religioso o ideologico vengano a trovarsi in contraddizione: la discussione che si solleva sul problema è di grande importanza per capire i fondamenti stessi del sistema e le sue capacità di adeguarsi agli sviluppi della realtà.
Nell’ebraismo un caso classico di questo tipo è nel problema dell’esercizio della medicina di Sabato. Da una parte i valori attribuiti alla celebrazione della giornata festiva: momento essenziale della vita religiosa, segno del patto tra Dio e Israele, che rispettando il Sabato riconosce il potere massimo e assoluto di Chi ha creato il mondo; e anche momento e strumento per la liberazione dell’uomo. Valori a tal punto importanti che la tradizione rabbinica arriva a considerare colui che profana il Sabato pubblicamente come se praticasse un culto idolatrico. Dall’altra parte l’esercizio della medicina, che implica il rispetto e la tutela della salute e della vita umana, anch’essi valori al centro della vita religiosa e degli interessi dell’ebraismo. Se una persona sta male, è lecito profanare la giornata festiva per curarlo? Quale dei due valori ha precedenza?
In epoca rabbinica il problema è stato risolto con molta chiarezza, senza lasciar alcun adito a dubbi. È possibile che alle conclusioni da tutti accettate senza divergenza nella corrente farisaica e nella tradizione che le è succeduta si sia arrivati non in via pacifica, ma dopo uno scontro reale. Una testimonianza molto antica a questo proposito è nel racconto del libro dei Maccabei; all’inizio della rivolta asmonaica le bande armate ebraiche che combattevano contro i greci si erano fatte colpire senza difendersi durante gli attacchi nemici sferrati contro il loro durante il Sabato, pur di non profanarne i principi; ma dopo le prime tragiche conseguenze fu stabilito che la legittima difesa autorizzava la profanazione del Sabato. Il principio allora accettato fu che la salvezza di una vita umana è più importante dell’osservanza sabbatica.
Fermo restando il principio, sono state proposte dai rabbini differenti giustificazioni. La Bibbia non affronta esplicitamente il problema, per cui sono state necessarie deduzioni per via indiretta dalla lettera di alcune espressioni. Una delle possibili soluzioni si appoggia al verso che parlando del sabato dice: “perché è sacro per voi” (Esodo 33:14); dalla ridondanza dell’espressione “per voi” si ricava il principio per cui il Sabato “è consegnato nelle vostre mani e non voi nelle sue mani (TB Jonà 85 b); principio che tra l’altro i Vangeli (cfr. Matteo 12:8) attribuiscono a Gesù in polemica con i Farisei, che su questo l’avrebbero pensato differentemente. Un’altra deduzione si basa sul verso che dice: “I figli d’Israele osserveranno il Sabato” (ibid, 16); quindi “la Torà consente di profanare il Sabato per un malato, affinché ne possa osservare molti altri dopo”. Questa tuttavia appare come un’interpretazione limitativa, perché in teoria potrebbe consentire l’intervento solo nei casi in cui si prospetta una sopravvivenza di ragionevole durata, e non nei casi dubbi o quando l’intervento potrebbe salvare la vita “per un’ora” soltanto; casi invece in cui è concesso di profanare il Sabato, e quindi l’interpretazione risulta minoritaria e non di valore giuridico reale. In realtà l’interpretazione che la maggioranza degli autori assumono come riferimento decisivo si basa sul verso che dice: “osserverete le mie leggi e i miei statuti mettendo in pratica i quali l’uomo ne vivrà (wachàj bahèm)” (Levitico 18:5): “ne vivrà”, si commenta, “e non ne dovrà morire”; come spiega qui Maimonide: “Ne impari che le regole della Torà non sono una vendetta nel mondo, ma misericordia, amore e pace nel mondo”. Il principio è dunque quello che la vita è un valore assoluto che sorpassa quello dell’osservanza dei precetti.
Il Sabato e la vita in pericolo
Nell’applicazione del principio della superiorità della vita umana sono necessarie delle distinzioni pratiche, sulle quali la letteratura rabbinica si è dilungata. Non tutte le malattie sono uguali e rappresentano un’identica minaccia per l’integrità fisica, la salute e la vita. I rabbini hanno pertanto introdotto una classificazione in almeno tre gruppi principali di casi:
1. Malato in pericolo: è considerato tale chiunque sia in pericolo di vita, a giudizio di un medico, o in sua assenza di chiunque abbia in proposito un minimo di esperienza, o del malato stesso. Nella stessa categoria sono inclusi tutti quei casi che al momento dell’osservazione non sono pericolosi, ma che potrebbero diventarlo in assenza di un intervento immediato di prevenzione. La categoria comprende poi con larghezza tutta una serie di casi in cui la regola rabbinica considera una situazione di pericolo, anche con maggior rigore della scienza medica; in pratica tutta una serie di malattie e situazioni gravi: ad esempio ferite interne, emorragie interne, forti dolori interni, fratture del cranio e della colonna, colpi di calore o di sole, irradiazioni, l’immediato decorso post-operatorio, cancro, avvelenamenti, morsi di animali e punture di insetti pericolosi, parto e puerperio (entro 7 giorni), malattie gravi dell’occhio, crolli di edifici, ecc.; in genere ogni altra situazione di pericolo ed emergenza (come il caso di un bambino che rimane dietro a una porta e ha paura).
2. Malato non in pericolo: rientra in questa categoria chi non si sente bene e per questo è allettato; chi ha dei dolori che l’indeboliscono; chi ha una lieve elevazione febbrile; chi ha una frattura di lieve entità e può attendere la fine del Sabato per il trattamento; chi ha una malattia di cuore non pericolosa; inoltre: chi ha un’infezione oculare non emorragica né purulenta; chi soffre di gastrite e diarrea; le puerpere dall’8° al 30° giorno; ogni lattante fino a 2-3 anni di età.
3. Disturbi di lieve entità, piccole malattie: come mal di denti,di testa, di gola, che nei giorni non festivi non impedirebbero le normali attività lavorative; il raffreddore e la tosse moderata.
A fronte di questa classificazione sono regolate le attività lecite:
1. Malattia in pericolo: è consentito profanare il Sabato anche violando proibizioni della Torà; più precisamente è obbligatorio fare ogni azione per salvare la vita in pericolo, anche nei casi dubbi; è lodato lo zelo dell’intervento, che non bisogna delegare ad altri, ma eseguire personalmente e con prontezza. Per scrupoli religiosi non è consentito rifiutare l’intervento, né al malato né a chi lo deve curare; chi si astiene, in questo caso è considerato come “spargitore di sangue”. Si interviene anche per speranze di brevissima sopravvivenza, sui moribondi, e senza distinzione di età, e comportamento religioso (ad esempio anche sui tentativi di suicidio).
2. Malati non in pericolo: per questi è consentito profanare le proibizioni sabbatiche di istituzione rabbinica, o, per mezzo di un non ebreo, anche le regole della Torà. Ad esempio il malato può assumere le medicine necessarie e farsi fare iniezioni intramuscolari (non le endovenose).
3. Disturbi di lieve entità: per questi è consentito trasgredire solo alcuni divieti rabbinici secondari (ghezerà). Ad esempio chi è lievemente raffreddato non deve prendere alcuna medicina. Tutto dipende comunque dall’entità del disturbo.
Come si può comprendere dai pochi esempi citati, si tratta di una vasta casistica rituale, che costituisce uno dei capitoli di maggiore sviluppo nella halakhà, per la viva attualità dei nuovi problemi che il progresso tecnico-scientifico continua a presentare quotidianamente. Questa scheda ha solo un valore orientativo e chi è interessato a questi problemi deve necessariamente rifarsi a fonti approfondite.
Medicina e halakhà / 2: Casistica
Queste norme sono riprese in sintesi da Hilkhòth Rofim uRfuà, dalle pagine indicate in parentesi.
Inseminazione artificiale:
In generale l’inseminazione artificiale è considerata con la massima severità, sia per quanto riguarda la donna che riceve il seme, che per il donatore e il personale che esegue le varie fasi dell’operazione. L’unico caso in cui l’inseminazione artificiale è consentita è tra marito e moglie, quando è stato seriamente accertato che non è possibile la fecondazione in modi differenti (pp. 150-152).
Controllo della fertilità maschile:
In caso di coppia sterile, una volta escluse cause femminili di sterilità, è consentito eseguire l’esame del liquido seminale, in deroga al divieto della dispersione del seme. È suggerita come migliore, tra le varie modalità di prelievo, l’esecuzione del “post-coital test”, che tra l’altro, per alcuni aspetti, è la condizione più fisiologica. In caso di necessità è consentita la biopsia testicolare, preferibilmente dal testicolo sinistro (pp. 154-155).
Problemi di sterilità femminile:
Un’antica regola ordinava lo scioglimento del vincolo matrimoniale in una coppia che a dieci anni dal matrimonio non aveva avuto figli, per consentire ai due di riprodursi con altri partners. Alcune autorità attuali sostengono che oggi questa norma non è obbligatoria, specialmente se la donna è ancora in età fertile.
È consentito al marito avere rapporti con l a moglie isterectomizzata (a cui è stato tolto chirurgicamente l’utero), senza che questo significhi dispersione del seme.
In via di principio una donna non può donare il suo utero ad un’altra donna, perché in questo modo la donatrice viene sterilizzata. Una volta eseguito il trapianto, se iv è stata una gravidanza, il figlio appartiene in ogni senso alla madre che ha sostenuto la gravidanza, e non alla donatrice (pagina 160).
Interventi chirurgici:
In molti casi il principio che viene messo in discussione è il divieto di esporre il proprio corpo a rischi, che possono derivare anche dalla chirurgia.
Se un malato è destinato a morte sicura in breve tempo per una determinata malattia e un intervento chirurgico può forse salvarlo e anticiparne la morte, è conseguire l’intervento.
L’intervento è consentito anche se non è sicuro che il malato sta per morire, quando è esposto comunque ad attacchi che lo mettono in grave pericolo o lo sottopongono a sofferenze gravi.
L’intervento (e lo stesso vale per ogni altro trattamento medico complesso, o per l’uso di farmaci pericolosi) è consentito in deroga al principio che proibisce di esporsi a pericoli, perché esiste la necessità di risolvere una situazione di salute altamente compromessa.
Nella stessa prospettiva è consentito affrontare il rischio dell’intervento per migliorare la qualità della vita compromessa da rilevanti dolori e sofferenze.
L’operazione plastica a scopi puramente estetici è proibita (p. 168); c’è comunque chi permette in presenza di serie motivazioni integrative (come quando serve ad impedire gravi complicazioni psichiche o per facilitare a una ragazza un matrimonio altrimenti difficile, ecc.: Jakobovits, p. 115).
Per un membro o un arto tolto a una persona viva non c’è obbligo di sepoltura, ma si usa comunque farlo; può essere usato per studiare e insegnare medicina e comunque va trattato con rispetto. Il feto abortito deve essere sepolto; seppellire la placenta è solo un uso (p. 148).
Cambio di sesso:
In linea di principio è proibito modificare chirurgicamente il sesso con interventi sugli organi genitali. È invece consentito correggere dubbie o miste come l’ermafroditismo, vero o falso, in ogni caso con una valutazione delle possibilità tecniche e delle altre implicazioni collegate (pp. 167-168.
Trapianti:
La donazione di organi da persona vivente non è in linea di massima consentita se il prelievo mette in pericolo l’offerente, anche se il trapianto serve per salvare una vita. Tuttavia a questo principio sono ammesse delle deroghe quando il rischio connesso alla rimozione è ridotto e per donazioni particolari (ad esempio da padre a figlio). Si tratta di un problema comunque ancora molto controverso. Il prelievo di organi da moribondi, anche se consenzienti, è proibito.
Non è permesso ritardato in modo artificiale il decesso del donatore per preparare l’accettore all’intervento.
Un orientamento prevalente tra i decisori considera proibito il prelievo di organi da cadavere, in assenza di un esplicito consenso del donatore in vita. Secondo la stessa linea non è considerata obbligatoria (mitzwà) una tale disposizione per il proprio corpo in vita (p. 172). [Esistono in merito opinioni differenti che considerano meritoria la donazione: cfr. Avrahan Soper, vol. 2, 131].
Malattie mentali:
Il malato pericoloso per sé o per gli altri è considerato come malato in pericolo di vita; è pertanto consentito intervenire se necessario per curarlo anche di Sabato.
Farmaci:
Per il pericolo connesso con l’uso inadeguato e inesperto di farmaci la halakhà proibisce l’assunzione di medicine senza prescrizione medica, ammonendo alla massima attenzione i farmacisti in particolare, e in generale tutti coloro che danno o prendono medicine senza consultare esperti.
Il prezzo delle medicine deve essere contenuto.
I farmaci e le medicine consigliati in antichi testi sacri – come il Talmùd, non sono considerati appropriati per i nostri tempi e non vanno provati (p. 184).
Dieta iposodica:
Ai malati ai quali è imposta la riduzione del sale nella dieta è consentito, nella preparazione della carne kashèr, ridurre il tempo di salatura a 18 minuti soltanto (p. 185).
Eutanasia:
È proibita qualsiasi azione tendente ad affrettare la morte di un moribondo, anche se soffre di forti dolori, e anche se non c’è alcuna speranza di salvarlo e egli stesso chiede di affrettare la morte.
Al medico è proibito suggerire al malato come affrettare la sua morte.
È consentita la somministrazione di sostanze anestetizzanti ai moribondi che soffrono di forti dolori, anche se possono avvicinare il momento della morte, purché la somministrazione sia finalizzata al sollievo della sofferenza e non ad accelerare il decesso.
È proibito mettere in opera mezzi artificiali per prolungare la vita ai moribondi in fase terminale. Un caso di particolare complessità è quello dei moribondi collegati a respiratore automatico: se il respiro e il battito cardiaco sono interrotti si può staccare l’apparecchio ed è proibito reinserirlo. Un sistema pratico suggerito è quello di collegare il respiratore a un dispositivo di interruzione automatica periodica; se durante l’interruzione il malato dà segni di vita, si riavvia l’apparecchio, altrimenti lo si spenge (pp. 203-204).
Il momento della morte:
Il momento della morte è stabilito quando cessano la funzione cardiaca e quella respiratoria; tali attività devono essere valutate con le apparecchiature più sensibili. L’interruzione dell’attività cerebrale, quando il cuore ancora batte, non può essere considerata morte. Questi criteri valgono per qualsiasi causa di morte.
Medici e infermieri presenti al momento del decesso non sono tenuti ad eseguire la qerià (lacerazione della veste) (p. 206).
Sperimentazione sull’uomo:
Sottoporsi volontariamente a sperimentazioni mediche, quando dagli esperimenti è previsto un beneficio generale nelle conoscenze mediche, è un’azione meritoria, ma nessuno può essere costretto a offrirsi volontario per questi esperimenti. Il principio è valido quando l’esperimento non comporta alcun rischio per la salute o l’integrità del volontario, altrimenti, in caso di pericolo, è proibito (p. 215).
Rischio connesso alla medicina:
In linea di principio è proibito mettere la propria vita in pericolo per salvare altri; questa regola ha però numerose eccezioni: ad esempio al medico è consentito rischiare la propria salute per curare malati infettivi, anzi la sua azione è considerata della massima importanza. Così anche il medico militare (e ogni altro soldato) interviene per portare aiuto a un soldato ferito in zona esposta al nemico (p. 233).
Medicina e halakhà / 3: Come nasce una regola oggi
Circoncisione sotto anestesia
Domanda:
Quando un adulto si converte all’ebraismo è permesso sottoporlo ad anestesia generale prima della circoncisione? Così anche è permesso anestetizzare prima della circoncisione un ebreo che per un qualsiasi motivo non è stato circonciso da piccolo?
Risposta:
I problemi collegati a questa domanda sono:
A. Nello Shulkhàn Arùkh (Orach Chajim 64:4) è stabilito che i precetti devono essere osservati intenzionalmente (mitwòth tzerikhòth Kawanà) e chi dorme non può stare attento all’esecuzione di quel precetto. Tuttavia:
1) Nel precetto della circoncisione l’atto spesso viene eseguito dal circoncisore, che è quindi sveglio e fa attenzione all’osservanza della norma. E anche se diciamo che è necessaria una procura, e che il circoncisore opera solo come procuratore del circoncisore dorme.
2. Secondo alcune opinioni non è necessaria la procura né l’intenzione della circoncisione.
3. Nel precetto della circoncisione la cosa fondamentale è che il segno rimanga impresso nella carne, e il precetto consiste nell’essere circoncisi; pertanto non c’è alcun divieto a fare l’operazione in anestesia.
B. Un’autorità ha scritto che il precetto della circoncisione deve essere osservato proprio con dolore. L’Autore della risposta respinge questa posizione, e ritiene che il dolore non è essenziale nella circoncisione; fintanto che la circoncisione è espletata secondo la regola il dolore non è una questione di rilevante interesse.
Conclusione:
“Pertanto ritengo che di regola è consentito perfettamente circoncidere un adulto, che per qualsiasi motivo non è stato circonciso da piccolo, sotto anestesia generale; così anche è permesso circoncidere chi si converte all’ebraismo con anestesia, e così abbiamo fatto praticamente a Gerusalemme con l’accordo dei membri del tribunale rabbinico dell’anno 5723 (1963)”.
(Rav Ovadia Josef, Noam, vol. 12, p. 1-10).
Malattie mentali e diritto matrimoniale:
L’autore discute questi casi:
1. Domanda:
Il malato affetto da mania depressiva, sotto terapia medica, è in grado di divorziare dalla moglie? (Si tratta di verificare se è in possesso delle capacità mentali per eseguire liberamente questo atto).
Risposta: Il Talmùd (B Chagigà 3b) definire il malato di mente (shotè) mediante quattro sintomi: chi esce solo di notte, dorme al cimitero, si lacera la veste e distrugge tutto ciò che gli viene dato. I decisori discutono alcuni problemi fondamentali legati alla definizione: se è necessario la contemporanea presenza di tutti e quattro i criteri, o se ne basta uno solo; qual’è poi la regola con sintomi di malattia mentale non compresi tra i quattro classici; se la definizione di shotè si applica in ogni situazione, o se bisogna distinguere tra il diritto matrimoniale, l’invalidità a testimoniare e l’esenzione dall’osservanza dei precetti. La conclusione dell’Autore è che l’opinione della maggioranza dei decisori tende a dire che chi è malato presentando un solo sintomo, anche se è considerato invalido a testimoniare ed è esente dall’osservanza delle mitzvòth, malgrado questo può contrarre matrimoni e ordinare dei divorzi validi.
2. Domanda:
Una malata affetta di schizofrenia paranoica, sotto terapia medica, può essere in grado di accettare validamente il ripudio dal marito?
Risposta: Il Talmùd (B Jevamòth 112 b) stabilisce che è impossibile ripudiare la malata di mente. Nella definizione il Talmùd stabilisce due criteri: la donna che non è i n grado di custodire il suo documento di divorzio e la donna che non è in grado di badare a se stessa, nel senso che non sia in grado di proteggere il uso corpo da abusi sessuali. Secondo questa definizione ne consegue che è impossibile ripudiare una donna che è ora malata ora sana, anche quando è sana, e ciò perché potrebbero abusarne nel momento in cui la malattia si riaffaccia. Tuttavia l’autore dimostra che in ciò si può essere facilitanti, in particolare quando vi siano medicine in grado di proteggerla dall’abbandono in caso di malattia, e pertanto consente di divorziare nel momento in cui la donna è sana.
(HaRav B. Baz, Noam, vol. 16, 5733, pp. 161-179).
Medico Cohèn e malato in punto di morte
Domanda:
Un medico Cohen può entrare in casa di un malato sul punto di morte per curarlo? (Si tratta di verificare se il divieto per i Cohanim di avvicinarsi ai morti sia derogabile in questo caso).
Risposta: Tra i decisori vi sono opinioni discordi se sia permesso a un Cohèn medico entrare da un moribondo per occuparsi della sua cura. Nei suoi responsa Chatàm Sofèr (Cheleq Jorè Dèà, 338) scrisse che anche secondo l’opinione di coloro che proibiscono al Cohèn di entrare in casa di un moribondo, per principio, ciò è tuttavia permesso perché si potrebbe salvare una vita, e quindi il medico può entrare e curare, a condizione che si veda che c’è bisogno di medico. Ma se là è disponibile un altro medico (che possa prendere il posto del Cohèn) il caso è dubbio, e la domanda dipende dal problema controverso se le regole della Torà in caso di pericolo siano abolite – e allora sarebbe permesso –, o solo sospese – e allora sarebbe proibito.
L’autore del Pitchè Teshuvà (Jorè De’à 370) respinse il sistema del Chatàm Sofèr, sostenendo che l’entrata è permessa in ogni caso e che questa domanda non dipende dal problema sopra citato. La sua spiegazione si basa sul principio esposto in Jorè De’à (221:4) per cui “non da ogni uomo si può meritare di essere guariti” (e quindi ogni medico è necessario e insostituibile).
L’Autore sostiene che in questo l’autore del Pitchè Teshuvà ha sbagliato, perché il dubbio “che non da ogni uomo si può meritare di essere guariti” vale per il medico Cohèn come per ogni altro medico (…), perché forse proprio da un altro medico (non Cohèn) il malato potrà trovare guarigione.
Conclusione:
Quando non c’è) un altro medico, il medico Cohèn ha il permesso di accedere da un malato moribondo e curarlo; quando vi è un altro medico la questione è legata alla controversia sul principio se in pericolo di vita le regole della Torà siano abolite o sospese.
(Shut Machazè Avrahàn, 2, Cheleq Jorè De’à, 19).
(sintesi di domande e risposte rituali – Sheelòt ut-shuvòt –tradotto da Assia, p. 307-312)
Per saperne di più
Esiste una vasta bibliografia sul tema dei rapporti tra medicina e Torà, che in questi ultimi anni si è progressivamente allargata. Un inquadramento fondamentale dal punto di vista storico e comparativo è quello di Immanuel Jakobovitz, Jewish Medical Ethics, pubblicato prima in inglese e poi tradotto in ebraico (haRefuà wehaJahadùt, Mossad Harav Kook, Jerusalem 1966). Il testo contiene anche un’importante guida bibliografica. Un’antologia che raccoglie fonti rabbiniche di epoca talmudica e medioevale, divisa per argomenti, è di Menahem Asaf, Medicine in Judais Sources (HaRefuà beMeqoròt, Rubin Mass, Jerusalem, 1982).
Sono diffuse numerose pratiche di comportamento. Per il Sabato e i problemi della medicina attuale sono una guida eccellente i capitoli relativi in Yehoshua Y. Neubert, Shemiràth Shabbath kehilkhatà; feldheim, Jerusalem, 1965. Una sintesi molto utile e documentata della poderosa opera responsoria di E. Woldinberg, pubblicata nei vari volumi shu’t Eli’ezer è stata redatta da Avraham Steinberg, Hikhòth Rofim uRfuà, Mossad Harav Kook, Jerusalem 1978. Una guida pratica di comportamento rivolta specificamente al malato e a chi lo cura di Avraham Sofer Avraham, Sefer Lev Avraham, in due volumi, Feldheim, Jerusalem, vol. I 1977, vol. II 1978. Un libretto di questo tipo ancora più sintetico, è di Barukh Jashar Schlichter, Lirfuà Shemelà, Kiriat Noar, Jerusalem, 1973. Raccolte più impegnative di discussioni rabbiniche su problemi medici di attualità sono, tra le altre: Avraham Steinberg, Assia, Rubin Mass, Jerusalem, 1979, a cura de The Dr. F. Schlesinger Institute for Medical Halachic Research at ShaareZedek Hospital, Jerusalem; la raccolta a cura di Moshè Hershler, Halakhà uRfuà Regensberg Institute, Jerusalem-Chicago, di cui sono usciti finora tre volumi: I 1980, II 1981, III 1983. Esiste anche una rivista specializzata per questo argomento.
Il materiale in lingua italiana è poco. Segnaliamo di Menachem E. Artom “Le autopsie secondo la Halakhà”, Annuario di Studi Ebraici, 1968-69, pp. 79-88; “L’aborto secondo la concezione ebraica>1, Rassegna Mensile d’Israel, maggio-giugno 1975.
Nello stesso numero di Machanaim, citato nell’articolo “Medici ebrei italiani nel periodo del Rinascimento”, a p. 18, compaiono altri otto articoli sul tema “Medicina nell’ebraismo”: il trapianto del cuore secondo l’halakhà; la storia della medicina presso gli ebrei; la medicina nel periodo della Bibbia; la medicina nel pensiero dei dottori del Talmùd; il compito del medico secondo il Ben Sirà; Maimonide come medico e scrittore di medicina; la guarigione nell’insegnamento di Maimonide; il rapporto tra leggenda o saga e medicina e medici ebrei nel periodo del Rinascimento.
Anche il n. 123 della stessa rivista pubblica articoli sullo stesso tema.
Dal punto di vista storico sono fondamentali i lavori di Friedenwald, tra cui si segnala The Jews and Medicine, 3 voll., Baltimora 1944; v. anche A. Milano, Bibliotheca Historico–Judaica, Firenze 1954, p. 56, n. 806-811.
Itinerari ebraici/1
Questo itinerario si snoda in una zona che, fino all’inizio di questo secolo, è stata disseminata di centri ebraici minori. Ciò fu dovuto alla storia particolare dei luoghi, in quanto gli ebrei furono espulsi dal ducato di Parma e Piacenza, che papa Paolo III aveva destinato alla propria famiglia, i Farnese, nel 1545. Gli ultimi ebrei lasciarono Piacenza nel 1570, sparpagliandosi in numerosissimi centri minori, dove svolsero l’attività preminente di prestatori di denaro. Ancora all’inizio dell’800 era loro vietato risiedere nella capitale.
L’itinerario è, in un certo senso, simbolico, in quanto più che le vestigia del passato, si visita una zona che, per la disposizione e la vicinanza dei centri, assomiglia agli insediamenti ebraici dell’Europa nord-orientale, più che a quelli della zona mediterranea che erano essenzialmente insediamenti urbani.
Rimangono fuori dall’itinerario consigliato centri di interesse storico, dove il passaggio ebraico rimane fissato su qualche pietra, o nella memoria dei vecchi, che ricordano gli ultimi ebrei di 80 anni fa.
Tra questi ricordiamo: Busseto (ex-sinagoga in via del ferro, immobile venduto; gli arredi sono a Gerusalemme; cimitero sulla strada per Cortemaggiore dopo il passaggio a livello); Viadana; Pomponesco; Revere; Sermide; Guastalla; Novellara; Colorno; Mirandola; Ostiglia; Montagnana.
Mantova: l’insediamento ebraico risale almeno al 1145 e si consolidò nei secoli seguenti. La sinagoga, di notevole interesse e ben conservata, si trova, insieme all’edificio della comunità, nella zona del vecchio ghetto in via G. Govi, 11. Vi si conserva un Aròn–ha–qòdesh del ‘500 in legno dorato. Sempre nella zona del ghetto è interessante la facciata della “casa del rabbino”.
Il cimitero antico, di notevole interesse, si trova, insieme a quello moderno, oltre il Mincio, all’uscita nord-occidentale della città.
La comunità è oggi composta di poche famiglie, mentre poco più di un secolo fa sfiorava le 3.000 unità.
Per informazioni e visita rivolgersi alla locale comunità: via G. Govi, 11 – tel. 0376/321490.
Dal centro di Mantova si pende poi la direzione sud-ovest e per la ss. 420, dopo aver attraversato l’Oglio, si giunge a Sabbioneta, singolare cittadina voluta dal duca Vespasiano Gonzaga (1531-96) che ne disegnò la pianta.
Sabbioneta è tuttora racchiusa da una cinta muraria a forma di stella, e conserva i tesori d’arte che il duca aveva voluto per la sua capitale. Gli ebrei vi giunsero chiamati proprio dal duca Vespasiano che aveva bisogno di prestiti per l’edificazione della città. Sabbioneta fu sede fin dal 1551 di una importante stamperia ebraica che pubblicò tra l’altro la prima edizione a stampa di “Mirkevet–ha–Mishneh” di Isaac Abrabanel.
La sinagoga, costruita nel 1824, si trova in un edificio con porticato su strada, a pochi passi dalla piazza, che si integra perfettamente con il carattere cittadino. La struttura è attualmente lesionata in modo preoccupante e la visita potrebbe essere limitata al solo primo piano (rivolgersi alla portiera). L’interno conserva un aspetto solenne; tevà e bimà sono riunite sulla parete orientale; l’arredo è ancora costituito dagli antichi banchi di legno, mentre la zona dell’aròn, cui si accede per un bel cancelletto di ferro battuto dorato, ha tuttora l’aspetto prezioso che dovette caratterizzare i tempi in cui la comunità raggiunse il massimo splendore. Il matroneo, al piano superiore, non è visibile dato lo stato in cui versa l’edificio.
Lasciando il piccolo borgo, per una strada sterrata che si pende subito fuori delle mura in direzione del Po, dopo circa 500 metri si arriva (se ne scorgono appena sulla sinistra i muri perimetrali sconnessi) al piccolo e bisastrato cimitero, oggi utilizzato come discarica di rifiuti, rimaste a testimoniare l’esistenza passata delle comunità e a denunciare lo stato di degrado cui giungono, privi ormai di manutenzione, gli antichi, raccolti cimiteri delle comunità estinte.
Si esce da Sabbioneta prendendo di nuovo verso nord. Dopo pochi chilometri si arriva a Bozzolo, che accolse gli ebrei mantovani prestatori di denaro nel 1630, in fuga da Mantova saccheggiata da milizie straniere.
Nel 1700 esisteva a Bozzolo una piccola ma fiorente comunità, con la sua sinagoga al centro del quartiere ebraico, e la macelleria casher, che nel paese ricordano ancora in funzione all’inizio di questo secolo. L’edificio della comunità è stato venduto circa 20 anni fa ed è ora adibito ad abitazione. Rimane, diroccato e in stato di abbandono, accanto ad una ditta di demolizione d’auto, il piccolo cimitero, con tre lapidi residue coperte da arbusti (subito fuori dell’abitato in direzione di Piàdena).
Si prende poi la ss. 10 piegando a destra dopo pochi chilometri verso Pescarolo, fino a giungere a Ostiano, dove gli ebrei, perseguitati dagli altri abitanti, trovarono rifugio proprio all’interno del castello dei Gonzaga, che vince tuttora con le proprie mura una piccola area.
L’origine della comunità risale agli anni 1520-1530, quando gli ebrei vennero da Mantova per esercitare l’attività di pestatori di denaro. Il periodo più recente è stato invece improntato a pacifica convivenza, fino alla sua lenta estinzione avvenuta all’inizio di questo secolo. Nacque e visse ad Ostiano nel ‘700 il medico e filosofo Benedetto Frizzi. L’emancipazione portò addirittura ad Ostiano un sindaco ebreo, nella persona del rabbino della comunità. Era il 1860.
La sinagoga, diroccata, esiste ancora nel recinto del castello ed è stata di recente venduta alla signora Regonini (che abita nello stesso recinto; può consentirne la visita se non c’è pericolo di crolli). All’interno si può riconoscere la posizione dell’aròn e la scala di legno, non più praticabile, che saliva al matroneo. Il cimitero, piccolo ma ben conservato, con un discreto numero di lapidi, si trova poco fuori dell’abitato (chiedere indicazioni sempre alla signora Regonini).
Prendendo poi in direzione di Cremona si può fare un rapido giro per luoghi dove hanno dimorato in passato ebrei, scacciati dai centri maggiori di Parma e Piacenza rispettivamente nel 1488 e 1570, ma che oggi non offrono al visitatore nemmeno la possibilità della ricerca di un luogo o di un monumento.
Sono Monticelli d’Ongina, dove ancora si usa cucinare un piatto detto “pasta all’ebrea”; Cortemaggiore; Fiorenzuola d’Arda (gli arredi della sinagoga sono oggi a Milano); Fidenza, ex Borgo S. Donnino, che ospitò una fiorente comunità.
Da Fidenza si prende la direzione nord-est, si scavalca l’autostrada A1 Bologna-Milano e si arriva a Soragna, dove la piccola comunità ebraica fiorì dopo le espulsioni dai centri maggiori del 1488 e 1570. li ebrei esercitarono, come negli altri centri, l’attività di prestatori di denaro e parteciparono alla vita locale e, più tardi, a quella della nuova nazione italiana (un Tobia Levi è ricordato tra i caduti del Risorgimento).
La sinagoga, inaugurata il 22 ottobre 1855, è in stile neoclassico, con eleganti colonne e capitelli corinzi (stucchi di A. Rusca), decorazioni sui soffitti con motivi floreali, oggetti rituali e strumenti musicali tradizionali, opera dell’artista locale Giuseppe Levi. Belle le porte dell’aròn e le grate del matroneo, in bronzo dorato come i grandi candelabri. La sinagoga è stata restaurata di recente sotto la tutela della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici dell’Emilia. Nello stesso edificio ha sede anche un piccolo museo ebraico di notevole interesse, che raccoglie testimonianze delle piccole comunità della zona (documenti, libri, oggetti di culto, documentazione fotografica, ecc.), e che rappresenta un caso particolare per la sua funzione di testimonianza locale, in un luogo dove non abitano più ebrei.
L’orario del museo è il seguente:
– da aprile ad ottobre: domenica, mercoledì, giovedì, ore 9-12; 15-19;
– da novembre a marzo: solo domenica: ore 9-12; 14-17.
Indirizzo: via Cavour, 43 – 43019 Soragna; tel. 0524:69114-69104-69851.
Per ulteriori informazioni rivolgersi a: Fausto Levi, via Fonderie, 5 – 43100 Parma; tel. 0521/29713.
Lasciando Soragna si percorrono strade provinciali a Parma, che ospitava già molti ebrei alla fine del XV secolo. Essi esercitavano l’attività di pestatori di denaro e subirono un forte colpo quando nel 1488 fu eretto il Monte di Pietà; su incitamento del predicatore Bernardino da Feltre acerrimo nemico degli ebrei. Già si è detto dell’espulsione degli ebrei da Parma proprio nel 1488. Solo dopo alcuni secoli, intorno al 1815, ci fu un’inversione di tendenza e il flusso riprese in direzione del capoluogo. Prima del 1851 esisteva solo un oratorio privato, mentre l’attuale sinagoga fu inaugurata nel 1866 (in quell’anno gli ebrei residenti in città erano 300). Le officiature regolari si tennero fino al 1921-22 e da allora sono irregolari (gli ebrei sono oggi poche decine).
La visita del tempio, dei locali della comunità, è di notevole interesse. Per informazioni ci si può rivolgere a Fausto Levi (v. indirizzo e tel. nella voce Soragna).
Di notevole interesse ebraico è la collezione di manoscritti e libri conservati nella Biblioteca Palatina, in Piazza della Pilotta. Una curiosità storica è nel transetto del Duomo, a destra, la Deposizione di Antelami, opera che a parte il suo noto valore artistico è tra le più antiche a rappresentare il contrasto tra la chiesa trionfante e la Sinagoga.
(a cura di Luca Fiorentino, della commissione beni culturali dell’UCII).