A che serve una comunità? (S. Servi) |
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Non andare qua e là sparlando (Levitico XIX, 14) (S. Servi) |
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Indice Alef Dac |
Pregi e difetti di una struttura in crisi
«Comunità», sociologicamente, termine assai ambiguo. I dizionari riportato «gruppo di persone che hanno comuni origini, idee, interessi o consuetudini di vita»; ognuno di questi termini («origini» «idee» «interessi» «consuetudini di vita») è, a sua volta, fonte di possibili equivoci e il verificare quando queste «origini» «idee» ecc. siano comuni è opera ben ardua. Grandi filosofi politici hanno individuato una contrapposizione tra «comunità» rimane associata l’idea di una composizione omogenea dove a quello di «società» si riconosce una forma contrattuale tra entità, per definizione, eterogenee. Un moderno sociologo ha individuato, nella sola letteratura anglosassone, novantaquattro definizioni di «comunità»; sfrondando tutto ciò che era contingente, l’unico denominatore comune di queste definizioni era il seguente: «la comunità è una collettività i cui membri sono legati da un forte sentimento di partecipazione». Un autore, interrogandosi su cosa significhi questo «forte sentimento di partecipazione» si chiede «La partecipazione, per esempio, è la possibilità di prendere parte, in una forma o nell’altra, alle decisioni che il gruppo deve prendere in comune.? Consiste nell’esser sempre al corrente di tutti gli avvenimenti e delle decisioni importanti nella vita del gruppo? È il diritto di essere consultato, di formulare proposte e reclami, di prendere parte alle delibere? O è il diritto di decidere insieme con gli altri su tutti gli affari comuni? O ancora è il diritto di gestire, direttamente e con gli altri, gli interessi comuni. O, infine, tutto questo nello stesso tempo?…».
A questo, letto da poco (sulla Enciclopedia Einaudi), ripensavo meditando sulle nostre «comunità israelitiche» e cercavo di riconoscervi i tratti della quotidiana vita comunitaria. Arrigo Levi, interrogato in televisione sulla «solidarietà ebraica» (domanda insidiosissima e quasi antisemita) rispondeva con grande convinzione e con grande naturalezza che la «solidarietà ebraica» esiste, mentre io, al di qua dello schermo, mi chiedevo se mai Arrigo Levi avesse partecipato ad un’assemblea comunitaria: certo non a Firenze.
In che misura il gruppo ebraico costituisce una «comunità», anche ridotta all’osso di quel «forte sentimento di partecipazione»? In che misura l’appartenente «di diritto» (così dice la Legge, volendo dire «d’obbligo») partecipa alle decisioni del gruppo, è al corrente di tutti gli avvenimenti, esercita il diritto di essere consultato e di formulare proposte e reclami, prende parte alle delibere, decide insieme con gli altri, gestisce…? Certo, l’iscritto detiene il diritto-dovere di partecipare alle elezioni. MA questo è sufficiente? Quali sono i rapporti che intercorrono tra comunità come istituzione e comunità come popolazione? Qual è il grado di adesione della base alla politica condotta dal consiglio di una comunità? Quali esigenze la Comunità come istituzione cerca e riesce a soddisfare? Quali aspettative rimangono invece deluse? In una società in rapida evoluzione, caratterizzata da forti contrati e da drammatici conflitti, in una società competitiva e ansiogena come funziona e come potrebbe funzionare una comunità?
La comunità è, tendenzialmente, il luogo in cui si instaurano dinamiche interpersonali estremamente frustranti: nel momento in ci le barriere di difesa vengono abbassate ognuno è più soggetto a manifestare i propri limiti, più sensibile agli attacchi e ai rifiuti. Ma la soluzione non è quella di rinforzare le muraglie e di riscavare i fossati che separano individuo da individuo perché questo ha per unito effetto quello di incrementare il livello dell’aggressione. Ciò a cui si dovrebbe tendere è il rispetto dell’altrui individualità, l’accettazione del fatto, naturale e giusto, che non tutti gono uguali e che proprio la diversità arricchisce la vita comunitaria.
Le nostre comunità soffrono particolarmente di questo difetto: di stimolare il conformismo, di rifiutare l’apporto critico e il dissenso, con la tragica conseguenza di emarginare gli aspetti più creativi dell’individuo e gli individui più creativi del gruppo.
Dialogo anche nel pericolo
La comunità come istituzione dovrebbe preoccuparsi al massimo grado non di fabbricare il consenso ma di permettere e di facilitare la nascita e l’utilizzazione di nuovi meccanismi e di nuovi strumenti di analisi, di discussione e di partecipazione creativa di tutti coloro che vogliono esprimersi e che non lo fanno per timidezza, per paura, o semplicemente perché la comunità non prevede «luoghi» adatti a queste espressioni.
All’interno di una comunità si formano spesso piccoli «clan», a volte molto potenti, determinati da rapporti familiari, da comuni origini geografiche o da affinità economiche o professionali. Essi esercitano generalmente un effetto distruttivo perché l’adesione ad un’idea o ad un programma messo in discussione avviene allora soprattutto a causa di queste «clientele» e non più sulla base di una valutazione razionale libera da pregiudizi. L’interesse stesso della comunità passa allora in sott’ordine rispetto alla volontà di affermare il potere e il prestigio di questo o di quell’esponente.
Le nostre comunità hanno vissuto a volte momenti eroici, soprattutto quando qualche forza esterna ha minacciato la loro stessa sopravvivenza o quando si trattava di cominciare a ricostruire. In quei momenti il sentimento di adesione è massimo: ognuno ha la coscienza netta della funzione e degli scopi comuni a tutto il gruppo. Ma è quando tutto sembra tranquillo e si devono affrontare solo problemi quotidiani che le forze centrifughe tendono a superare il potere di aggregazione. Le tensioni e i conflitti interni costituiscono una minaccia continua alla solidarietà e si perde il senso della responsabilità collettiva. Ma di fronte sia ai pericoli eterni, sia alle divergenze interne, il modo peggiore di reagire è quello di chiudersi ermeticamente in un sistema di credenze e di comportamenti troppo angusto che non tollera il dialogo e il confronto; la presunzione settaria di essere, sempre e comunque, nel vero, tipica di alcuni gruppi comunitari, lontano dal salvaguardare la sopravvivenza ne provoca non di rado la morte per asfissia.
Il contatto con l’esterno, spesso così temuto e così accuratamente evitato, può adempiere all’utile funzione di confronto e può catalizzare processi interni di crescita e di maturazione. Ma è soprattutto all’interno della comunità che è necessario moltiplicare le occasioni di frequentazione pubblica; le cerimonie ufficiali e le celebrazioni con le autorità hanno la loro importanza, ma nell’ambito comunitario devono potersi svolgere anche riunioni di lavoro, incontri momenti di scambio e di dialogo.
La rarità di queste occasioni fa sì che oggi esse siano caratterizzate da un’atmosfera pesante, carica di tensioni, di rivalità, di sospetti, di rancori, di volontà di dominio, di autoritarismo. Possono e devono essere studiati i mezzi migliori, offerti dalle moderne tecniche di dinamica di gruppo, per facilitare l’accesso di tutti alla discussione, alla individuazione chiara delle modalità e degli obiettivi che la comunità si propone.
Reagire alla crisi
Alcune comunità (o forse anche tutte in Italia) vivono attualmente situazioni di crisi demografica, religiosa, economica. Proprio in queste situazioni l’imperativo deve essere quello di non cedere allo scetticismo, alla depressione, al pessimismo. Anche nelle situazioni più disperate si ha il dovere, religioso e civile, di affrontare con serenità la realtà quotidiana combattendo se non altro per contenere le perdite, ma a volte anche per conseguire delle vittorie: piccole comunità ebraiche sono sopravvissute in situazioni estremamente critiche per secoli grazie alla solidità dei legami interni, alla consapevolezza dei valori comuni, alla volontà di soddisfare collettivamente le esigenze e i bisogni di tutti.
I responsabili delle comunità svolgono il loro ruolo tra mille difficoltà e spesso con grande abnegazione, ma sono portati anche a commettere molti errori: il primo è quello di erigere una barriera tra se stessi e la base comunitaria. Ci sono presidenti e consiglieri di comunità sempre indaffarati, inaccessibili, sempre nascosti dietro la maschera di prestigio, di potere e di legalità burocratica: parlano, tengono prolusioni e relazioni, ma difficilmente ascoltano, e, se costretti ad ascoltare (magari una volta l’anno) raramente si preoccupano di capire quello che viene loro esposto. Eppure anche l’intervento più contestatario contiene generalmente qualche utile suggerimento e il sistematico eludere le critiche costituisce la principale causa di malcontento e di opposizione. La ricerca di un banale unanimismo, ottenuta più che altro con l’emarginazione dei dissenzienti, dovrebbe cedere il posto alla volontà di coinvolgere nei momenti decisionali e in quelli esecutivi, il maggior numero di persone, tenendo conto del contributo di tutti e sottoponendo concretamente a verifica il proprio operato e i programmi elaborati per il futuro.
S.S.
Anatomia di una comunità italiana/1
Sette secoli di presenza illustre
Presenze ebraiche più o meno sporadiche a Firenze possono essere ipotizzate fin dall’epoca romana, ma è dal 14° secolo che risulta storicamente attestata, da documenti certi, l’esistenza di elementi ebraici nella città.
Del 1430 è un documento ufficiale della Repubblica fiorentina con il quale si invitano alcune famiglie ebraiche a stabilirsi nella città per esercitarvi il prestito su pegno, allo scopo, espressamente dichiarato, di sollevare i poveri della città dalle eccessive usure dei prestatori cristiani. La vita di questa piccola comunità, costituita da poche famiglie di prestatori, è strettamente legata alle vicende fiorentine: gli ebrei sono protetti dai Medici, vengono così espulsi a più riprese quando prevale la fazione popolare e riammessi con il ritorno del governo aristocratico.
In seguito all’espulsione dalla Spagna e dal Portogallo anche la comunità di Firenze è interessata da un certo flusso migratorio sefardita, il duca Cosimo I, su consiglio di Jacob Abrabanel, promulga nel 1551 una carta di privilegi, indirizzata a «Greci, Turchi, Mori, Ebrei, Armeni e Persiani» con la quale si garantiscono particolari facilitazioni giuridiche e commerciali a tutti gli «orientali» che decideranno di stabilirsi nel territorio dello stato. Si forma così a Firenze il primo nucleo di ebrei sefarditi che per molti anni conservano una struttura autonoma e una propria sinagoga. Ma se per più di tre secoli sopravviverà la sinagoga sefardita, mantenendo vitale il suo rito che sarà poi adottato dal nuovo «Tempio Maggiore» e costituirà il minhag ufficiale della comunità fino ad oggi, non si può dire che Firenze, come accadde a molte altre comunità coinvolte dall’immigrazione sefardita in quegli anni, si trasformi sostanzialmente: l’uso del judeo-spagnolo, il folklore, i canti tipici che si ritrovano in tutte le comunità sefardite scompaiono, l’elemento italiano è, economicamente e culturalmente, altrettanto vigoroso di quello spagnolo, la comunità, compatibilmente con la situazione politica e religiosa del tempo, è ben inserita nella vita cittadina, gli ebrei italiani parlano italiano, o meglio un «giudaico-fiorentino» oggi, purtroppo, completamente scomparso, ed è quindi la componente spagnola che si assimila e si integra con quella locale, che riceverà successivamente l’apporto di numerosi nuclei ebraici dei centri minori toscani, di stretta origine italiana (Monte S. Savino, Pitignano, ecc.).
La vita nel ghetto
La concessione della corona granducale, ottenuta dal Papa, induce Cosimo I a creare anche a Firenze un ghetto per gli ebrei che troverà luogo, per opera del celebre architetto Bernardo Buontalenti, nel pieno centro della città, in una zona compresa tra le attuali via Roma, piazza della Repubblica, via Brunelleschi e via de’ Pecori. All’interno del ghetto, come ovunque, gli ebrei si organizzano al meglio: la vita ebraica ferve attraverso le scuole, le istituzioni di assistenza e di beneficenza, le sinagoghe. Gli ebrei godono di una certa autonomia, eleggono un consiglio di 18 membri di cui tre a turno, sono i «Massari» che hanno il potere supremo e rappresentano la comunità di fronte all’autorità dello stato. Nel 1629, un’ulteriore carta di privilegi estende agli ebrei fiorentini facilitazioni e diritti già concessi dal granduca agli ebrei di Pisa e Livorno qualche decennio prima e con il passaggio del granducato alla dinastia dei Lorena, sovrani più moderni e illuminati, gli ebrei godono di ulteriori concessioni. Il ghetto rimane, ma molte famiglie vengono autorizzate ad abitare fuori di esso, acquistando anche degli immobili; il complesso stesso degli edifici del ghetto (possesso granducale) viene venduto ad una società formata da ebrei, che provvede ad affittare alle singole famiglie i vari appartamenti.
Nuova fioritura culturale
La stessa conquista napoleonica che altrove, anche in Italia, fa assaporare per la prima volta agli ebrei il gusto della libertà, viene accolta dagli ebrei fiorentini con una certa moderazione. Il ghetto viene definitivamente aperto nel 1848 ed è da questa data che inizia l’emancipazione legale, e poi economica e sociale, degli ebrei. Ma questa è ormai storia comune a tutti i nuclei ebraici italiani (Roma esclusa). C’è semmai da aggiungere che alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, la comunità fiorentina conosce una particolare fioritura culturale: all’ombra del nuovo Tempio Monumentale, costruito dal 1874 al 1882, e mentre l’antico ghetto viene demolito per far posto alle più eleganti strade del centro (da restituito»), si inaugura nel 1899 il Collegio Rabbinico e a Firenze vedono la luce tutta una serie di pubblicazioni, giornali e riviste culturali, animate dal Rabbino Margulies e da un’attivissima cerchia di discepoli.
La persecuzione nazifascista colpisce duramente la comunità che vede 248 suoi figli deportati o fucilati, e tra questi scompare il giovane Rabbino Capo Nathan Cassuto (figlio dello studioso Umberto), al quale molto recentemente il Comune ha intitolato una via cittadina. A lui è intestata anche la scuola ebraica.
(inchiesta e servizi a cura di Sandro Servi)
Maldicenza, diffamazione e libertà di stampa nella prospettiva della tradizione rabbinica
(Levitico XIX, 14) In che cosa consiste il divieto?
La frase che abbiamo messo come titolo di questo scritto è compresa nei primi versetti della Parashà di Qedoshimo, in quel complesso di norme, svariatissime come contenuto, che sono spesso designate dai moderni come «codice di santità»; meglio sarebbe, per rendere più esattamente il termine «Qedushà» chiamarlo «codice di elevazione morale» o «codice di nobiltà dello spirito». Comunque, la Torà si è preoccupata di inserire tra queste norme il divieto di sparlare – essa vede cioè come elemento della nostra Qedushà, tra l’altro,che ci asteniamo dal vizio di sparlare del prossimo.
Che cosa significa, nel senso voluto dalla nostra tradizione, «sparlare»? È evidente, prima di tutto, che in questo concetto non è compreso – o non è compreso solo – il calunniare il prossimo, nel senso cioè di dire cose cattive false: un’azione di questo genere è già proibita da una frase di portata più ampia, pure compresa nei primi versi di Qedoshim: «Non mentite» (Levitico XIX, 11) e già in un passo precedente della Torà (Esodo XXIII, 7): «Da ogni parola menzognera ti terrai lontano».
Il divieto di sparlare è cioè molto più ampio; dobbiamo astenerci non solo dalla calunnia, ma anche dal riferire cose vere, che possano mettere in cattiva luce il prossimo.
Il «Chafez Chajim»
I Maestri hanno ampiamente sviluppato questo tema, considerando che l’educarci a evitare di sparlare del prossimo è un elemento di primissimo ordine per la nostra elevazione morale – anche se a prima vista, chiacchierando del più e del meno, può apparire come un elemento di maggiore interesse, come un elemento piacevolmente piccante nella conversazione, il condirla con qualche piccola malignità sul prossimo, col riferire episodi o particolari di una condotta altrui non esemplare.
Chi ha sviluppato in maniera assai ampia il tema è stato uno dei più grandi ritualisti delle ultime generazioni, scomparso mezzo secolo fa, Rabbì Israel Meir Ha-Kohen di Radin, autore di un diffusissimo commento alla prima parte del Shulchan ‘Arukh, dal titolo «Mishnà Berurà» e, nel campo che trattiamo adesso, addirittura di due volumi, l’uno del titolo «Shemirath ha-Lashon» (ossia: Guardarsi da come si parla!) e l’altro «Chafez Chajim» (ossia: desideroso di vivere); il titolo di quest’ultima opera accennai ai v. dei Salmi (XXXIV, 13-14) che dicono: «L’uomo che desidera la vita e che ama lunghi giorni in cui vedere il bene, trattenga la sua lingua dalla maldicenza»; questa opera è stata considerata così importante e fondamentale, che l’autore di essa è noto assai più come Chafez Chajim che con il suo nome.
Gli scritti surricordati si basano, naturalmente, sul Talmud e si ritualisti antichi e moderni, e se si vuol cercare di riassumere i punti principali in poche righe, come è necessario fare in un articolo di questo genere, si può dire:
1) Qualunque discorso, in cui l’uno riferisca all’altro qualcosa che riguarda una terza persona, e che possa in qualsiasi modo metterla in cattiva luce, è assolutamente proibito;
2) Chi ascolta una persona che contravvenga al punto 1 è altrettanto colpevole, ed ha il dovere di richiedere ad essa dicessero di fare tali discorsi – e se questa non gli dà retta, è tenuto ad allontanarsi in modo da non sentire quello che essa dice;
3) Si deve evitare anche di fare discorsi in cui si dica eccessivamente bene del prossimo, in quanto chi sente eccessive lodi, può esser portato, per una certa reazione psicologica, a cercare qualcosa di male da dire sulla persona elogiata – e così chi aveva elogiato causa di fatto che si faccia maldicenza;
4) In deroga a quanto detto sopra, è lecito riferire a terza persona qualcosa che riguarda il prossimo, quando il riferirla è necessario per il bene del prossimo o per evitargli danno; per esempio, è permesso dare informazioni matrimoniali (si intende, sempre rispondenti a verità) per facilitare le nozze, o per impedire che una persona si sposi con un candidato disadatto; è permesso dare informazioni sull’onestà o meno di una persona ad altra persona che sia in procinto di entrare in rapporti commerciali con quella;
5) I divieti riguardanti il riferire cose che riguardano una terza persona vigono non solo nei rapporti orali, ma a maggior ragione quando si tratta di scritti, in quanto la parola scritta si trova per sua natura a disposizione di un numero maggiore di persone che non una conversazione; in genere: quante più sono le persone che possono venire a conoscenza di quanto viene riportato su altri, tanto più grave è la colpa;
6) I divieti di cui sopra sono in vigore anche se la persona di cui si sparla è presente ed ha modo di difendersi;
7) Il divieto di sparlare vige anche rispetto alle persone che non sono più in vita.
Si può quindi concludere che la morale ebraica esige che ogni individuo (e naturalmente in questo campo non c’è differenza tra uomo e donna) si astenga dal riferire qualsiasi cosa che riguarda il prossimo, tranne nei casi in cui la cosa sia necessaria per far del bene a qualcuno o per evitargli danno. È però superfluo dire che il fare testimonianza di fronte ad un tribunale legalmente costituito non è una contravvenzione al divieto di sparlare del prossimo, ed è anzi dovere di chiunque possa, riferendo quello che sa, contribuire a che si faccia giustizia.
La colpa dello sparlare è così grave che i Maestri l’anno paragonata nientemeno che all’omicidio; ed il Chafez
Chajim, con una delle significative iperboli così caratteristiche dei Maestri, dice che chi sparla è più colpevole dell’omicida; quest’ultimo, infatti, con un unico atto, tronca la vita del prossimo e con questo è tutto finito; invece l’azione di chi sparla continua a fare nuovi effetti ogni giorno ed ogni momento, ed è come se lo sparlatore tornasse ad uccidere la sua vittima ogni volta che torna sulle sue parole e che altri le riferisce.
Libertà di stampa, propaganda politica, sentenze di tribunali
Da quanto abbiamo esposto sopra, apparirebbe che molte abitudini della società moderna siano in contrasto con la Mizvà della Torà di astenersi dal dare pubblicità ad atti compiuti da certe persone; che sia proibito ai giornali pubblicare quelle che generalmente si chiamano «notizie di cronaca» e le colonne dei «pettegolezzi» e che sia proibito a noi leggere quelle notizie; che, in sede di propaganda politica, o in modo speciale di campagna elettorale,sia proibito mettere in rilievo difetti o colpe di avversari politici; che sia proibito dare notizia sui giornali, ed in genere di pubblicizzare, procedimenti giudiziari penali o civili, e che sia proibito ascoltare notizie in tale campo.
Essendo queste abitudini in grandissima parte prodotto della civiltà degli ultimi decenni o degli ultimissimi secoli, non vi si trova quasi nessun riferimento nella letteratura classica rituale ed anche il Chafez Chajim non vi accenna quasi.
Il tema però è stato oggetto di una ricerca del gruppo di studio della Società «Torath Chajim» di Gerusalemme, che ho l’onore di presiedere, e darò qui brevemente notizia delle conclusioni a cui tale gruppo ha credito di poter giungere, cercando di applicare alle nuove situazioni i principi che trapelano dalla giurisprudenza ebraica;
1) I giornali dovrebbero limitarsi a dare solo quelle notizie di cronaca, il cui contenuto può essere di utilità pubblica, qualora sia divulgato in ogni caso il giornale dovrebbe astenersi dal dare i nomi dei personaggi riguardanti il fatto di cronaca;
2) Il direttore responsabile o il redattore-capo di ogni giornale dovrebbe aver cura che la norma 1) sia applicata nel suo periodico; il giornalista dipendente dovrebbe far di tutto perché le sue corrispondenze rispondessero all’esigenza del punto 1) ed in nessun caso acconsentire che eventuali corrispondenze in contrasto con esso, volute dalla direzione o dalla redazione, portassero la sua firma;
3) Anche in campo politico ed elettorale andrebbe evitata per quanto possibile la divulgazione di notizie negative riguardanti rappresentanti del campo avverso (inutile dire che in ogni caso sarebbe proibita la divulgazione di notizie false od anche di cui non fosse provata in maniera assoluta la veridicità); potrebbe però esser considerata lecita la divulgazione di notizie sicure riguardanti avversari, qualora questi riguardino la capacità dell’avversario di adempiere agli uffici che desidera ricoprire omettano in guardia rispetto alla sua onestà in campo di cariche pubbliche; sarebbero da considerarsi come escluse dalla possibilità di divulgazione notizie riguardanti la vita privata ed intima di avversari;
4) Dovrebbe esser proibita la divulgazione dei nomi di sospetti od accusati di azioni illegali in campo penale e così pure la divulgazione dei nomi dei coinvolti in cause civili, fin a che non sia stata data la sentenza da un tribunale competente;
5) Le cause (analogamente a quanto avviene di solito nei tribunali rabbinici) sia civili che penali dovrebbero esser di regola discusse a porte chiuse, con la sola eccezione di causa in cui il tribunale giudicante stesso, per motivi di interesse pubblico, disponga diversamente;
6) Un caso di causa discussa a porte chiuse, il tribunale dovrebbe dare un comunicato allo svolgimento della causa e sulla sua sentenza: i giornali potrebbero pubblicare il comunicato, integralmente o parzialmente, o non pubblicarlo, a loro giudizio e potrebbero commentare liberamente il comunicato stesso, senza però dare i nomi delle parti in causa (in qualunque modo ne siano venuti a conoscenza), a meno che il tribunale non ne abbia autorizzata, o decretata, la pubblicazione, per motivi di interesse pubblico;
7) In casi di causa discussa a porte aperte, cioè nei casi in cui il tribunale ritiene che il dare pubblicità sia al dibattito che ai nomi delle parti in causa sia per il bene del pubblico, sarebbe lecito farlo senza altre limitazioni che quelle che il tribunale stesso eventualmente stabilisse.
Come comportarci in pratica?
È evidente che le conclusioni, a cui è arrivato il gruppo di studio, non possono avere effetto immediato sui singoli; in gran parte esse trattano «de jure condendo» e non «de jure condito», ed appunto i singoli non hanno nessun modo di influire perché si mutino le abitudini dei giornali e dei tribunali, o, per meglio dire, non possono influire su di esse direttamente ed immediatamente; naturalmente la possibilità esiste, ed è anzi un dovere, nel senso che ognuno deve sforzarsi per influenzare, attraverso l’esercizio dei propri poteri democratici, perché un’attività in tal senso si sviluppi e cerchi di essere accolta nella legislazione – in primo luogo e soprattutto nello Stato di Israele, ma anche nei Paesi della Diaspora, ché infatti un’influenza ebraica per elevare la morale pubblica di ogni popolo va senz’altro vista di buon occhio e considerata come un elemento che può avvicinare l’avvento dell’èra messianica; ma è superfluo dire chele probabilità di successo in tale campo sono minime, e va sempre ricordato che l’èra messianica giungerà per il bene di tutta l’umanità esclusivamente in seguito alla costituzione della società ideale, basata sulla Torà, nella Erez Israel libera ed indipendente.
Alcune categorie di persone, che rivestono cariche particolari, potrebbero applicare parzialmente alcune delle conclusioni, e mi riferisco qui a giudici, che dovrebbero sforzarsi al massimo, nei limiti della legislazione che applicano, perché sia dato il minimo di pubblicità ai nomi dei giudicati o dei contendenti; i giornalisti dovrebbero altrettanto far di tutto nell’esercizio della loro professione per evitare di cadere nella colpa di sparlare. La stampa ebraica, con aspirazione tradizionalista, dovrebbe attenersi scrupolosamente a quanto detto sopra, ed anche in questo modo sarebbe un efficace strumento di educazione alla morale ebraica.
Ma ogni singolo, qualunque sia la sua professione, la sua cultura, il suo livello sociale, economico, può e deve nella sua vita privata astenersi dal parlare die fatti altrui, tranne i casi già accennati in cui la cosa sia necessaria per tutelare interessi e per difendere il prossimo dall’essere ingannato; se in conseguenza di ciò le chiacchiere vane da salotto, che sono una delle occasioni più frequenti per cadere nella colpa di sparlare, non troveranno più argomenti su cui intrattenere, sarà ancora tanto di guadagnato; in modo speciale, se ognuno cercherà di dedicare il tempo, sciupato finora in chiacchiere di tal tipo, allo studio di Torà, all’approfondimento dei contenuti ebraici, della sua identità ebraica, il guadagno in campo morale sarà doppio.
Menachem Emanuel Artom
Il problema dei rapporti tra Torà e Scienza si è riproposto in questo secolo in maniera ancor più pressante che in passato. Il ruolo dominante che la scienza e la tecnologia svolgono nella nostra vita quotidiana ha inevitabilmente accentuato il confronto fra due visioni del mondo che da secoli vengono considerate, spesso a torto, antitetiche. Motivi di conflitto fra la Torà (o, più generalmente, fra la fede in Dio creatore del mondo e immanente nella storia) e la scienza nascono spesso da un’incomprensione della reale essenza sia della concezione religiosa che di quella scientifica. L’ignoranza dei fondamenti dell’una o dell’altra, e non di rado anche di entrambe le parti in apparente contrasto, ha portato a una situazione per cui buona parte di coloro che, in un modo o nell’altro, si occupano di scienza considerano superato e non più rilevante per il nostro tempo qualunque fenomeno attinente alla religione; viceversa, coloro che sono ancora attaccati a una religione guardano spesso con un sospetto alle teorie propugnate dalle scienze naturali e ancor di più ai loro conservatori.
L’ebreo può essere scienziato?
«… Eminenti scienziati molto spesso esprimono opinioni ingiustificate su questioni di filosofia e religione. Non solo mancano di sviluppare le loro attitudini mentali in queste direzioni, ma sono anche caduti nell’errore di equivocare la loro scienza con una filosofia.
Uno studioso ebreo di scienza deve essere conscio, all’inizio e durante tutta la sua carriera, del fatto che per realizzare la sua ricerca fondamentalmente legittima si trova in mezzo a gente che in larga, e forse dominante, parte ha mancato di conservare una visione legittima del soggetto, e che ha condotto l’umanità ad una situazione disastrosa. Gli uomini la cui autorità egli rispetta sull’oggetto stesso della ricerca hanno molto da imparare da lui – per quanto frammentaria sia la sua educazione morale – a proposito della valutazione dell’oggetto come anche della sua collocazione in uno schema generale di visione della vita.
La luce e il mistero
Le dottrine sulla creazione del mondo occupano nella Kabbalà un posto centrale. I kabbalisti, indagando nelle profondità del testo della Torà, interpretano lettere e parole, e persino gli spazi bianchi fra le parole, riallacciandosi a una catena ininterrotta di tradizioni trasmesse esotericamente dagli antichi maestri, giungono all’elaborazione di ardite concezioni su Dio e sulla nascita e la struttura del mondo. Esistono alcune rimarchevoli analogie fra le concezioni kabbalistiche e i risultati ottenuti dalla scienza moderna riguardo all’origine dell’universo.
È sabato: la scienza riposa
Nell’ottica particolare nella quale stiamo considerando il problema emerge chiaramente un discorso sulla scienza e la tecnologia. Questi sono per l’uomo gli strumenti a sua disposizione per esercitare il dominio sulla natura, un dominio che non solo è legittimo, ma risponde a un preciso dovere («riempite la terra e conquistatela» – Gen 1:28). Se l’uomo con questo è stato innalzato al rango di immaginare divina e continuatore dell’opera della creazione, non deve tuttavia dimenticare che comunque non può né deve per questo sostituirsi a Dio.
Il progresso della scienza ha esasperato il confronto; è possibile risolvere le contraddizioni?
Torà e scienza
Il problema dei rapporti fra Torà e Scienza si è riproposto in questo secolo in maniera ancor più pressante che in passato. Il ruolo dominante che la scienza e la tecnologia svolgono nella nostra vita quotidiana ha inevitabilmente accentuato il confronto fra due visioni del mondo che da secoli vengono considerate, spesso a torto, antitetiche. Motivi di conflitto fra la Torà (o, più generalmente, fra la fede in Dio creatore del mondo e immanente nella storia) e la scienza nascono spesso da un’incomprensione della reale essenza sia della concezione religiosa che di quella scientifica. L’ignoranza dei fondamenti dell’una o dell’altra, e non di rado anche di entrambe le parti in apparente contrasto, ha portato a una situazione per cui buona parte di coloro che, in un modo o nell’altro, si occupano di scienza considerano superato e non più rilevante per il nostro tempo qualunque fenomeno attinente alla religione; viceversa, coloro che sono ancora attaccati a una tradizione religiosa guardano spesso con sospetto alle teorie propugnate dalle scienze naturali e ancor più ai loro sostenitori.
L’opposizione alla religione da parte degli uomini di scienza è motivata in genere da considerazioni ideologiche, o presunte tali; da parte religiosa, al contrario, non c’è per lo più un’opposizione originata da motivazioni di principio. La scienza è descrizione della natura, e poiché sia la natura che la Torà sono opera dell’unico Dio, non ci può essere un’incompatibilità di base fra di esse. La differenza verso la scienza da parte di alcune cerchie religiose, non solo in campo ebraico e non solo nella nostra epoca, ha origine generalmente solo dal timore che l’accettazione di certe teorie scientifiche (per esempio, l’evoluzionismo), in evidente contrasto con un’interpretazione letterale della Bibbia, produca come conseguenza un indebolimento nella fede e nell’attaccamento ai precetti religiosi. Tuttavia, il risultato del rifiuto della scienza da parte religiosa è spesso l’opposto di quello desiderato, poiché il chiaro successo che la scienza ha nel mondo moderno (ancor più accentuato da una divulgazione non sempre corretta e onesta, e che spesso presenta la religione e la scienza come assolutamente alternative l’una all’altra) non ha difficoltà a far prevalere l’approccio scientifico su quello religioso agli occhi dei più.
Tre diverse soluzioni del problema
Il rapporto fra Torà e scienza può essere analizzato a vari livelli. Uno di questi consiste nel tentativo di risolvere il contrasto fra quanto narrato nella Torà e quanto accertato dalla scienza. In particolare, come è noto, secondo i primi capitoli della Torà il mondo fu creato in 6 giorni, e le specie animali e vegetali furono create ognuna individualmente e separatamente. La tradizione rabbinica, inoltre, stabilisce che la creazione accenne 5744 anni fa. Le teorie scientifiche attuali sostengono invece che l’universo esiste da circa 15 miliardi di anni, e che gli esseri viventi hanno avuto origine da un’unica forma vivente primordiale che si è evoluta diversificandosi in tutte le varie specie esistenti. La vita stessa si sarebbe originata mediante processi naturali, senza dover postulare un qualche intervento soprannaturale. Diversi approcci sono stati tentati per risolvere le contraddizioni; semplificando, essi si possono dividere in 3 gruppi:
a) il contrasto viene superato mediante la negazione di un qualsiasi intento scientifico (descrittivo della natura) da parte della Torà;
b) il testo biblico non viene interpretato letteralmente, e può quindi essere conciliato con le teorie scientifiche;
c) le teorie scientifiche in conflitto con la Torà vengono criticate in quanto deboli e non dimostrate.
A. Prima soluzione: La Torà non è un libro di scienza
Un’autorevole personalità del primo gruppo è Rav Elia S. Artom z.l., il quale ha affrontato il problema dei rapporti fra Torà e Scienza in «La nuova vita d’Israele» (Roma 1966, pp. 30-41). Egli distingue nella Torà due grandi parti: narrativa e legislativa. Per la parte narrativa, Rav Artom afferma che il «contenuto di essa, esaminato molto superficialmente, potrebbe essere designato come relativo alle scienze naturali ed alla storia, cioè come avente lo scopo di spiegare l’origine del mondo, o di narrare quello che è avvenuto. Niente di un erroneo, e la diffusione di questo errore ha avuto delle gravissime conseguenze: se si fosse sempre compreso, come è in realtà, la Torà nelle sue parti narrative non è libro di scienze fisiche e naturali né libro di storia… non si sarebbe preclusa la via a tante persone di genio di indagare nella natura e nella storia, facendo nascere in loro l’idea falsissima che le conclusioni delle loro ricerche potessero essere in contrasto con quella che era ritenuta, da altri e da loro stessi, come verità rivelata e quindi verità assoluta;… non sarebbe avvenuto che chi non riusciva ad arrivare alla conciliazione desiderata, rinunciasse alla fede in Dio come cosa contraria alla scienza ed all’intelletto, o condannasse la scienza come contraria alla parola di Dio. E, se queste varie forme di aberrazione non sono… nate in campo ebraico, quando esisteva un pensiero ebraico indipendente ed originale, non possiamo negare, a nostra vergogna, che anche in questo ci siamo lasciati trascinare da altri, e che… hanno anche in noi germogliato e prosperato le male piante dal compromesso, dell’ateismo in nome della scienza, dell’oscurantismo e dell’ignoranza programmatica in nome della religione (…).
La Torà, dunque, nelle sue parti narrative, non è libro di scienze naturali … invece la Torà si propone di educare al sentimento dell’esistenza di un unico potere non raggiungibile né con l’esperienza sensibile, né col puro ragionamento, potere dal quale tutto ha origine; la Torà non nega esplicitamente e, implicitamente, afferma che questo potere ha stabilito delle norme costanti che ci permettono di constatare la concatenazione dei fatti fisici.
La Torà da una parte, e le scienze naturale e storica dall’altra, pure avendo in comune parte dei loro oggetti, non possono né contraddirsi né confermarsi a vicenda: ciascuna di esse vede gli oggetti da un punto di vista suo proprio, e ognuno può adottare entrambi questi punti di vista: la persona più fedele della Torà può nello stesso tempo essere il migliore – e quindi più libero – ricercatore di scienze naturali e storiche, e il più rigoroso scienziato può aderire senza riserve agli insegnamenti della Torà».
Secondo Rav Artom, dunque, l’intento della parte narrativa della Torà è d’insegnarci che il mondo esiste per volere del Signore e che tutto ciò che nel mondo avviene è da attribuirsi alla volontà del Creatore che così ha predisposto. Poiché la Torà parla nel «linguaggio degli uomini», essa utilizza opinioni comunemente accettate all’epoca n cui fu data. In tempi e in circostanze diverse, la Torà avrebbe presupposto opinioni differenti.
Non molto diversa è l’opinione del Prof. Jeshajahu Leibowitz. Di questo pensatore contemporaneo, fra i più noti intellettuali d’Israele, così scrive Ariel Rathaus, nell’edizione italiana del libro di Leibowitz «Ebraismo, popolo ebraico e stato d’Israele» (Carucci-DAC 1980): «Razionalista lucidissimo e filosofo della scienza, Leibowitz avanza al tempo stesso le istanze più rigorosamente teocentriche che pensatore ebreo contemporaneo ardisca avanzare». Ebreo di profonda cultura talmudica e rabbinico-tradizionale, Leibowitz è anche scienziato (si è occupato, in particolare, di biochimica e neurofisiologia). Sul problema Torà e Scienza, egli assume una posizione assai chiara e decisa: lo scopo della Torà non è «di fornirci informazione scientifica, ma di condurci al timore, all’amore e al servizio del Signore», ed è «del tutto ridicola l’idea che la Torà ci sia stata data per insegnarci un capitolo di scienze naturali o di storia, e che la presenza di Dio sia scesa sul monte Sinai per adempiere alla funzione di un insegnante di fisica, di biologia, di astronomia ecc. con la sola differenza che il Signore Iddio è un professore migliore dei docenti universitari. Questa idea è non solo ridicola, ma è anche; in un certo senso, offensiva e blasfema» (pp. 337-346 dell’edizione ebr. dell’op. cit.).
Coerentemente con questa opinione, Leibowitz critica duramente quanti, tentando di «salvare» la verità letterale del testo biblico, mettono in dubbio i risultati del metodo scientifico, o sostengono che la verità scientifica è di tipo probabilistico, e non assoluto. Ciò comporterebbe, secondo Leibowitz, non solo un’incomprensione dell’essenza della scienza, ma anche un grave errore dal punto di vista della fede religiosa.
B. Seconda soluzione: La torà non deve essere interpretata alla lettera
Un secondo modo di superare la contraddizione fra quanto narrato nella Torà e quanto affermato dalla scienza è di mostrare che il contrasto è in realtà solo apparente. In altri termini, una corretta e profonda analisi del testo biblico, non necessariamente in senso letterale, unitamente a quanto insegnatoci dai nostri antichi maestri, permette un riesame del punto di vista tradizionale riguardo al problema della creazione del mondo, della struttura dell’universo e dell’evoluzione degli esseri viventi. Le conclusioni a cui si arriva sono spesso in buon accordo con le teorie scientifiche attuali, per cui non c’è motivo di scegliere o l’una o l’altra delle due concezioni.
La differenza fra questo modo di affrontare il problema e quello rappresentativo del gruppo A è nel valore da dare al racconto biblico. Secondo il punto di vista B, la Torà racconta quello che realmente è avvenuto, e se ci sono contraddizioni con quanto dimostrato dalla scienza, è perché noi non abbiamo bene inteso il senso del testo biblico (oppure, ovviamente, perché la teoria scientifica non è stata ancora sufficientemente dimostrata). L’analisi corretta del resto mostrerà che non c’è contrasto. Secondo il punto di vista A, al contrario, il racconto biblico non ha invece alcuna rilevanza riguardo alla realtà della natura e dell’universo, e se analogie si possono trovare fra la Torà e i risultati dell’indagine scientifica, esse vanno considerate come pure e semplici coincidenze, frutto più dell’ingenuità di chi queste analogie ha trovato che di un reale intento divino di insegnarci, per mezzo della Torà, alcunché sulla natura del mondo fisico.
Il punto di vista B è sostenuto da diversi e numerosi maestri dell’epoca moderna. Tutti si basano su una rilettura attenta delle parole degli antichi saggi del Talmud, del Midrash e della Kabbalà. Citiamone alcune. In Bereshith Rabbà (una raccolta di interpretazioni midrashiche alla Genesi dell’epoca talmudica, trad. in ital. da A. Ravenna, Utet 19), commentando il verso «fu sera e fu mattino, il primo giorno» (Gen. 1, 31), si riporta: «Disse Rabbi Jehudà bar Simon: non è scritto “sia sera”, bensì è scritto “fu sera”; da qui impariamo che esisteva già una successione di tempi (seder zemanim) prima di allora. Rabbi Abbahu aggiunse: ciò ci insegna che Dio creava mondi e li distruggeva, fino a che creò il mondo attuale, dicendo: questo mi piace, gli altri non mi piacevano” (Ber. R. 3, 7). Un altro midràsh afferma che un giorno di Dio equivale a 1000 anni umani (Ber. R. 19, 8; cfr. Salmi 90, 4). Nel Talmud si parla di 974 generazioni che precedettero la creazione di Adamo (TB Shabbath 88b). Un midràsh dice che l’uomo fu creato con la coda, e solo in seguito gli venne tolta perché non decorosa (Berg. T. 14, 10); inoltre, fino alla generazione di Noè le dita delle mani erano unite (Midrash Avkir a Gen. 5, 29). Su questi e altri midrashìm i maestri dell’epoca moderna si sono appoggiati per conciliare la tradizione ebraica con la scienza».
I. Lipshitz e A.I. Kook
Rabbi Israel Lipshitz di Danzig (autore del famoso commento alla Mishnà Tifereth Israel), affermò, fra l’altro, che il primo verso della Torà si riferisce all’atto creativo originale, mentre il secondo («e la terra era informe e vuota») si riferisce alle epoche di sconvolgimenti e distruzioni che precedettero l’attuale mondo, sulle quali la Torà non si dilunga, non essendo rilevanti per noi. Egli aggiunge anche che gli uomini preistorici di cui sono stati trovati i resti, sono quelli a cui si riferisce il Talmud parlando delle generazioni che precedettero Adamo. È interessante notare che l’opinione di Rabbi Lipschitz fu accettata come valida alternativa da una delle maggiori autorità halachiche del secolo scorso, il Maharsham (Rabbi Shalom Mordechai Schwadron). Una posizione simile fu adottata pure da Rabbi Samson R. Hirsch.
In questo secolo è stata particolarmente significativa la voce di Rabbi Abraham I. Kook (1865-1935), primo Rabbino Capo di Israele e uno fra i pensatori religiosi più profondi e importanti dei nostri tempi. Rav Kook, riferendosi alle scoperte scientifiche che contrastano con il senso letterale della Torà, scrive: «la mia opinione è che… non siamo affatto obbligati a smentirle e a opporci ad esse, poiché lo scopo principale della Torà non è di raccontarci semplici fatti. Quello che conta veramente è il significato interiore…» (Lettere, I, 105). «Non vi è nessuna difficoltà nel conciliare i versi della Torà o degli altri testi tradizionali con una concezione evoluzionistica… Ognuno sa che qui è il regno della parabola, l’allegoria e l’allusione… il vero significato di quel verso o di quel detto va ricercato nell’ambito dei “segreti della Torà”, assai oltre il senso letterale… un’indagine attenta rivelerà il significato interiore del poema sublime che si nasconde fra quelle antiche frasi» (Oròth Ha Qodesh, p. 559). Rav Kook quindi respinge l’esegesi letterale dei primi capitoli della Genesi, e sottolinea invece la necessità di una profonda interpretazione mistica; il concetto di evoluzione, piuttosto che rappresentare una minaccia per la religione, viene considerato da Rav Kook in totale armonia con i più intimi aspetti del misticismo ebraico, che ha sempre visto nel mondo un continuo progresso verso la perfezione ultima.
Maimonide
L’interpretazione non letterale del testo biblico si appoggia su solide basi tradizionali ed ha illustri precedenti. Maimonide (1135-1204), nell’Introduzione alla Guida degli smarriti, sottolinea la necessità di interpretare in senso allegorico molti passi della Bibbia e dei testi tradizionali: «… Dio, avendo deciso nella Sua divina sapienza della necessità di comunicarci questi prodotti argomenti (il racconto della creazione del mondo), decise anche – a causa dell’immensità e della difficoltà del soggetto insieme alla carenza della nostra comprensione – di parlarcene sotto forma di allegoria, detti nascosti e parole velate». Riguardo al problema dell’eternità del mondo, che era al centro delle discussioni dei filosofi dell’epoca, così afferma Maimonide: «Sappi che la ragione per cui respingiamo l’idea dell’eternità del mondo non è da cercarsi nei passi della Torà che proclamano il mondo creato. I passi che indicano che il mondo è stato creato non sono più numerosi che quelli che indicano la corporeità di Dio. Il metodo dell’interpretazione allegorica non è meno possibile e permesso riguardo alla creazione del mondo che in altri testi e avremmo potuto spiegarla allegoricamente come abbiamo usato questo procedimento per escludere la corporeità di Dio» (II, 25; trad. in ital. in S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, I Carucci 1980, o. 510). Le idee di Maimonide furono accettate da tutta una serie di pensatori ebrei tradizionali, dal Ghershonide (1288-1344) a Rabbi Yitzhaq Arama (XV sec.), fino a esponenti di primo piano del pensiero ebraico contemporaneo, come Rav Kook (vedi sopra) e Rav Dessler autore del Michtav me-Eliahu). D’altra parte, non tutti condivisero l’opinione di Maimonide: si veda, per esempio, un responso di Rashbà (Rabbi Shelomò ben Abraham Adret, 1235-1310) sul rapporto fra scienza e fede (responso n. 9, Bologna 1539; tradotto in parte in ital. da S. Avisar, op. cit., pp. 512-514), nel quale, pur non negandosi del tutto la legittimità dell’interpretazione allegorica, non di meno viene ribadita la superiorità della tradizione sulla scienza e la filosofia.
C. Terza soluzione: Le teorie scientifiche hanno valore relativo
Un atteggiamento critico nei confronti della validità delle teorie scientifiche sull’origine dell’universo e sull’evoluzione è stato espresso soprattutto da parte di Rabbi Menachem Mendel Schneersohn, il Rebbe dei Lubavitch, una delle personalità più eminenti nel mondo della Torà della nostra generazione. In una nota lettera, spedita il 25 dicembre 1961 a uno studente che sentiva il proprio attaccamento alla Torà indebolito a causa della difficoltà a conciliare quanto scritto nel testo biblico a proposito della creazione con le teorie della scienza, il Rebbe sottopone a un’analisi critica la metodologia scientifica. Egli sottolinea il fatto che la scienza formula ipotesi e teorie, dedotte da fatti noti dall’esperienza, che sono tanto più valide quanto sono maggiormente vicine alle condizioni empiriche da cui sono state generate, ma perdono gran parte del loro valore quando vengono riferite (estrapolate) a campi assai lontani nel tempo e nello spazio, o assai diversi per le mutate condizioni ambientali. In particolare, le teorie sull’origine e l’età dell’universo sono fra le più deboli e meno sicure di tutta la scienza. Tuttavia, il Rebbe ammette che, anche se si riuscisse a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che alcuni fenomeni (p. es., la presenza dei fossili) non possono essersi verificati nel tempo ristretto di meno di 6000 anni che la tradizione ebraica assegna come età dell’universo, non si potrebbe comunque escludere che Dio abbia creato il mondo con i fossili già esistenti e con tutto ciò che sembra avere un’età assai antica. Questa posizione può apparire assurda a prima vista, ma in realtà essa possiede una sua logica, e il chiedersi perché Dio abbia voluto creare il mondo con esseri viventi già fossilizzati non è più legittimo del chiedersi perché Dio abbia creato la materia primordiale; noi non possiamo assolutamente conoscere la volontà e gli scopi del Creatore.
Nelle sue argomentazioni il Rebbe mostra una notevole familiarità con i metodi e le teorie della scienza, che gli deriva dall’aver studiato da giovane materie scientifiche in diverse università (a Berlino e alla Sorbona). Le critiche che possono essere presentate alla sua posizione non riguardano la coerenza logica di essa, quanto la sua utilità e necessità. È proprio essenziale ritenere che il mondo fu creato in 6 dei nostri giorni, e che ciò avvenne 5744 anni fa? Risposte ugualmente corrette dal punto di vista tradizionale, ma del tutto diverse, sono state date dai gruppi A e B. L’obiezione che il Rebbe solleva a queste è che, abbandonando l’interpretazione letterale del testo della Genesi, si avrebbero pericolose ripercussioni sull’osservanza dello Shabbath, il «settimo giorno della creazione». Si replica tuttavia che da sempre l’ebraismo ha mantenuto ben distinti i due campi della halachà e della aggadà (la normativa giuridica e il pensiero): mentre nel primo non sono ammesse deviazioni, la più completa libertà di opinione è sempre stata lasciata nel secondo.
G.D.S.
Le origini dell’universo secondo la Kabbalà e la scienza. Le analogie sono stupefacenti: è solo una coincidenza?
La luce e il mistero
Le dottrine sulla creazione del mondo occupano nella Kabbalà un posto centrale. I kabbalisti, indagando nelle profondità del testo della Torà, interpretano lettere e parole, e persino gli spazi bianchi fra le parole, e riallacciandosi a una catena ininterrotta di tradizioni trasmesse esotericamente dagli antichi maestri, giungono all’elaborazione di ardite concezioni su Dio e sulla nascita e la struttura del mondo. Esistono alcune rimarchevoli analogie fr ale concezioni kabbalistiche e i risultati ottenuti dalla scienza moderna riguardo all’origine dell’universo. Ciò è ancor più sorprendente se si pensa alla differenza fondamentale esistente fra i due approcci: mentre la scienza indaga il mondo tramite l’osservazione e la sperimentazione, la Kabbalà giunge auna comprensione della natura solo per mezzo dello studio della Torà sono i “Nomi” di Dio, che attraverso essi manifesta le Sue azioni creative. La combinazione delle lettere della Torà corrisponde al coordinamento delle forze che agiscono secondo il piano del Creatore» (A. Safran, La Kabbalà, Carucci 1981, p. 323).
Secondo la cosiddetta teoria del big bang (grande scoppio), accettata attualmente dalla maggior parte degli scienziati, in principio tutta la sostanza dell’universo era concentrata in un volume molto piccolo e aveva una temperatura immensamente elevata. A una tale temperatura non esisteva materia, ma tutta la sostanza consisteva di energia e densità altissima. Un’immane esplosione, avvenuta 10-20 miliardi di anni fa, diede il via alla formazione dell’attuale universo, causandone la progressiva espansione.
Via via che si espandeva, l’universo si raffreddò e si formò un iniziale miscuglio indifferente di particelle elementari e radiazioni; questo si trasformò a poco a poco in materia, in atomi e molecole che diedero origine alle stelle e ai pianeti, e a tutta la materia esistente, compresi noi stessi. La teoria del big bang si appoggia su basi empiriche, in particolare sull’osservazione che le galassie si allontanano l’una dall’altra e sulla scoperta della «radiazione cosmica di fondo», residuo dell’esplosione primordiale; inoltre l’equivalenza fra materia ed energia, scoperta per via teorica da Einstein agli inizi di questo secolo, è un fatto ormai acquisito nella fisica moderna per una descrizione più dettagliata, ma non specialistica, della storia delle origini dell’universo, si veda l’ottimo libro del premio Nobel per la fisica Steven Weinber, I primi tre minuti, Mondadori 1977).
La radiazione prodotta nel grande scoppio iniziale non era visibile, avendo una lunghezza d’onda molto corta (ancora minore di quella dei raggi X). Inoltre, la radiazione era invisibile per un altro motivo: l’universo era talmente denso che i fotoni (le particelle luminose) non potevano passarci attraverso, scontrandosi continuamente con altre particelle: in altri termini, l’universo, la luce si «disaccoppiò» dalla materia e divenne visibile. Schematizzando, possiamo dire che in uno stadio iniziale c’era solo energia (nessuna particella poteva esistere, temperatura troppo elevata); poi si formò un miscuglio di materia e radiazione invisibile; e infine l’universo diventò trasparente e si formarono le galassie. Il sole si sarebbe formato solo dopo vari miliardi di anni dal big bang. Semplificando ancora, abbiamo: luce (energia); materia (la luce è nascosta); luce (l’universo diventa trasparente si formano il sole e le stelle).
Vediamo ora qual’è la concezione della Kabbalà sull’origine dell’universo. Lo Zohar, il libro medioevale fondamentale della letteratura kabbalistica, così si esprime: «In principio, quando la volontà del Re cominciò a manifestarsi, Egli incise segni nell’aura celeste che si irridava intorno a Lui. Una oscura fiamma scaturì nella più nascosta regione del mistero dell’infinito, En-Sof, come una nebbia che prende forma dall’uniforme … né bianca né nera, né rosa né verde, assolutamente priva di qualsiasi colore. Ma quando quella fiamma prese misura e estensione emise splendenti colori. Cioè proprio all’interno della fiamma scaturì una sorgente, da cui i colori si riversarono su tutto ciò che era sottostante…». (I, 15a, corsivo nostro; trad. in ital. in G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore 1965, p. 298; anche in G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi 1980, p. 131). L’improvvisa creazione dell’esistente dal nulla viene identificata, nella Kabbalà, con l’aspetto esteriore di un processo che ha luogo in Dio stesso. Il principio dell’universo è rappresentato con il simbolo del punto primordiale, che risplende dal nulla, e da cui scaturisce l’essere. Il principio si manifesta nella luce, la quale, condensandosi progressivamente, si trasforma in materia che a sua volta si ritrasforma a poco a poco, in luce. La Kabbalà descrive questo processo con l’alternanza or – ‘or – or, «luce» – «pelle» (materia) – «luce». Il suono quasi identico dei due vocaboli sottolinea meglio l’unità che sta alla base dell’universo: luce e materia sono equivalenti (vedi A. Safran, op. cit., pp. 371 e sgg. «La scienza della Kabbalà e la scienza contemporanea»).
LA corrispondenza fra la concezione della Kabbalà sull’origine dell’universo e la teoria del big bang è notevole. È solo una coincidenza? Abbiamo semplificato troppo, o forzato oltre musica i teti kabbalistici?
Secondo la Kabbalà, la luce che fu creata il primo giorno della creazione non è la stessa luce che ci giunge dal sole, che fu creato soltanto nel quarto giorno. Nel Midrash (p. es., in Bereshith Rabbà 3,6) e nello Zohar (I, 31b-32a) si dice che Dio nascose la luce primordiale e la mise in serbo per i giusti nel mondo a venire. L’attrattiva a identificare questa luce primordiale, nascosta, con la radiazione prodottasi nei primi stadi del big bang è forte; se pur non tutti i particolari collimano, abbiamo ancora un’indubbia somiglianza qualitativa (A. Radkowsky, «The relationship between Science and Judaism» in Challange, Torah views on science and its problems, London/Jerusalem 1976, pp. 68-92; P. Rosenloom, «La Fisica moderna e la creazione», Lubavitch News, Roma, febbraio 1983, pp. 8-9; I. Asimov, In principio, Il libro della Genesi interpretato alla luce della scienza, Mondadori 1981, pp. 31-37).
Un problema ancora non risolto dalla scienza è se l’universo sia destinato a espandersi all’infinito, o se a un certo momento l’espansione rallenterà fino ad arrestarsi del tutto; nel secondo caso, l’universo inizierà a contrarsi progressivamente fino a raggiungere una densità infinitamente grande, e quindi riesploderà di nuovo. I processi di espansione e contrazione si alternerebbero all’infinito, e avremmo un «universo oscillante» (vedi S. Weinberg, op. cit. pp. 45-75, 166-171).
Una concezione per certi versi analoga alla teoria dell’universo oscillante si trova nella dottrina del kabbalista Rabbi Yitzchaq Luria (1534-1572). Luria elaborò un’ardita teoria mistica secondo la quale, all’origine della creazione, ci fu una «contrazione» (tzimtzùm) di Dio spesso,che ritirandosi face spazio all’universo. «Il primo di tutti gli atti dell’essere infinito, dell’En–Sof, non fu pertanto un movimento verso l’esterno, ma verso l’interno, un movimento entro se stesso, un restringersi in sé… Solo nel secondo atto di Dio, con un raggio della sua assenza procede fuori di Sé e dà inizio alla sua rivelazione, o al suo dispiegarsi come Dio creatore in quello spazio primordiale che ha prodotto in Se stesso… In questo processo hanno luogo un flusso e un riflusso, tra il principio d’espansione e quello di contrazione… che continuamente agiscono e reagiscono l’uno sull’altro» (G. Scholem, 1965, op. cit. p. 354 e sgg.).
Dalla stessa concezione di Luria deriva l’idea del momento successivo della creazione, che il mistico chiama «Sheviràth kelìm»: letteralmente «rottura dei recipienti», ad indicare l’improvvisa espansione del creato, non più per lenta emanazione, ma per dinamica esplosione. Un ulteriore collegamento con l’idea del big bang!
Una periodicità fissa nella creazione si ritrova anche nella dottrina delle shemittoth, o cicli cosmici di 7000 anni (vedi G. Scholem, La Cabala, Ed. Mediterranee 1982, p. 121 e sgg.). I cicli cosmici sono analogati ai cicli terreni di 7 anni, in cui si lavora la terra per 6 anni e nel settimo anno, l’anno sabbatico, la si lascia riposare. La dottrina dei cicli cosmici si rifà alla leggenda midrashica dei mondi che furono creati e distrutti prima della creazione presente (vedi l’articolo «Torà e Scienza» a pag. 14). Ogni mondo durerebbe 7000 anni. Dopo 50.000 anni si ha un Giubileo cosmico, corrispondente al giubileo terreno. Secondo Rabbi Bachya ben Asher (XIV sec.; commento a Numeri 10, 35) l’intera successione di mondi dura non meno di 18.000 giubilei cosmici (che dà quindi una durata minima di 900 milioni di anni). Altre fonti kabbalistiche classiche (Sefer ha–Temunà e Rabbi Isaac ben Samuel di Acco, XIV sec.) riferiscono calcoli che danno ancora maggiori; secondo una di queste opinioni, il ciclo universale dura 7 volte 50.000 giubilei cosmici (7×50.000×50.000), che equivale a 17,5 miliardi di anni. Questo valore è in notevole accordo con l’età dell’universo stimata secondo le attuali teorie scientifiche. Forse kabbalisti e scienziati parlano di cose diverse, ma se non altro come curiosità la corrispondenza è sorprendente.
G.D.S.
Disse Rav Jehudà a nome di Rav: – Nel momento in cui Iddio Benedetto creò il mondo, questo diventava sempre più ampio, fino a che Iddio benedetto lo rimproverò e lo fece fermare, come è detto: «Le colonne del cielo si indebolirono e rimasero sbalordite per il suo rimprovero» (Giobbe 26:11) –.E ciò è simile a quando disse R. Shimòn ben Laqish: – Che significa l’espressione «Io sono il Dio onnipotente (in ebraico shaddai)» (Genesi 17:1)? Io sono Colui che ha detto al mio mondo basta! (in ebriaco she… dai) –.(T. Bab. Chagigà 12 a)«Ho detto al mio mondo basta!, perché altrimenti avrebbe continuato ad allargarsi fino ad ora».(Bereshith Rabbà 5:8)Ai rabbini si poneva questa obiezione filosofica: come era stato possibile che un mondo finito fosse creato con una forza divina infinita? La risposta è che effettivamente nella creazione del mondo era stata infusa una potenzialità infinita; ma anche il limite imposto a questa potenzialità fu un’espressione attiva della forza divina.(A. Kariv, Missòd Chakhamim, p. 443) |
L’ebreo può fare lo scienziato? Se lo studio della Torà è l’ideale intellettuale ebraico, come si può giustificare l’impegno nella scienza?
Uscire dalla caverna
Una nota storia talmudica(TB Shabbàt 33 b) racconta di Rabbì Shimòn ben Jochài e del figlio che furono costretti per anni a vivere nascosti in una caverna per sfuggire alla persecuzione dei romani di cui Shimòn era accanito avversario. Finalmente la situazione politica si tranquillizzò e ai due fu concesso di uscire dalla caverna. Cominciarono allora a camminare per le campagne e videro la gente che si dedicava ai lavori agricoli. Shimòn giudicò molto severamente tutti coloro che vedeva lavorare, come gente che trascurava le occupazioni spirituali per dedicarsi alle attività materiali di produzione. In ogni luogo dove si posava lo sguardo del Maestro, il raccolto bruciava. Allora una voce dal cielo li rimproverò aspramente: «Siete usciti a distruggere il mio mondo? Tornatevene nella caverna!». Fu così che i due ritornarono alla vita isolata finché non impararono la lezione.
Il messaggio del racconto è chiaro; esprime la posizione prevalente nella tradizione rabbinica secondo la quale l’attività spirituale, lo studio della Torà, non può e non deve essere dissociato dall’esercizio delle normali attività lavorative. Esistono delle tendenze ascetiche anche nella tradizione ebraica, ma il racconto dimostra che siano messe al margine della realtà religiosa. Resta comunque il fatto che se le due cose – attività spirituale e materiale – devono coesistere, è sempre la prima ad avere la preminenza. Tutta l’attività dell’ebreo deve rotare intorno allo studio e alla pratica della Torà e ciò che ne è al difuori è tollerato, o ben accettato, o anche di una corretta valutazione psicologica della realtà, ma che resta sempre secondario.
In questa chiave, come caso particolare, si pone il problema della legittimità per l’ebreo di dedicarsi alla scienza. Dalle premesse di questo discorso abbiamo qualche orientamento generale.
Il mistico italiano della prima metà del ‘700, Moshè Chajìm Luzzatto, nella prefazione della sua notissima «Messilàt Jesharìm» (Strada per i Giusti), segnalava la superiorità dell’impegno in attività intellettuali concernenti la fede e il servizio divino rispetto a tutte le altre scienze e discipline intellettuali.
Non era una condanna, ma la definizione di una scala di priorità. Era probabilmente sulla stessa linea, nella seconda metà dello stesso secolo, la più grande personalità dell’ebraismo rabbinico, il Gaon di Vilna: tra i primi ad applicare criteri scientifici nello studio dei testi tradizionali, si segnalò anche per la sua competenza su questioni scientifiche, scrivendo anche per la sua competenza su questioni scientifiche, scrivendo persino libri di ingegneria: come Maimonide, che nel XII secolo aveva scritto libri di Torà, di filosofia e di medicina. Ma con qualche differenza significativa. Sul Gaon si racconta questo aneddoto: non si riusciva a capire come il grande rabbino trovasse il tempo per essere sempre aggiornato su tutti i progressi scientifici, quando tutta la sua giornata era dedicata allo studio della Torà; pare che il tempo lo trovasse nell’unico momento in cui non era lecito dedicarsi a sacre occupazioni, cioè mentre stava al bagno; per non distrarsi studiava libri scientifici. A parte l’aneddoto, con il Gaon riemerge storicamente nell’ebraismo tradizionale l’interesse per la scienza, per molto tempo soffocato; ma è ancora evidente quanto sia subordinato, in importanza, alla Torà. Eppure molti secoli prima la situazione era ben differente, come dimostra un’antica interpretazione rabbinica (TB Shabbàt 75 a); spiegando l’espressione di Deut. 4:6, che parla della «vostra saggezza e il vostro discernimento agli occhi dei popoli», e che letteralmente si riferisce proprio alla Torà, il Midràsh l’applicava paradossalmente alla conoscenza dell’astronomia, che sarebbe stata il vanto degli Ebrei tra i Gentili. A quanto pare la pratica scientifica in alcuni momenti della storia è stata una condizione normale per gli Ebrei, fino a diventare talora una specie di vanto nazionale, a fianco dell’altra loro caratteristica specifica culturale, la Torà. È una situazione che si è ripetuta nell’ultimo secolo, nel quale agli ebrei è stata universalmente riconosciuta una straordinaria capacità di applicazione alle attività scientifiche; la differenza tra certe situazioni del passato e quella attuale sembra stare tra l’altro nell’autocoscienza ebraica e nell’autovalutazione del fenomeno; positivo dal punto di vista religioso, come sembra nell’antico midràsh, discusso nella nostra epoca. È molto probabile che nella recente diffidenza, se non proprio nell’ostilità; che si è avuta per la scienza in alcuni settori dell’ortodossia abbia giocato in modo determinante un fattore contingente. Per molti decenni dello scorso secolo e per i primi di questo attuale, gran parte degli ebrei che studiavano nelle Università si adattarono facilmente al diffuso e preponderante conformismo culturale, abbandonando di conseguenza la pratica dell’ebraismo tradizionale; nell’Europa centro-orientale il fenomeno ebbe caratteri di una fuga di massa, e di qui è nata una sorta di opposizione, più o meno dichiarata, tra l’ebreo ortodosso e l’ebreo scienziato; opposizione che solo in questi ultimi decenni va lentamente risolvendosi.
Una discussione che dura da secoli
Oltre a queste considerazioni preliminari, quando si discute il problema è indispensabile introdurre nelle distinzioni; scienza è un termine troppo generico, e può indurre a troppi equivoci. Un’importante distinzione è tra la ricerca e l’applicazione dei suoi risultati, e, nell’ambito della stessa ricerca, la definizione di una ricerca «pura», rispetto a ogni altra che abbia più o meno immediati risultati applicativi; oggi questa distinzione appare sempre più criticabile, perché l’evoluzione della scienza rende entro breve tempo applicabili anche le ricerche più «pure» e teoriche. Comunque c’è chi pone il problema della legittimità per l’ebreo della pura speculazione teorica, che sarebbe considerata concorrenziale, come una perdita di tempo prezioso, che invece è da dedicare allo studio della Torà. Emblematica di questa posizione è la parabola di Josef Ja’betz (esule dalla Spagna nel 1492, rabbino a Mantova, morto nel 1507), in Or HaChajìm (cit. in Challenge, p. 108):
l’uomo che dedica la sua vita alla ricerca scientifica perché considera la scienza un prerequisito per la comprensione della Torà è paragonato a un tale che vuole diventare maestro di ricamo alla corte reale e vedendo che per quest’arte sono necessari gli aghi, si mette a studiare tutte le attività del fabbro, a vedere come si costruiscono gli aghi e tutte le relative attrezzature. Quest’uomo finirà chiaramente col perdere di vista il suo obiettivo iniziale. La morale della parabola sarebbe (nell’interpretazione che ne fa Leo Levi, l.c.) nella necessità di distinguere i mezzi immediati da ciò che li precede. Se la scienza è un mezzo per la comprensione della Torà, è lecito e opportuno utilizzarne i risultati, senza perdere tempo per le ricerche che li producono. È un’affermazione provocatoria: sì alla tecnologia pratica ma senza perdere tempo per tutto ciò che la precede, in altri termini per la ricerca scientifica. È l’espressione probabilmente esasperata di una delle anime della tradizione ebraica che ha affrontato il problema e che ha sempre preposto in assoluto la supremazia dell’obbligo di concentrare le capacità intellettuali dell’ebreo in una sola direzione.
Un’altra distinzione da fare riguarda l’oggetto e la finalità della ricerca: ad esempio è chiara intuitivamente a tutti la necessità di studi medici per combattere le malattie che insidiano l’umanità, mentre è moralmente discutibile la ricerca su armi di guerra più sofisticate.
Ma anche ciò che pare ovvio, in passato non lo era; ad esempio nel Talmùd delle parabole giustificano la legittimità dell’esercizio della medicina, evidentemente perché erano in molti a sostenere il contrario nel nome del rispetto per l’opera della creazione. Ci troviamo insomma davanti ad una materia estremamente articolata, sulla quale non è possibile un giudizio unitario, mentre sui singoli problemi si può dimostrare che difficilmente in campo ebraico vi è stata l’unanimità. Condizioni storiche differenti e influenze della cultura circostante hanno nel secolo dei secoli influito su atteggiamenti ora di massima apertura, ora di diffidenza e di rifiuto. Sembra che negli ultimi decenni si ritorni verso posizioni di grande apertura; gli ebrei ortodossi che oggi teorizzano la necessità di un impegno ebraico diretto nella ricerca scientifica, sostengono diversi argomenti a sostegno della loro posizione: da un punto di vista strettamente pratico la scienza è strumento indispensabile per la precisa interpretazione della Torà e la tecnologia offre preziosi contributi per la sua osservanza (su questo vedi l’articolo a p. 22). Più in generale la scienza dà all’uomo gli strumenti per realizzare dei precisi e fondamentali dettami tradizionali, come quello di preservare la vita e la salute propria e altrui, e quello di «conquistare la terra» (Gen. 1:28).
In questo compito Israele può e deve essere un riferimento per le nazioni, come già i profeti avevano indicato (Geremia 1:5, Isaia 2:2-4); questo impegno, nella società attuale, si associa alla necessità di produrre autonomamente e in indipendenza una cultura scientifica, per non stare alle dipendenze delle altre nazioni; come l’uomo non deve dipendere dalla carità altrui, così il popolo ebraico non deve attendere la carità altrui, che oggi è anche, se non soprattutto, scientifico-tecnologica.
Un autonomo impegno scientifico è poi considerato il requisito preliminare per poter resistere e obiettare con cognizione di causa a tutte le accuse mosse alle idee dell’ebraismo e che partono proprio da considerazioni di tipo scientifico.
Sul piano individuale, fermo restando che è obbligo di ognuno avere una fonte di guadagno onesta e dignitosi, che non derivi possibilmente dall’esercizio di attività «religiose», la scienza offre garanzie per numerosi tipi di lavoro, di ricerca e applicativo che rispondono alle qualità di lavoro che la tradizione giudica positive.
Infine, e questo sul piano più teorico, si riconosce – con le parole S. R. Hirsch – «la più intima unione tra il Giudaismo, totale, non falsificato, e lo spirito di tutte la scienza e conoscenza»; per cui la ricerca scientifica può diventare effettivamente il mezzo per realizzare quei comandi essenziali che sono l’amore e il timore di Dio e la santificazione del suo nome.
R.D.S.
Dalla costruzione del Tabernacolo alla mungitura automatizzata di sabato:
La tecnologia al servizio della Torà
Tra l’applicazione della normativa tradizionale e la tecnologia è sempre esistito un rapporto molto stretto, talora inscindibile; ancora oggi l’evoluzione della halakhà non può fare a meno, come anche un tempo, dei risultati della scienza. L’esempio classico che viene proposto in questo campo è quello della Mishkàn, del tabernacolo che gli ebrei costruirono nel deserto. Per la sua costruzione furono necessarie conoscenze tecniche di ogni tipo, presumibilmente le più avanzate e raffinate dell’epoca, come la dettagliata relazione biblica lascia capire. Questo tabernacolo ha nella tradizione successiva diversi significati simbolici, che trovano applicazione pratica anche nella normativa sul Sabato (V. a pag. 23); sono anche il segno dell’auspicata fusione delle migliori attitudini e conoscenze umane nella creazione di una struttura comune al servizio divino. In altri numerosi campi della prima normativa biblica la conoscenza tecnica era uno strumento indispensabile, del quale i sacerdoti e i giudici, e in generale le guide del popolo non potevano fare a meno. La coscienza di questo dato si è protratta per secoli; nel Settecento Jonathan Eibeschütz citava tra le materie necessarie per l’applicazione dei precetti biblici la geometria (per la misura dei territori), la meccanica (per il controllo dei giusti pesi), l’astronomia (per il calendario), la botanica (per l’identificazione delle specie da non mescolare), la chimica (per purificare i metalli per il tabernacolo), ecc. A livello talmudico gli esempi si moltiplicano; intere casistiche rituali non possono fare a meno di classificazioni scientifiche: come le benedizioni sulle diverse specie, o le malattie degli animali macellati. Tutto il calendario liturgico si basa su conoscenze astronomiche; al punto che questa scienza diventa scienza ebraica e orgoglio nazionale. Molti secoli dopo Maimonide, codificando la legge tradizionale nel Mishnè Torà troverà indispensabile premettere a numerose esposizioni rituali una lezione di anatomia dell’apparato genitale femminile; per il calendario un intero trattatello di astronomia.
Era proprio lo stimolo dell’applicazione rituale che giustificava interventi di ricerca che tuttora sono di discussa legittimità nell’ortodossia ebraica: come il caso di un’autopsia eseguita dai discepoli di Rabbì Jishmaèl (II sec. e.v.). (T.B. Bekhoròt 45 a).
È comunque un dato di fatto che, oggi molto più di un tempo, per poter emettere sentenze su problemi rituali siano indispensabili conoscenze scientifiche approfondite (un esempio immediato è quello della medicina).
Nel corso della teoria la tecnologia ha dato sviluppo allo studio e all’applicazione della Torà: si pensi a cosa deve la cultura ebraica, che si riconosce essenzialmente nel «Libro», all’invenzione della stampa; dall’inizio a oggi tutti i suoi sviluppi sono stati sistematicamente utilizzati per la diffusione della cultura tradizionale. Così come mezzi tecnologici di recente introduzione sono immediatamente utilizzati; si pensi alle potenzialità dei computer, oggi appena all’inizio dello sfruttamento, in termini di organizzazione di enormi quantità di materiale culturale sparso, di preparazione di guide, repertori, indici, di strumento didattico. li sviluppi tecnico-scientifici così imponenti degli ultimi decenni hanno altri impatti sul mondo della halakhà, mentre da un lato propongono nuovi problemi morali dall’altro offrono la possibilità di risolvere, nel rispetto delle regole tradizionali, antichi problemi che potevano complicare l’esistenza dell’ebreo e che proprio lo sviluppo tecnologico poteva rendere ancor più complessi. In questo spirito soluzioni tecnologiche avanzate facilitano l’osservanza del Sabato e delle feste (dall’automazione della mungitura, all’uso delle apparecchiature elettriche per l’illuminazione e certi trasporti), delle regole sulla purità per kohanìm (soluzioni architettoniche speciali fisse e mobili), delle regole alimentari (trasporti transoceanici di carne kasher congelata). Esiste anche un istituto creato per lo studio specifico di questi problemi, l’«Institute for Science and Halacha», con sede a Gerusalemme, che cura la pubblicazione di studi specialistici sulle singole questioni.
R.D.S.
Nella tradizione rituale la risposta più chiara: la scienza è al servizio dell’uomo e non viceversa
È sabato: la scienza riposa
Anche se spesso non ci si accorge di questo dato, un elemento centrale dell’ebraismo, vissuto nel rito,esprime la sostanza dell’ideologia tradizionale nei confronti della scienza e della tecnologia. Si tratta come è facile intuire, del Sabato.
Vi sono molte letture e spiegazioni possibili del significato di questa giornata, ognuna evidentemente condizionata dall’ideologia del momento e del luogo; nella nostra epoca, dominata dalla scienza e dalla tecnologia, proprio questi aspetti, anche se in passato non erano stati certamente dimenticati, sono stati sottolineati con la dovuta attenzione. Di Sabato, come è fin troppo noto, sono proibite tutta una serie di azioni, che i rabbini riconducono a 39 prototipi, i quali a loro volta sono i 39 distinti tipi di azione che furono necessari per la costruzione del Tabernacolo nel deserto. Il termine tecnico che indica queste azioni, è melakhà, impropriamente e semplicisticamente reso come lavoro. In realtà si tratta di un qualcosa un po’ diverso, anche se spesso si identifica con il concetto ordinario di lavoro. Melakhà è l’azione che trasforma la realtà, mediante la quale l’uomo dimostra la sua capacità di essere padrone del mondo, che cambia lo stato delle cose a suo piacimento. Pertanto è melakhà il cogliere un frutto o accendere un fuoco o scrivere, anche se queste azioni non comportano necessariamente una fatica e anche se vengono compiute fuori dallo stretto ambito «lavorativo». Che cosa significa, alla luce di questa definizione, l’obbligo di astenersi da qualsiasi melakhà? Il divieto è collegato alla storia biblica della creazione del mondo; dopo l’opera durata sei giorni. Dio nel settimo si riposò. Allo stesso modo l’uomo, dopo sei giorni operosi, deve astenersi da qualsiasi azione creativa materiale per un giorno alla settimana.
Nell’ottica particolare nella quale stiamo considerando il problema emerge chiaramente un discorso sulla scienza e la tecnologia. Questi sono per l’uomo gli strumenti a sua disposizione per esercitare il dominio sulla natura, un dominio che non solo è legittimo, ma risponde a un preciso dovere («riempite la terra e conquistatela» – Gen 1:28). Se l’uomo con questo è stato innalzato al rango di immagine divina e continuatore dell’opera della creazione, non deve tuttavia dimenticare che comunque non può né deve per questo sostituirsi a Dio. Ecco quindi il Sabato che viene a imporgli un freno educativo, che lo riconduce alla sua dimensione reale. Non c’è quindi affatto il rifiuto della scienza, ma la sua valutazione in una prospettiva di confronto con la maestà divina; un confronto che in ogni modo torna a favore e a interesse dell’uomo, della più profonda dimensione del suo essere. Il divieto sistematico serve a dimostrare la capacità dell’uomo a rinunciare a certi beni materiali, che possono rischiare di diventare suoi padroni e suoi idoli: è questo uno dei rischi della scienza e della tecnologia – il potere della macchina che stritola alla fine l’uomo che l’ha costruita – e che proprio il Sabato viene a evitare. Spesso si obietta alla tradizione rabbinica di essere inadeguata ai tempi alla tradizione rabbinica di essere inadeguata ai tempi, perché rifiuta per un giorno alla settimana i prodotti della tecnologia; ma un conto è il rifiuto assoluto, e altra cosa l’astensione periodica; e anche se questa periodica astensione può procurare delle scomodità, la tradizione privilegia rispetto a queste (che comunque in gran parte, con una opportuna organizzazione, si possono evitare) i benefici che derivano dal recupero della piena dimensione umana.
Alla fine del Sabato il rito della Havdalà ripropone questi motivi in modo semplice e stimolante. Nella leggenda greca si racconta di Prometeo che sottrasse furtivamente agli dei il fuoco per donarlo agli uomini, e fu per questo duramente punito. I rabbini raccontano una aggadà sullo stesso tema, ma con opposti contenuti: quando finì il primo Sabato dell’uomo, nel quale aveva brillato ininterrottamente la luce della creazione, Adamo si trovò improvvisamente al buio ed ebbe paura. Allora Dio gli stimolò l’intelligenza; Adamo percosse due pietra e ne fece scaturire il fuoco; vedendone la luce, recitò una benedizione, che è la stessa che viene recitata alla fine del Sabato, sul fuoco, durante l’Havdalàh. Il senso della aggadà, e del rito ad essa collegato, è quindi chiaro: il fuoco (e tutto ciò che rappresenta – in pratica la scienza e la tecnologia) sono per l’ebraismo, a differenza del pensiero greco, un dono divino che aiuta l’uomo a far fronte alle difficoltà della vita; è per questo che benediciamo per il fuoco all’inizio della settimana, quando iniziamo con fiducia l’uso dell’intelligenza creatrice. Un uso che è una benedizione, un dono, ma del quale periodicamente bisogna dimostrare di saper fare a meno.
R.D.S.
Il ruolo dello scienziato ebreo«Quanto sono grandi le Tue opere, o Signore; le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena della tua creazione».Salmo 104:24«O Signore nostro Dio, quanto è potente il Tuo nome su tutta la terra, Tu che poni la Tua gloria sul cielo! Quando vedo i Tuoi cieli, opera delle Tue dita, la luna e le stelle che hai stabilito, che cos’è l’uomo, che Tu lo debba ricordare, il figlio di Adamo, che Tu ne debba tener conto! Eppure l’hai reso di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e onore; l’hai fatto dominare sull’opera delle Tue mani, e tutto hai messo sotto ai suoi piedi».dal Salmo 8«Noi siamo obbligati per considerazioni razionali dalle Scritture e dalla tradizione… a studiare le creazioni di questo mondo e a derivarne la prova della Saggezza del Creatore. Perché l’intelletto dice che la superiorità dell’uomo sulle altre creature è dovuta alla sua capacità di conoscenza e comprensione dei segreti della saggezza che esiste nel mondo. Quando un uomo pensa e contempla le basi della saggezza… allora la sua superiorità sugli animali sarà proporzionale alla sua comprensione; se si rifiuta di studiare, non sarà simile alle bestie, ma inferiore a loro».Bachià ibn Paquda, Chovòt haLevavòt 2:2«… Eminenti scienziati molto spesso esprimono opinioni ingiustificate su questioni di filosofia e religione. Non solo mancano di sviluppare le loro attitudini mentali in queste direzioni, ma sono anche caduti nell’errore di equivocare la loro scienza con una filosofia.Uno studioso ebreo di scienza deve essere conscio, all’inizio e durante tutta la sua carriera, del fatto che per realizzare la sua ricerca fondamentalmente legittima si trova in mezzo a gente che in larga, e forse dominante, parte ha mancato di conservare una visione legittima del soggetto, e che ha condotto l’umanità ad una situazione disastrosa. Gli uomini la cui autorità egli rispetto sull’oggetto stesso della ricerca hanno molto da imparare da lui – per quanto frammentaria sia la sua educazione morale – a proposito della valutazione dell’oggetto come anche nella sua collocazione in uno schema generale di visione della vita. Per rimanere cosciente di ciò, egli deve esercitare questa coscienza non soltanto essendo un ebreo praticante, non soltanto frequentando lezioni abituali di cultura ebraica, ma con uno sforzo onesto di superare la preoccupazione con la materia con una dose maggiore di Torà, se possibile più grande in quantità, ma certamente più grande dell’importanza che egli le attribuisce. Egli deve domandare e ricevere dai suoi insegnamenti di Torà una guida attiva nel suo atteggiamento nei riguardi della scienza e del mondo materiale, e deve dedicare uno sforzo costante di sviluppo di questo atteggiamento nel dettaglio e nella pratica.Egli non è solo nel problema, ma è in una posizione particolarmente esposta. Ognuno di noi, anche se non legge mai una pagina di scienza, corre il rischio di essere sopraffatto da visioni materialistiche… Lo scienziato, oltre a riconoscere la sua personale dipendenza da Dio, deve fare sforzi speciali per pensare alla natura come ad un’opera divina».S. Levai, 1959; ripreso da Challenge, p. 116. |
Per saperne di più
Un testo molto importante, che raccoglie numerosi studi di diversi autori sui vari aspetti dei problemi discussi in questo inserto, e al quale abbiamo ripetutamente attinto è A. Carmell, C. Domb (editors), Challenge, Torah Views on Science and its Problems, Associations of Orthodox Jewish Scientists, Feldheim publ., Jerusalem-New York 5738/1978.