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Gli inserti di Alef Dac – Riforma e ortodossia
Breve storia della Riforma Come e perché nacque e si sviluppò la Riforma. Le domande che stimolarono il movimento, sono per molti aspetti ancora valide oggi: È lecito modificare l’ebraismo tradizionale in base a mutate condizioni ambientali? Fino a quel punto la bibbia e la tradizione rabbinica devono essere considerate dall’ebreo sacre, ispirate e inviolabili? Qual è il ruolo e l’assenza stessa della condizione ebraica nell’epoca attuale? | Chi decide per gli Ortodossi? L’ebraismo ortodosso non rimase a guardare e, pur partendo dallo stesso Mendelsohn (1729-1786) dal quale ha ha origine il movimento della Riforma, cerca nuove strade per rispondere alle esigenze dei nuovi tempi.Imponente fu l’azione che in questa direzione di confronto costruttivo con la realtà svolse Sansone Raffaele Hirsch (1808-1888) in Germania.Su posizioni diverse, ma comunque in netto contrasto con la Riforma, si pose Samuel David Luzzatto in Italia, che tuttavia per la sua qualità di studioso più che di rabbino non chiarì fino in fondo il problema. | Una lettera di S.D. Luzzatto | L’evoluzione del pensiero riformista Non vi fu un movimento di Riforma unico e ufficiale: le posizioni di fronte al valore della Bibbia e della tradizione orale furono e sono tuttora articolare. Dalle posizioni di Samuel Holheim — riformista radicale e ottimista che credeva si fosse all’alba di un’era messianica avente per centro la Germania — a quelle di Abraham Geiger. Ma la Riforma passa l’oceano stabilendosi in America dove nasce la “controriforma” di Salomon Shechter.Al primo ottimismo sfrenato e al quasi totale annullamento della tradizione concordato a Pittsburg (1885) si passa alla piattaforma di Columbus (1937) più moderata, con la timida riscoperta della Terra d’Israele e del Sionismo.L’attrazione concorrenziale verso le organizzazioni ortodosse farà “riscoprire” alla Riforma… l’Ortodossia? |
Reazione alla Riforma L’ebraismo ortodosso dette alla Riforma diverse risposte: dalla chiusura estrema ad un atteggiamento di confronto. Il pensiero di S. R. Hirsch e S. D. Luzzatto. | Opinioni a confronto È più importante la fede o la prassi? L’ebraismo è una religione? Come realizzare la missione universale dell’Ebraismo? Che fare della lingua ebraica? Quale l’atteggiamento di fronte al Sionismo e al risorto Stato d’Israele?Su queste e su molte altre questioni le posizioni sono nettamente contrastanti, tanto da far pensare che si trovi di fronte a due “religioni” completamente diverse. | In Italia Si dice che in Italia la Riforma non abbia attecchito. In realtà vi ) stata, seppure mediata da un controllo ortodosso, una “riforma strisciante”, di cui non ci si accorge più. Ma perché l’ebraismo italiano ha resistito alle provocazioni maggiori? Qualcuno dice perché era forte il legame con l’ortodossia: ma le cose non stanno esattamente così… |
Come e perché nacque e si sviluppò la Riforma
Breve storia della Riforma ebraica
Le domande che stimolarono il movimento sono, per molti aspetti ancora valide oggi: è lecito modificare l’ebraismo tradizionale in base a mutate condizioni ambientali? Fino a qual punto la Bibbia e la tradizione rabbinica devono essere considerate dall’ebreo sacre, ispirate e inviolabili? Quale è il ruolo e l’essenza stessa della condizione ebraica nell’epoca attuale?
I grandi movimenti di idee di libertà e uguaglianza diffusi nell’Europa alla fine del settecento contribuirono in molti luoghi a far cadere barriere secolari di discriminazione e aprirono agli ebrei le porte della vita civile. Questa storica Emancipazione incontrò un ebraismo in gran parte ideologicamente impreparato. Si aprì quindi un periodo di grandi turbamenti, che portarono alla fine alla nascita di precisi movimenti. Uno degli effetti più drastici e immediati della Emancipazione fu l’abbandono delle pratiche tradizionali da parte di vaste fasce di popolazione ebraica. D’altra parte questo era uno dei movimenti più o meno palesemente dichiarati dei sovrani “illuminati”, che concepivano l’uguaglianza come perdita di entità e assimilazione nella massa; proprio per gli stessi motivi molti nell’ebraismo ortodosso avevano manifestato una chiara ostilità di provvedimenti “liberali”. La fuga in massa pose singoli e dirigenti ebrei davanti a molti dilemmi; il modello di ebraismo trasmesso fino ad allora dalla tradizione era compatibile con la nuova situazione? In particolare certe pratiche religiose, a confronto con gli stili cristiani, sembravano indecorose: era legittimo, e fino a qual punto, modificarle perché fossero “competitive” rispetto all’esterno? Più in generale, che senso potevano più avere certe aspirazioni secolari dell’ebraismo, trasmesse nei riti e nelle preghiere (come la condizione nazionale l’idea messianica, la centralità di Sion e la raccolta delle diaspore), in una situazione di apertura e tolleranza generale (che si supponeva allora illuminato e irreversibile)? I critici della Riforma hanno sempre denunciato l’opportunismo come uno dei moventi fondamentali che spinse a rispondere, con la Riforma, a queste domande; non si può peraltro negare la preoccupazione sincera che animò molti nel tentativo di salvare il salvabile nel momento in cui si apriva nell’ebraismo una breccia pericolosa.
Gli inizi del movimento
Nella risposta a queste domande non vi fu subito non movimento di Riforma preciso e ufficiale. Il processo fu lungo e graduale, e anche molto articolato dal punto di vista formale e ideologico.
All’inizio fu la preoccupazione estetica e prevalere, con dei ritocchi allo stile sinagogale: abbreviazioni dei testi, sermone e qualche preghiera nella lingua locale, introduzione dell’organo. Esemplare in questo senso il caso di Israel Jacobson del 1810, a Seesen, e poi a Berlino dal 1815.
Fu Jacobson a sostituire il nome di Sinagoga con quello di Tempio, termine riservato tradizionalmente a quello di Gerusalemme; già questo introduceva uno spostamento di centralità nella vita religiosa. Lo stesso Jacobson istituì la cerimonia del Bar Mizwà in concomitanza con la festa di Shavuòth, e non al compimento esatto del tredicesimo anno di età.
In queste prime trasformazioni si tendeva a sottolineare che venivano fatte in accordo e non in contraddizione con la tradizione rabbinica; ben presto questa preoccupazione si affievolì e le modifiche si estesero ad altri ambiti. È intorno al 1840 che queste tendenze cominciarono a raccogliersi in movimenti più definiti e di critica più o meno aperta, peraltro molto dissimili tra loro. A Londra, nel 1840 la West London Sinagogue of British Jews adottava posizioni quasi Caraite, accettando come solo patrimonio sacro la Bibbia, mentre il Talmud era relegato a un semplice documento umano.
Con la pubblicazione della seconda edizione del libro di preghiere del Tempio di Amburgo (1841) si delineò chiaramente una posizione di denuncia radicale della preghiera tradizionale, i cui temi della restaurazione nazionale venivano aboliti mentre si accentuava il carattere universale del messianesimo.
Holdheim e Geiger
Grande importanza ebbero le idee di Samuel Holdheim (1806-60), dal 1849 alla guida del Berlin Reformgemeinde di Berlino. Holdheim distingueva nella Bibbia le componenti religiose eternamente valide dagli elementi legati al tempo e alle condizioni locali. Dopo la distruzione del Santuario di Gerusalemme e dello stato ebraico nel 70 e.v. ogni cosa collegata a questi due elementi doveva considerarsi abolita: in questa categoria Holdheim includeva l’intera “legge cerimoniale”: “Ai tempi del Talmud, aveva ragione il Talmud; nella mia epoca ho ragione io”. Holdheim considerava la sua epoca come l’alba di un’era messianica di fratellanza universale, e riteneva il cerimonialismo un ostacolo alla fratellanza. Di qui una serie di riforme radicali: sostituzione del Sabato con la Domenica; abolizione del secondo giorno festivo diasporico; preghiera a capo scoperto e in comune tra uomini e donne; abolizione della lingua ebraica, dello Shofàr, del Tallèt, della benedizione sacerdotale.
Ancora più estreme erano le posizioni di una “Società degli amici della Riforma”, fondata a Francoforte nel 1842, che auspicava per la Riforma uno sviluppo illimitato e tra l’altro scoraggiava la circoncisione.
Su posizioni relativamente più moderate si pose Abraham Geiger (1830-74), illustre scienziato dell’ebraismo, tra i primi ebrei del suo tempo ad applicare al testo biblico i metodi della ricerca scientifica. Mentre Holdheim sosteneva la necessità di una rivoluzione, Geiger introdusse il concetto dell’evoluzione permanente: ogni epoca ha avuto un suo tipo differente di ebraismo: quello biblico non era uguale a quello rabbinico; la tradizione aveva garantito la possibilità di un costante adattamento; quindi tradizione diventa sinonimo di cambio. Di qui la possibilità e la necessità di modificare l’ebraismo secondo la condizione attuale. Pur poggiandosi sulla Bibbia e la tradizione talmudica, Geiger non considerava vincolanti né l’una né l’altra: era piuttosto lo “spirito dell’epoca” a condizionare le scelte attuali, con la stessa autorità di una rivelazione divina. Le idee costanti dell’ebraismo erano per Geiger il monoteismo e la legge morale; dovevano pertanto mantenere il loro valore solo i riti che esprimevano queste idee, al resto dei riti si potevano rinunciare. Di qui un approccio più tradizionale nelle pratiche di Riforma, che non risparmiò comunque l’eliminazione dai formulari di preghiera di ogni componente nazionale. Dal 1844 si tennero in Germania varie conferenze di rabbini favorevoli alla Riforma, con lo scopo di definire unitariamente le modifiche da introdurre. Questi congressi denunciarono la presenza di opinioni discordanti sull’indirizzo del movimento riformista; nella pratica le posizioni radicali di Holdheim ebbero ridotta rappresentanza, mentre prevalse la concezione geigeriana.
I gruppi conformi a queta concezione preferirono definirsi “Liberali”, riservando il termine di “Riforma” al Berlin Reformgemeinde. Va precisato tuttavia che la terminologia non è univoca e tuttora nel mondo ebraico i due termini sono variamente intesi.
La Riforma attraversa l’Oceano
Nella seconda metà dell’Ottocento il centro del movimento si spostò negli Stati Uniti. Nel 1880, di duecento Sinagoghe esistenti in quel paese, solo dodici si dichiaravano non riformiste. La situazione si invertì bruscamente subito dopo, con l’arrivo delle grandi ondate migratorie dall’Europa Orientale. Nel frattempo la Riforma americana definì le sue posizioni; in un congresso del 1885 a Pittsburg fu approvata una “piattaforma” radicale che tra l’altro rifiutava la legislazione rabbinica, le regole alimentari, la concezione nazionale ebraica, e spostava il Sabato alla Domenica; posizioni vicine a quelle di Holdheim. Ma nel tempo la realtà in un mondo in evoluzione, ben differente dall’immagine ottimistica che aveva animato i primi riformatori, costrinse a una revisione di molti postulati iniziali; lo stesso rapporto, inizialmente molto critico verso le forme di osservanza, fu successivamente molto ridimensionato. L’evoluzione del pensiero riformista è documentata in una successiva “piattaforma”, quella di Columbus, dal nome della città dell’Ohio dove nel 1937 si tenne un’importante assemblea (vedi riquadro). Anche il rapporto con il Sionismo, inizialmente nettamente contrario, è stato rimesso in discussione.
Il movimento conservativo, “controriforma” americana
In una posizione intermedia tra l’ebraismo ortodosso e quello riformato si colloca il conservatorismo, movimento sorto negli Stati Uniti nella seconda metà dell’ottocento per la convergenza di diverse tendenze emerse nella discussione sulla Riforma.
Considerato dagli ortodossi come una sorta di riforma minore, e dai riformisti e dai conservatori stessi come una “contro riforma”, il movimento espresse fin dall’inizio un atteggiamento di apertura verso l’innovazione nella pratica religiosa, ma si discostò radicalmente dal movimento riformista quando venne adottata la radicale piattaforma di Pittsburgh. Il conservatorismo raccoglieva intorno a sé le forze che riconoscevano un valore primario alla tradizione precedente, pur non escludendo la necessità di introdurre modifiche nella pratica religiosa. Nelle sue formulazioni dottrinali di principio il movimento mantenne la concezione nazionale ebraica, l’idea della rivelazione divina a Israele, il rispetto per la lingua ebraica. Solomon Schechter (1830-1915) illustre studioso dell’ebraismo, indicò come basi ideologiche tre obiettivi: l’unità dell’Israele “universale” (nella definizione di Schechter è utilizzato il termine “cattolico”, che va ovviamente inteso nel senso etimologico), la perpetuazione della tradizione e lo studio della dottrina giudaica. Sul piano pratico le innovazioni apportate alla tradizione furono in genere di minore rilevanza e disciplinate da accordi unitaria tra i rabbini dirigenti il movimento: ma su questo punto, sui principi da seguire, sulle conseguenti possibili fratture con l’ebraismo ortodosso vi è stata, e continua tuttora una discussione molto vivace. Un esempio di decisione controversa fu l’autorizzazione ad usare mezzi di trasporto di Sabato per recarsi in Sinagoga. Sul piano formale la Sinagoga conservativa ha taluni segni di ambiente non ortodosso, con l’uso — limitato — di preghiere in inglese, la tolleranza per la non divisione dei sessi, la musica dell’organo. La centralità della Sinagoga nella vita comunitaria è sottolineata dall’attenzione a creare edifici di grande decoro: in questo spirito, ad esempio, fu decisa la costruzione a Philadelphia negli anni ’50 di una Sinagoga conservativa, progettata dal più grande architetto americano, Frank Lloyd Wright, e che rimane nel suo genere un capolavoro.
Gli sviluppi recenti
Dopo la distruzione dell’ebraismo tedesco il centro del movimento riformista è negli Stati Uniti; dal 1926 esiste una rappresentanza unitaria nel World Union for Progressive Judaism, con branche in 26 nazioni. i sono delle scuole per la preparazione dei rabbini delle comunità riformate a Londra, Parigi e negli Stati Uniti, ove l’istinto principale, di rilevanti tradizioni culturali, è l’Hebrew Union College — Jewish Institute of Religion, con sedi a Cincinnati, New York, Los Angeles, e Gerusalemme. La discussione ideologica sulle basi della Riforma è sempre molto viva, specialmente nelle nuove classi dirigenti del movimento negli Stati Uniti, e si delineano almeno tre principali diverse tendenze nell’interpretazione del ruolo del movimento; resta poi aperta una questione fondamentale, quella della dirigenza unitaria.
Anche per il movimento conservativo la sede centrale è il Jewish Theological Seminary of America, fondato a New York alla fine del secolo scorso. L’istituto vanta la più grande biblioteca ebraica del mondo e una tradizione di insegnamento di elevata qualità sin dalle origini. Tra gli insegnanti dell’ultima generazione è a tutti noto il nome di Abraham Joshua Heschel, recentemente scomparso. I rabbini conservativi si riuniscono in un’organizzazione unitaria, dal 1962 definita “Rabbinical Assembly, the International Association of Conservative Rabbits”.
La larghezza dell’impostazione ideologica del movimento conservativo ha consentito lo sviluppo di ideologie articolate nel suo interno. Di particolare rilievo il “Ricostruzionismo”, sostenuto da Mordechai M. Kaplan, e con strutture organizzate dal 1922; dal 1968 la tendenza alla delimitazione del gruppo si è manifestata con la fondazione di una propria scuola rabbinica, il Reconstructionist Rabbinical College di Philadelphia.
In questo secolo il consenso intorno al movimento conservativo negli Stati Uniti è progressivamente cresciuto, divenendo il punto di riferimento naturale della generazione dei figli di emigrati dall’Europa che si inserivano nella vita americana pur volendo conservare il legame con la tradizione.
Nel 1970 si valutava intorno ai 2/5 degli ebrei americani legati ad un’istituzione sinagogale la componente conservativa. Negli ultimi anni si registra tuttavia una crisi di affiliazione nelle giovani generazioni, anche per un’attrazione concorrenziale verso le organizzazioni ortodosse.
L’evoluzione del pensiero riformista
Dalla “piattaforma di Pittsburgh”, 1885 | Dalla “piattaforma di Columbus”, 1937 |
Sulla Torà e la legge:“Riconosciamo nella legislazione Mosaica un sistema di educazione del popolo ebraico per la sua missione durante la sua vita nazionale in Palestina, mentre oggi accettiamo come vincolanti solo le cerimonie che elevano e santificano le nostre vite, mentre rifiutiamo tutte quelle che non sono adatte alle vedute e ai costumi della moderna civilizzazione…Riteniamo che tutte le leggi mosaiche e rabbiniche che regolano dieta, purezza sacerdotale e abito, originarono in tempi e sotto l’influenza di idee interamente estranee al nostro presente stato mentale e spirituale… La loro osservanza ai nostri giorni porta più a ostruire che a migliorare la moderna elevazione spirituale…”. | Sulla Torà e la legge:“Il popolo di Israele, per mezzo dei suoi profeti e sapienti, ha raggiunto particolari e nobili realizzazioni nel campo della verità religiosa. La Torà, orale e scritta, testimonia la coscienza sempre crescente di Dio e della legge morale… Poiché la Torà è il prodotto di processi storici, alcune norme hanno preso il loro potere coercitivo nel corso delle generazioni… Tuttavia essa funge da grande ed eterno unificatore di ideali spirituali, fonte viva d’Israele. Ogni generazione ha l’obbligo di adattare le parole della Torà ai suoi bisogni fondamentali secondo lo spirito del Giudaismo…Il Giudaismo, come modo di vita, richiede non solo l’osservanza dei precetti sociali, ma anche di norme pratiche quali il Sabato e le feste; il mantenimento e il potenziamento degli usi, simboli e cerimonie che hanno valore ispirativo, la coltivazione di forme distintive di arte e musica religiosa e l’uso dell’ebraico, insieme alla lingua locale, nel culto e l’istruzione”. |
Sul Messianesimo:“Riconosciamo, nell’era moderna di cultura universale di cuore e intelletto, l’avvicinarsi della realizzazione della grande speranza messianica d’Israele per lo stabilimento del regno della verità, giustizia e pace tra tutti gli uomini”. | Sul Messianesimo:“In ogni generazione lo scopo del popolo d’Israele è stato di servire come testimonianza a Dio e come scudo contro ogni forma di paganesimo e materialismo. In questo vediamo lo scopo storico: nello stabilimento del regno dei cieli e la fratellanza universale, la giustizia, la pace e la verità del mondo. In ciò vediamo la nostra coscienza messianica”. |
Sulla condizione nazionale e il Sionismo:“Ci consideriamo non più una nazione, ma una comunità religiosa, e pertanto non aspettiamo né un ritorno in Palestina, né un c ulto sacrificale diretto dai discendenti di Aaron, né la restaurazione di alcuna delle leggi riguardanti lo Stato ebraico”. | Sulla condizione nazionale e il Sionismo:“Il Giudaismo è l’anima di cui Israele è il corpo… Anche se riconosciamo nella lealtà di gruppo degli ebrei che si sono allontanati dalla tradizione religiosa un legame che ancora li unisce a noi, crediamo che il popolo di Israele viva nella sua fede e a motivo della sua fede…Nella costruzione della terra di Israele — terra consacrata dai ricordi e dalle speranze del nostro popolo — vediamo la grande possibilità del rinnovamento della vita di molti del nostro popolo. Tutto l’ebraismo ha l’obbligo di aiutare la sua costruzione come patria ebraica, per farne non solo un rifugio degli oppressi ma anche un centro di cultura ebraica e vita spirituale”. |
La Riforma in Italia
Si dice che in Italia la Riforma non abbia attecchito. In realtà vi è stata, seppure mediata da un controllo ortodosso, una “riforma strisciante”, di cui non ci si accorge più. Ma perché l’ebraismo italiano ha resistito alle provocazioni maggiori? Qualcuno dice perché era forte il legame con l’ortodossia: ma le cose non stanno esattamente così…
Il movimento di Riforma, nato in Germania agli inizi del secolo scorso, e penetrato poi in Austria, Ungheria, Francia e Inghilterra, e infine nel nord-America, non ebbe una sostanziale influenza sull’ebraismo italiano. Solo alcune modificazioni del culto pubblico, in realtà non molto fondamentali, furono introdotte nelle comunità italiane, quali l’omissione di qualche parte della liturgia, l’introduzione dell’organo nelle sinagoghe e la celebrazione della maggiorità religiosa per le ragazze.
Tentativi di ritoccare in parte il servizio liturgico furono promossi soprattutto nel Piemonte; a favore di ciò si batté principalmente il rabbino Samuele Olper, nella seconda metà del secolo XIX, e non del tutto contrario fu anche il rabbino Lelio Della Torre, insegnante al Collegio Rabbinico di Padova. I tagli nel rituale, tuttavia, non intaccarono mai parti essenziali, né si ebbe il passaggio all’italiano nella liturgia, a parte il caso di alcuni brani particolari come la benedizione per il sovrano.
Il sermone in italiano non era una novità: da secoli in Italia i rabbini predicavano nella lingua locale. Cambiò la pianta sinagogale (da bipolare a basilicale): ma fu più segno di acculturazione che di vera Riforma.
Ci furono iniziative, da parte di un certo numero di rabbini del secolo scorso, tendenti a introdurre modificazioni più sostanziali nella liturgia; a Torino si tentò di abolire il secondo giorno di Mo’èd (non comandato dalla Torà, e osservato solo nella diaspora, il ricordo di antiche consuetudini) e di abbreviare il periodo di lutto. Ma tutto ciò non ebbe che un seguito locale e di breve durata, e trovò l’opposizione dei più grandi rabbini italiani dell’epoca, influenzati probabilmente, fra l’altro, dalle due forti personalità di Elia Benamozegh e di Samuele David Luzzatto (per quest’ultimo vedi pag. 18), che pur con differenti approcci ebbero un atteggiamento risoluto contro la Riforma, arginandone sul nascere l’attecchimento in Italia.
Tuttavia, in particolare per la riforma della liturgia, l’opposizione a queta venne, più che dal ceto rabbinico, proprio dal largo pubblico. Secondo Attilio Milano, “questo anche se ormai assisteva raramente alle funzioni religiose e non ne afferrava che parte del significato, anche se recitava a stento le preghiere ed ancora più a stento ne comprendeva il contenuto, pure considerava intangibili le une e le altre” (in Storia degli ebrei in Italia, Einaudi 1963, pag. 374).
Un elemento da tener presente nella valutazione dell’insuccesso dei tentativi di riforma in Italia è l’assenza stessa di alcuni dei motivi che causarono la nascita della riforma negli altri paesi europei. Essa era spinta, almeno agli inizi, dalla necessità di assicurare un maggior decoro estetico al culto sinagogale: ma “il problema estetico evidentemente era seguito i Italia molto meno che altrove; un certo estetismo nelle sinagoghe si aveva già, sia per le sinagoghe generalmente con pretese architettoniche e non prive di un certo gusto artistico, sia per le musiche generalmente curate e talvolta esattamente trascritte in note, sia per l’ordine e la precisione nella recitazione delle preghiere, che sono tradizionali in Italia; e del resto alcune innovazioni, quali l’uso del coro e dell’organo, che altrove furono o sono segno discriminante del distacco dalle tradizioni ebraiche e quindi duramente avversate da chi non voleva derogare da esse, vennero introdotte senza che vi si ravvisasse un’espressione della riforma, e come consone alla tradizione vennero riconosciute da eminenti personalità rabbiniche, come il grande Maestro Scemuel Zevì Margulies, che, giunto in Firenze da uno degli ambienti in cui l’avversione all’organo era più viva, trovò invece giustificato e naturalissimo mantenervelo” (M. E. Artom, Tentativi di riforma in Italia nel secolo scorso e analisi del fenomeno nel presente, Rassegna Mensile di Israel XLII, 355-366, 1976).
Ma il motivo principale per cui la riforma non attecchì in Italia va ricercato probabilmente nelle caratteristiche particolari del gruppo ebraico italiano; in Italia gli ebrei erano “attratti sempre meno dalla precettistica religiosa e solo un po’ dalla pompa cerimoniale”, l’ebreo italiano considerava “la propria crisi religiosa come un fenomeno personale: troppo profonda per essere sanata da una semplice riforma di culto, e troppo transitoria per mettere a repentaglio, con dei ritocchi, la stabilità delle credenze e delle pratiche religiose dei propri fratelli di fede. L’ebreo italiano moderno si è potuto allontanare dall’osservanza religiosa, ma ha tenuto a lasciare intatto quello da cui si discostava” (A. Milano, op. cit.).
Non dissimile è l’interpretazione storica che del fenomeno dà M. E. Artom: il gruppo ebraico in Italia “sia per la sua esiguità numerica, in termini assoluti ed in proporzione con la popolazione circostante, sia per il maggior contatto che aveva avuto da secoli con la cultura e con l’ambiente dei suoi conterranei, si sentiva assai meno come costituente un gruppo omogeneo e distante dal resto della popolazione; …essendo già giunto alla metà del sec. XIX ad un punto di assimilazione molto più avanzato di altri gruppi, sentiva molto meno la necessità di una riforma, cioè di un’azione collettiva ed in un certo senso autorizzata, che avallasse le deviazioni dalla tradizione stessa una giustificazione ai suoi atteggiamenti ed alle sue azioni. Oltre a ciò, vivendo in un ambiente cattolico e non protestante quale era la maggioranza della Germania nel secolo scorso, era molto più incline a trovar naturale che la vita del “clero” fosse diversa da quella del laico — cioè non chiedeva riforme alle norme tradizionali, che magari era bene, anche a parer suo, che fossero seguite più o meno scrupolosamente dai “preti” (rabbini), mentre per se stesso, che non faceva parte del clero, non avevano più valore le innumerevoli regole religiose, che trasgrediva senza cercare a ciò nessuna giustificazione teologica o ritualistica. …Così non lo disturbava troppo il fatto che in sinagoga si leggessero noiosi testi in una lingua ormai per lui incomprensibile, come era incomprensibile alla maggioranza il latino usato in chiesa; …a certi riti strani, lontani dalla sua memoria occidentale, si sottraeva facilmente, magari con la compiacente complicità dei rabbini “comprensivi” — per es. non trovava più necessario mettersi i Tefillìn, lasciati solo in retaggio al clero; in qualche Comunità, per es., si stabiliva che i Tefillìn dovessero esser messi in una stanzetta appartata, perché, ohibò, non si dovesse assistere nel sacro Tempio alla scena indecorosa di gente che si scopriva il braccio fino al gomito — e questo naturalmente facilitava la tendenza a far cadere in disuso la Mizvà dei Tefillìn stessi… Gli ebrei italiani, in genere, non hanno portato la celebrazione dello Shabbath alla domenica, come facevano e fanno certi riformati, che dedicano cioè la domenica, o parte di essa, al culto ed alla spiritualità ebraica, ma hanno sostituito lo Shabbath con la domenica cristiana, o meglio con la domenica laica italiana…; se l’ebraismo italiano non è formalmente riformato, è più lontano degli stessi movimenti riformati dalla genuina espressione del popolo di Israele. In sostanza, se la riforma è un compromesso (magari indesiderabile e mal riuscito) tra la vita tradizionale ebraica e la completa assimilazione, la vita della maggior parte degli ebrei d’Italia è di completa assimilazione” (op. cit.).
Artom conclude tuttavia affermando che se è vero che “l’assenza di riforma in Italia, dunque, non è da considerarsi tanto come un simbolo di maggior attaccamento dell’ebraismo italiano nel suo insieme alle tradizioni, ma piuttosto come una conseguenza del molto maggiore e più profondo allontanamento da esse, di una posizione di disinteresse, di sufficienza nei loro confronti”, d’altra parte “il fatto però che la riforma non abbia attecchito ha evitato la scissione tra gli elementi ortodossi… ed i riformati, avvenuta con conseguenze tanto deleterie in altri Paesi, ed ha dato modo, comunque, a quei pochi singoli che volevano mantenere o faticosamente riconquistare le tradizioni neglette, di trovare almeno un embrione di cornice che facilitasse il loro compito, e tale situazione ha anche permesso ogni tanto uno sprazzo di rinascita ebraica”.
Riforma strisciante
Un esempio di “riforma strisciante”, e di perbenismo all’italiana: dal regolamento dell’Oratorio di Asti, del 1889:
1) Tutte le preghiere e recite dovranno farsi dall’Ufficiante, in conformità delle norme suggerite dal Consiglio e dal signor Capo Culto.
2) Sono assolutamente interdette al pubblico le risposte finora usitate. È parimenti proibito in modo assoluto d’accompagnare a voce la recita delle preghiere fatte dall’Ufficiante.
3) È vietata l’applicazione dei Tefillìn (Filatterio) nell’oratorio. I fedeli, per adempiere a quel precetto, dovranno applicarli nella camera attigua destinata a spogliatoio, e, terminata l’ufficiatura, dovranno parimenti recarsi nella camera stessa a ritoglierli.
5) È permesso l’uso del Taled, purché pulito e decente, e quale il decoro richiede.
7) Le cerimonie d’onore cessano d’esser fatti da privati. L’estrazione della Bibbia sarà sempre fatta da chi ufficia.
9) Sono soppressi i complimenti d’uso dopo la lettura di ciascuna qerjà (lettura di un brano della Torà).
10) È soppressa pure la Benedizione, che per antica consuetudine viene dal Capo Culto impartita ai bambini.
12) È vietata nel modo più assoluto la cerimonia della battitura delle ‘aravòth (salici, un mazzetto di rami vengono battuti o sfogliati come simbolo del perdono di Dio) nel giorno di Hosha’ anà Rabbà (corrispondente al 7° giorno di Sukkòth).
18) La Birkhàt Kohanìm finora celebrata dal Kohèn è soppressa, riservandone la consueta recita all’ufficiante.
(da: Augusto Segre, Memorie di vita ebraica, Bonacci, Roma 1979, p. 276-7).
L’ebraismo ortodosso dette alla Riforma diverse risposte: dalla chiusura estrema ad un atteggiamento di confronto. Il Pensiero di S. R. Hirsch e S. D. Luzzatto.
Nonostante gli sforzi dei movimenti di riforma di estendere la propria sfera d’influenza, la gran parte delle istituzioni ebraiche ufficiali in Europa rimasero “ortodosse” (termine che fu introdotto dai riformisti per designare i loro oppositori tradizionalisti). Ma accanto a una ortodossia caratterizzata da una rigida chiusura a qualsiasi innovazione e da una fedeltà assoluta ai modi di pensiero e di comportamento delle generazioni passate, si sviluppò una diversa corrente tradizionalista, denominata “neo-ortodossia”, che è attualmente predominante nel mondo occidentale. In realtà più che una nuova ortodossia, si trattò di un risveglio dell’ebraismo del periodo arabo-spagnolo e di quello dell’epoca rinascimentale in Italia, che accanto a una rigorosissima aderenza all’osservanza delle tradizioni poneva una piena partecipazione alla scienza e alla cultura dell’epoca.
L’origine della neo-ortodossia si può far risalire a Mosè Mendelssohn (1729-1786), il fondatore dell’illuminismo ebraico (haskalà), che pur rimanendo fedele all’ebraismo tradizionale tentò di mostrare come fosse essenzialmente in armonia con il razionalismo della cultura del 18° secolo. Sia il successivo movimento di riforma, sia la neo-ortodossia si svilupparono dall’opera di Mendelssohn e dei suoi seguaci: la neo-ortodossia nasce come reazione alla riforma e si sviluppa parallelamente a questa, e le è per certi versi analoga, pur se si pone all’estremo opposto.
Il più valido rappresentante della neo-ortodossia nel secolo scorso fu in Germania Sansone Raffaele Hirsch (1808-1888), che ruppe ogni legame con l’ebraismo riformista e, come rabbino di un gruppo ortodosso di Francoforte, fece della sua comunità un’organizzazione religiosa con scuole moderne e istituzioni sussidiarie, divenuta poi modello per altre comunità in Germania e in diversi paesi, e indicò la possibilità di una vita pienamente pervasa dalla tradizione ebraica ma anche totalmente integrata nella civiltà occidentale.
Uno dei più fermi oppositori della riforma in Italia fu Samuele David Luzzatto (Shadal), certamente la figura dominante dell’ebraismo italiano nel secolo scorso, e tra le maggiori personalità di tutto il mondo ebraico. Egli fu il più grande studioso della Bibbia dei suoi tempi, e con i suoi numerosi scritti in ebraico e in italiano ebbe una parte assai importante nello sviluppo della Scienza dell’ebraismo. In contatto con i più eminenti pensatori ebrei d’Europa, Shadal vide nella scienza e nella cultura occidentali uno strumento atto a facilitare uno studio dell’ebraismo; questo studio tuttavia non era fine a se stesso, ma aveva, oltre a un interesse storico-scientifico, la funzione di rivelare a tutti gli ebrei i tesori spirituali del popolo d’Israele.
Shadal (1800-1865) nacque a Trieste, e si trasferì poi a Padova dove era stato nominato docente del Collegio Rabbinico. Oltre all’insegnamento, egli poté dedicarsi a un’opera di ricerca, di indirizzo storico-filologico, di vaste dimensioni. Fondamentali sono stati i contributi di Shadal allo studio della Bibbia e della lingua ebraica, alla ricerca e alla raccolta della poesia ebraica medioevale, allo studio della formazione delle preghiere.
La personalità di Shadal si sviluppò sullo sfondo del clima culturale tipico dell’ebraismo italiano. Egli fu il rinnovatore della tradizione illuminata dei dotti ebrei rinascimentali (ricordiamo per esempio Azarià de’ Rossi, il primo a intraprendere uno studio critico della letteratura rabbinica), che non furono mai chiusi all’influenza culturale dell’ambiente in cui vivevano, e che spesso vi parteciparono attivamente. Il contatto fr ala cultura umanistica e lo studio dalla Torà erano dunque per Shadal parte di una gloriosa tradizione, che senza difficoltà si accordava con la fede assoluta e l’osservanza delle mitzvoth.
La fede nell’esistenza di Dio e nella rivelazione della Torà erano per Shadal princìpi basilari, verità filosofiche e storiche che non contrastavano la ragione umana. Ma nonostante queste sue forti convinzioni e l’osservanza scrupolosa delle mitzvoth fu tacciato di eresia da certi gruppi di ortodossi per la posizione critica assunta nell’ambito dei suoi studi storico-filologici. In verità, la fede nell’origine divina della Torà spinse Shadal a una risoluta opposizione ai movimenti di riforma che sorgevano in Germania ad opera di studiosi e pensatori ebrei, con alcuni dei quali Shadal era in contatto per il suo lavoro di ricerca scientifica, e che come lui erano stati influenzati dal pensiero di Mendelssohn. Ma mentre quelli investigavano nel patrimonio culturale ebraico considerandolo solo una reliquia del passato di scarsa rilevanza per il presente, Shadal vi vedeva ancora la vera essenza dell’ebraismo.
Tuttavia, anche nell’opposizione alla riforma Shadal rivelò il suo forte spirito critico, mostrando una certa elasticità di vedute, in particolare per quanto riguarda l’osservanza delle norme di origine rabbinica. Un adattamento di alcune di queste alle condizioni di vita moderne non veniva da lui escluso, ma a patto che tali modificazioni venissero effettuate secondo i modi che la tradizione stessa stabilisce come corretti. Secondo M. E. Artom può essere che “una mancanza di chiarezza, e forse anche una certa mancanza di coerenza su questo punto, derivassero dalla sua decisione di essere uno studioso dell’ebraismo, e non un rabbino; egli, cioè, non considerò per se stesso un obbligo chiarire fino in fondo questo problema, che riguarda una decisione giuridica più che la ricerca della verità e dei fondamenti dell’ebraismo” (dall’Introduzione, in ebraico, a una raccolta di scritti di Shadal, edita dal Mossad Bialik, Gerusalemme 1976).
Uno dei principali temi di discussione nella Riforma è quello della legittimità dei cambiamenti alla tradizione, e dell’autorità che è preposta a questi interventi. Come stanno effettivamente le cose in una prospettiva ortodossa? Introduciamo qualche elemento di chiarimento. Prima di tutto è da tener presente che esiste una figura alla quale è attribuita la facoltà e l’autorità di decidere su argomenti controversi: è il rabbino, che proprio questa funzione ha come elemento fondamentale della sua attività (insieme a quella dell’insegnamento, mentre tutto il resto è un’aggiunta non essenziale, spesso introdotta proprio dallo spirito della Riforma). Più il problema è complesso, più rabbini devono riunirsi per prendere una decisione unitaria (o maggioritaria) e di conseguenza autorevole: è il concetto di Beth Din, di tribunale rabbinico. Anticamente esisteva una sorta di gerarchia di tribunali, con a capo il Sinedrio di 71 membri che siedeva nel Santuario; le sue decisioni dovevano essere vincolanti per tutto il popolo di Israele. Con la perdita dell’indipendenza nazionale il potere del Sinedrio è diminuito fino a che, con la dispersione sempre più accentuata, non è più esistito un unico organo capace di deliberare per l’intera comunità ebraica. Ciò non toglie che sia impossibile deliberare oggi, e che non lo sia stato in passato; ma la differenza sostanziale sta nell’estensione geografica del potere decisionale. In pratica l’autorità, locale decide per la sua comunità; se altri accettano la decisione, il potere si estende ma non è mai ubiquitario. Quindi volendo ricostruire l’unità decisionale bisognerebbe tornare all’autorità centrale: ricostituzione di cui molto si parla, ma per la quale sarebbero necessarie una serie di importanti premesse, quali ad esempio l’unanimità dei rabbini di Erez Israel nella delega ad un unico Maestro che poi nomina i suoi 70 colleghi (*). Nella situazione attuale comunque un potere decisionale esiste sempre, ma la sua autorità è strettamente legata alla sua autorevolezza riconosciuta.
Un altro punto importante da sottolineare è quello del metodo: in teoria qualsiasi decisione di un tribunale rabbinico è possibile, al limite contro norme antiche e consacrate, secondo le necessità del momento (e così è avvenuto in passato), purché si rispettino quelle che potremmo chiamare le “regole del gioco”: cioè le norme e i criteri che stabiliscono in che modo si deve deliberare. È questo modo che stabilisce la legittimità di una delibera, quale che sia il suo contenuto: se le regole del gioco sono rispettate, si sta dentro la tradizione, anzi la si continua; altrimenti ci si pone al difuori.
È proprio il rispetto di questa norma che garantisce l’organicità di un qualsiasi provvedimento, che nasce come prosecuzione, come modifica dall’interno; in questa logica sarà ben difficile che, almeno nella situazione attuale, anche autorità potenti come il Sinedrio auspicato possano mettere in discussione elementi basilari come invece fece, con inusitata rapidità e violenza, la Riforma ai suoi inizi.
NOTA
(*) Rav Maimon Fishman, uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza e ministro dei culti dello Stato d’Israel, tentò di spingere i rabbini a riunirsi per discutere la ricostruzione del Sinedrio, ma ebbe scarso seguito.
La Riforma? Una “sconcissima” cosa
Cosa nuova non è abusare delle parole e colorare con bei nomi sconcissime cose (…).
Eccocene un funesto esempio. Alcuni Israeliti, bramosi di esonerarsi dalle pratiche religiose annesse al Giudaismo, e volendo fare con una specie di legalità, in guida da non avere ad essere riguardati quali empi trasgressori della Legge di Dio, mascherando il loro progetto, di totalmente abolire la Legge mosaica, sotto lo specioso nome di Riforma. Ma questo nome è egli adeguato al disegno di questi uomini?
Riformò Lutero la Chiesa, depurandola di varie credenze e di varie pratiche, che vi si erano nel corso de’ secoli intruse, e restituendo il cristianesimo quale egli era, o quale egli credette che esso fosse, nei suoi primordi. Così tra noi i Caraiti hanno creduto riformare il Giudaismo, attenendosi scrupolosamente a ciò, che credettero essere il senso delle parole di Mosè. Ma con qual fronte osano chiamarsi Riformatori del Giudaismo uomini, i quali “rinunziano formalmente a tutti i riprovevoli esclusivi precetti e costumanze”? Il Giudaismo fu sin dalla sua origine una religione esclusiva. La famiglia d’Abramo si è sempre creduta un popolo eletto, una nazione di sacerdoti. l’Israeliti furono effettivamente i depositari di quelle sante dottrine, che, uscite dal loro grembo e propagatesi sulla faccia della terra, dissiparono le tenebre del mondo morale, e partorirono quel molto o poco di bene, di cui va superba la moderna civiltà, la quale è ancora ben lungi dalla sua perfezione, atteso l’elemento greco, che in essa è sempre in conflitto con l’elemento abramitico. In qualità di sacerdoti del genere umano, gl’Israeliti furono distinti con varie pratiche esclusive, le quali hanno potuto conservar loro un’esistenza, che conservare non seppero tante nazioni assai più forti e potenti. (…)
Il Giudaismo è quindi essenzialmente un sacerdozio, e per conseguenza una religione esclusiva, carica di pratiche esclusive. È bensì lo spirito del Giudaismo una religione, una moralità universale (…) Ma il giudaismo, come Sacerdozio, come depositario e come propagatore di questa Dottrina, è inseparabile da molte pratiche esclusive; e chi le abolisce non riforma, ma distrugge il Giudaismo. È libero ognuno di rinunziare a questo Sacerdozio, a questa religione esclusiva; chiunque vuole può dal ceto giudaico separarsi; ma volersi chiamare Israelita, e volersi esonerare da tutte le pratiche, che contraddistinguono l’Israelita, questa è una contraddizione. Né vale il fingere di limitare le leggi esclusive, che si vogliono abolire, coll’aggiunta dell’epiteto “riprovevoli”, quando non si spiegano i caratteri, che render possono un atto riprovevole. E d’altra parte i fatti dimostrano che i partigiani di questa Società non hanno nulla di sacro, e rigettano la stessa circoncisione, che è già da 36 secoli precipua caratteristica degli Abramiti. (…)
Nel mentre che anche noi riconosciamo che l’attuale giudaismo contiene varie modificazioni ed aggiunte, dalla pietà e dalla profonda sapienza degli antichi Sinedrii portate nel Mosaismo, a seconda dei bisogni dei variati tempi e dietro le norme tradizionalmente tramandate dallo stesso Mosè; come pure varie dottrine intruse ne’ bassi tempi sotto l’influenza d’una cultura straniera; crediamo ben diversa dalla nostra essere la “convinzione” di questi pretesi riformati, dopodiché essi dichiarano aver del tutto rinunziato all’odierno giudaismo (…).
Se il Giudaismo attuale comandasse azioni men che morali, o indirettamente conducesse ad una Morale rilasciata; o ispirasse sentimenti antisociali, ed antiumani, saremmo prontissimi anche noi a depurarlo o ad abiurarlo. Ma la santità della Morale giudaica è troppo nota; e noi (e chi no?) abbiamo conosciuto e conosciamo troppi esempi di uomini strettamente osservanti le leggi del giudaismo ed insieme modelli d’ogni più rara virtù sociale — uomini, il cui numero va ogni giorno, col crescere dell’indifferentismo religioso, a grave danno della società, diminuendo?
Non esitiamo dunque di dare a quelli tra i nostri correligionarii, le cui convinzioni sono in discrepanza col giudaismo, il seguente consiglio:
Fratelli! abituate nuovamente le vostre mani all’esercizio delle avite costumanze; fatelo in onore dei vostri antenati, che per esse versarono il loro sangue; e, nel farlo, sperate di conseguirne quella contentezza, quell’interna soddisfazione, quella gioia, ch’essi ebbero in mezzo alle vessazioni, e di cui voi, in mezzo alla libertà, agli onori, ed ai piaceri, siete privi. Fatelo, e le vostre convinzioni a poco a poco si cangeranno, e voi comincerete a sentire i vantaggiosi frutti dei volontari sacrifizii; dai quali il vostro spirito acquisterà sempre crescente predominio sulla materia, e si alzerà dalla Morale mondana, basata sulla prudenza o sull’onore, guide ambedue spessissimo fallaci, alla celeste, basata sulla santa Provvidenza, la quale, tosto che comincerete a pensarvi, non mancherà di appalesarvisi, nei grandi avvenimenti e nei minimi, mostrandovi anzi come nulla cosa è piccola, ma le minime essere origine dalle massime.
Il vostro esempio formerà a religione ed a virtù le vostre famiglie e i figli vostri, i quali renderanno beata la vostra vita e la canizie vostra, e voi con lieto cuore benedirete il Dio, che vi elesse e che ci diede la sua legge.
Nello Stato di Israele la Riforma non ha trovato terreno fertile. Ma il problema di confrontare la Torà con le nuove realtà sociali e politiche è vivissimo. Ecco cosa ne pensava Elia S. Artom.
I tentativi di fare sviluppare movimenti di Riforma nello Stato di Israele non hanno conseguito risultati di rilievo: è fin troppo evidente che la Riforma è una creatura diasporica, che proprio nella Diaspora trova la sua ragione di esistere. Ben altri i problemi che pone lo Stato di Israele per chi, di tradizione ortodossa, rileva l’incongruità di alcuni aspetti dell’osservanza tradizionale con la situazione radicalmente nuova per la condizione ebraica che lo Stato ha creato. Il dibattito su questo punto è vivo; uno dei contributi più interessanti è stato portato da Rav Elia S. Artom, nel libro La nuova vita di Israele, Roma 1966. È in un’impostazione di estremo rispetto per la tradizione che Rav Artom scrisse:
“Quello a cui noi tendiamo non è una riforma, ma una costruzione ex novo. Il modo come oggi i fedeli alla Torà la osservano, non in base ad una legge che vada riformata, ma in base ad una consuetudine che acquistò forza di legge, è inconciliabile con l’esistenza dello Stato d’Israele; occorre dunque costruire una legislazione secondo la Torà che metta lo Stato e i suoi membri in condizione di potere osservare la Torà stessa, cosa che, (…) è oggi impossibile. Per chiarire la cosa serviamoci di esempi (…); se si dovesse, in genere, nello Stato ebraico, vietare il far uso di veicoli meccanici di Stato, ma allo stesso tempo si dovessero stabilire delle norme secondo le quali gli agenti di polizia — s’intende, senza nessuna distinzione fra “religiosi” e “liberi” — in certi casi potessero e dovessero di Sabato servirsi di tali veicoli, ciò non sarebbe una riforma od una modificazione di una legge esistente, ma bensì un particolare di un complesso di norme da cui dovrebbe risultare il carattere che il Sabato, istituzione eterna e intangibile, dovrebbe avere ora nello Stato ebraico (…).
E quello che abbiamo detto del Sabato può valere per tutti gli altri aspetti e le altre manifestazioni della nostra vita (…).
Il mantenere in Erez Israel ebraica ed autonoma, la vita identica a quella che si viveva nei centri della Golà vorrebbe dire portare in breve il popolo nostro alla soggezione e all’esilio; il continuare tale vita sarebbe, in sostanza, violazione alla Torà con la conservazione di forme con cui la Torà è stata osservata. E non si tratta di riformare o modificare qualche cosa di esistente, ma di costruire qualche cosa che non è mai esistito: uno Stato regolato dalla Torà nel mondo moderno.
Per un altro rispetto ancora quello a cui miriamo è profondamente diverso dalla “Riforma”. Questa tendeva, in sostanza, a rendere la vita dei singoli ebrei e delle collettività ebraiche nella Golà più simile di quel che non fosse a quella della popolazione dominante, a eliminare caratteristiche ebraiche, a restringere il campo di dominio della Torà: quello a cui noi miriamo, invece, tende a valorizzare le caratteristiche ebraiche, a rendere possibile che queste si sviluppino in modo autonomo, a ridare al popolo ebraico un carattere individuale e ben determinato, ad estendere a tutti i campi della vita pubblica e privata il dominio assoluto della Torà, a permettere quindi ad Israele di esercitare nel mondo quella missione che la Torà gli ha affidata e nei modi da questa indicati”.
Deve essere comunque precisato, per non cadere nell’equivoco, che secondo il pensiero di Rav Artom ogni modifica da Lui auspicata dovrà essere sempre fatta dalle Autorità che secondo le norme della tradizione sono investite ufficialmente a questo compito; e che inoltre,come spiega il figlio di Rav Menahem Emanuele, editore del libro, “è chiaro che l’autore non intende, tra l’altro, toccare minimamente le norme rivolte a tenere Israele distinto dagli altri popoli, come la circoncisione, il diritto familiare, le regole alimentari, la cui osservanza non è legata alle circostanze ed ai tempi”.
Opinioni a confronto
Per necessità di sintesi le opinioni sono state molto semplificate; in realtà, come si è visto, esiste un’ampia varietà di posizioni nella Riforma; e questo vale anche nell’ambito dell’Ortodossia, ove si affrontano, con molte sfumature, “conservatori” e “progressisti”. Le opinioni della Riforma qui riportate rispecchiano le idee iniziali; quelle dell’Ortodossia un approccio piuttosto “progressista”, come può essere quello delle scuole rabbiniche italiane.
Riforma | Ortodossia |
Le basi di fede dell’ebraismo hanno la preminenza sulla prassi. | L’ebraismo è essenzialmente norma pratica di vita che implica una fede. |
È contestata la sacralità della Bibbia; apertura totale alla critica scientifica?. | La sacralità biblica è accettata nella sua globalità, anche se non si rifiuta lo studio scientifico del testo; è ammessa la distinzione tra “assoluto” e “contingente” che però non deve intaccare la parte normativa. |
L’ebraismo è essenzialmente una religione. | La componente nazionale della condizione ebraica non può essere messa in discussione. |
Il messianesimo è un ideale universale. | La raccolta delle Diaspore è parte integrante del messianesimo. |
Per universalizzare l’ebraismo bisogna rinunciare ai suoi segni distintivi. | Anche in una missione universale la precettistica è segno irrinunciabile di una condizione sacerdotale. |
Bisogna adattare la legge alle esigenze della società. | È l’ebreo che si deve adattare alla legge. Non bisogna confondere le esigenze sociali con il desiderio di comodità e la frenesia di assimilazione. |
La legge rabbinica si è sempre adattata nella Storia. | Ogni cambio è legittimo, purché sia fatto secondo le regole stabilite. |
Bisogna creare una nuova normativa semplificata. | Ogni modifica arbitraria e non diffusa crea solo un nuovo sistema discutibile e divide l’unità di Israele. |
Bisogna dare decoro alle funzioni religiose. | Non si deve confondere un auspicabile decoro con la perdita di identità e con la predissequa imitazione dei modelli religiosi della Chiesa Protestante. |
La preghiera, affinché sia comprensibile, deve essere fatta nella lingua locale. | Lo studio è un dovere e l’ignoranza della lingua ebraica non è una giustificazione. |
Per saperne di più
Non esiste in italiano un testo che fornisca dati dettagliati sulla Riforma e le relative problematiche. Per inquadramenti generali si possono comunque consultare, oltre a quanto già citato nelle patine precedenti, testi di storia e di pensiero ebraico, come E. Artom, Storia d’Israele, vol. 3, p. 145-151; I. Epstein, Il giudaismo, Feltrinelli, Milano (ora disponibile anche in una recente ristampa), p. 252-261. La maggiore bibliografia, dopo le prime opere classiche in tedesco, è in inglese; per un primo orientamento sono molto utili gli articoli della Enciclopedia Judaica, “Reform Judaism”, con i relativi richiami bibliografici, nonché le singole voci sui protagonisti e le istituzioni culturali legate ai vari movimenti.
Inserto a cura di Riccardo Di Segni con la collaborazione di Gianfranco Di Segni (autore degli articoli “La Riforma in Italia” e “La reazione alla Riforma”). Consulenza di Shalom Bahbout.
Purim: paradigma della salvezza ebraica
Dove figura il nome di Ester nella Torà? Nel versetto (Deut. 31°, 18): “Ve-anokhì astèr astìr… (Io oscurerò il mio volto in quel giorno)…
Khaghigà 5b
Ai maestri è sempre piaciuto sorprendere gli ascoltatori e i lettori con domande strane e apparentemente assurde e con risposte che — se prese alla lettera — sembrano di una grande ingenuità. Che senso a chiedersi dove si trova il nome Ester nella Torà? i Maestri non sanno che tra Mosè e Ester passano decine di generazioni (dai sette agli otto secoli)? non si rendono conto che il nome di Ester non figura nel testo citato?
Per capire il senso dell’affermazione dei Maestri, bisogna interpretare la loro domanda in questo modo: in quale punto della Torà, anche se in modo allusivo, viene accennato alla salvezza che fu opera di Mordekhai ed Ester?
Nella Torà è scritta la storia ebraica passata, presente e futura e quindi già in essa, e in particolare nella profezia di Mosè, vi deve essere una qualche allusione al tipo di salvezza che caratterizza Purim e molta parte della storia ebraica.
La salvezza può avvenire o in forma palese o in forma nascosta.. Nella liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana Dio si manifesta in forma palese, mentre ai tempi di Mordekhai ed Ester tutto avviene in modo “nascosto”: il volto di Dio si oscurò…
Il miracolo che accompagna tutta l’esistenza ebraica, da manifesto diventa discreto: l’intervento divino segue altre strade, si umanizza: è l’uomo che viene caricato di questa missione di liberazione.
A chi legge con attenzione il libro di Ester non possono sfuggire due cose: in tutta la storia non viene mai fatto direttamente il nome di Dio e tutta la vicenda sembra essere un concatenarsi di eventi del tutto casuali.
L'”assenza di Dio” è tra gli elementi che ha fatto discutere molto i Maestri, prima di arrivare alla decisione di includere la Meghillat Estèr nella Bibbia.
I tentativi fatti per trovare nella meghillà allusioni al Nome di Dio non sono convincenti: quindi, cosa hanno voluto insegnarci gli uomini della Grande Assemblea, quando, pur potendo mettere le mani sul testo della Meghillà, hanno preferito lasciarlo così com’è, senza introdurvi il Nome di Dio?
La storia di Ester sembra essere una catena di eventi casuali: il Grande banchetto di Assuero, la decisione di chiamare la regina Vashtì e il rifiuto di questa di presentarsi, la scelta di Ester, il tentativo di colpo di Stato di Bigtàn e Tereth, scoperto “casualmente” da Mordekhai, l’insonnia del re Assuero, l’arrivo di Amman da Assuero proprio in quella notte…
Mi sembra che i Maestri ci vogliano indicare che sta a noi cercare la presenza di Dio nella storia e in quella ebraica in particolare, e che sta a noi cogliere il fatto che Purim è diventata paradigmatico per tutta la storia che ha inizio con la distruzione del I Tempio e specialmente del II Tempio.
L’eclissi di Dio si è protratta per tutto il periodo del II Tempio, e in particolare, per quello che inizia con la distruzione del II Tempio, quando l’oscurità si è fatta molto più fitta. Ma anche quando saranno nelle terre dei loro nemici, Io non li rifiuterò e non li avrò in abominio” (Levitico 26°): “non li rifiuterò nei tempi di Amman… e tanto più in quelli che seguono la distruzione del II Tempio…”.
Dalla storia di Purim i Maestri hanno dedotto che la salvezza non verrà in un baleno, ma si manifesterà lentamente per poi risplendere con forza: “quando starò nell’oscurità il Signore sarà luce per me”: così all’inizio “Mordekhai tornò alla porta del re”, poi “Amman prese il vestito e il cavallo”, e poi “Mordekhai uscì con un vestito regale dal cospetto del re”, e finalmente “per gli ebrei fu luce e gioia” (Talmud di Gerusalemme Jomà 3:2).
La storia più recente, dall’Olocausto alla rinascita ebraica in Eretz Israel, è una continuazione di Purim, della storia dove cioè tutto sembra casuale e Dio sembra essere assente e indifferente.
Ma forse qualcuno deve ancora scrivere per noi questa Meghillà.
Alcune storie
Dalla tradizione Hassidica
• Quando il Tsemach Zedek aveva cinque o sei anni, il padre, autore del Tanià, gli chiese prima di Purim: “Hai studiato la meghillat Ester?”. Il bambino rispose: “Certo l’ho studiata”. “Hai capito la meghillà?” gli chiese il Rav. Rispose il Tzemach Zedek: “No, non riesco a capire perché Amman ha dovuto fare un palo alto 50 cubiti (= 25 metri): Mordekhai era forse così lungo?”.Il Rav rimase in silenzio.
Dopo, quando fu Purim, il Rav fece un discorso meraviglioso sul versetto: “Si faccia un palo alto 50 cubiti”, e spiegò che Amman voleva elevarsi fino alla cinquantesima porta, quella cioè che secondo i mistici porta direttamente a D., ma che proprio da lì avvenne la sua caduta.
• Il Rabbi Baruch di Medzibod soleva dire: Così come “In ogni generazione l’uomo ha il dovere di considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto³”, così l’uomo deve capire che in ogni generazione ci sono Amman e Mordekhai, ma chi legge la meghillà al contrario, cioè come se quanto è avvenuto ai tempi di Mordekhai e Amman riguarda solo il passato, non ha compiuto la mitzwà.
• I maskilim (ebrei illuministi) della Galizia condussero, com’è noto, una lotta feroce contro i Zadikim e Hassidim e si servirono anche di mezzi bassi come la delazione presso le autorità nei confronti degli “oscurantisti”. Sparlarono anche dello Zadik Sar Shalom di Belz e il governatore della provincia lo invitò una volta a presentarsi da lui. Quando arrivò, il governatore gli disse: “Sappi che io sono il secondo Amman”. Il Zaddik gli rispose: “Anche il primo Amman non ha avuto gran successo”.
La risposta piacque al governatore, ed anche la maestà del portamento dello Zaddik gli fece una grande impressione tanto che continuò a parlare del Giusto con dolcezza e lo assicurò che non gli avrebbe dato più alcun fastidio e lo licenziò con grande onore.
• Il Zadik J. Jechièl Meir di Gostin si trovò in occasione di Purim a Kozk al tempo in cui il Rabbi di Kozk, che era alla guida dei suoi hassidim, si era isolato tanto da non ricevere nessuno per venti anni consecutivi. Il Rabbi di Gostin si fece coraggio e bussò alla porta del Rabbi di Kozk. Il Kozker aprì la porta e esclamò meravigliato: “Cosa succede?”
Rispose il Rabbi di Gostin: È scritto nello “Shulchan Aruch” (il codice contenente le norme ebraiche) che di Purim “a chiunque stende la mano gli si deve dare…”.
Rabbi! Io nudo, ti prego di vestirmi e mettermi le scarpe…
Disse il Kozker: “Se le cose stanno così vieni qui”.
Il rabbi di Gostin entrò con lui nella sua camera, il kozker chiuse la porta e si isolò con lui per molto tempo.
Da quel giorno i hassidim del Kozker ebbero un gran rispetto per il rabbi di Gostin.
Da “Sippuré Chassidim“ S. I. Zevin
Promemoria per Purim• Il digiuno di Ester ha inizio all’alba e termina dieci minuti prima dell’uscita delle stelle. L’orario esatto va richiesto al rabbino della propria Comunità.• Tutti gli adulti in buone condizioni fisiche hanno l’obbligo di fare il digiuno.• Sabato è Shabbat zakhòr (il sabato del ricordo), così chiamato in quanto vi si legge il brano della Torà che richiede a ogni ebreo di ricordare ciò che fece il popolo di ‘Amelek agli ebrei quando uscirono dall’Egitto. Si adempie a questa mitzwà del ricordo soltanto se si ascolta in pubblico la lettura del brano “Zakhòr” dal Sefer Torà.Quattro sono le norme fondamentali che ognuno è tenuto ad osservare di Purim (sabato sera 17 marzo — domenica 18 marzo):• Leggere o ascoltare la lettura del libro di Ester dal rotolo (meghillà)• Fare donazione ai bisognosi: vanno fatti doni ad almeno due persone.• Inviare cibi ad amici, parenti ecc. Si adempie alla mitzwà inviando almeno due cibi (dolci, bevande ecc.) a una persona.• Fare un banchetto.A parte la lettura del libro di Ester che va fatta anche alla sera (sabato) le quattro norme suddette vanno fatte nel giorno di Purim (domenica prima del tramonto).• Nella preghiera delle 18 benedizioni (‘amidà) e nella benedizione dopo il pasto (birkat–ha mazhon) si dice ‘al ha–nissim (per i miracoli accaduti ai tempi di Mordechai e Ester). |
Anticipazione editoriale
Vi proponiamo qui un capitolo dei commenti di Nehama Leibowitz al primo libro della Torà. Abbiamo scelto il triste argomento dei contrasti fra i primi due figli dell’uomo, perché in un’epoca di discordie come quella in cui viviamo, ci sembra di attualità e di prezioso insegnamento. Ma insegnamenti preziosi sono contenuti in tutta l’opera di questa originale commentatrice biblica contemporanea, e questo è il motivo per cui ci accingiamo a tradurre e pubblicare il primo dei suoi cinque libri sulla Torà.
Già questo breve assaggio metterà i lettori in grado di apprezzare sia il valore di studiosa di Nehama Leibowitz, sia la grazia e la leggerezza con cui, seguendo la nostra antica tradizione, essa attualizza la Scrittura per portarla a conoscenza di tutti, perché tutti possano comprenderla e amarla.
Un invito ad amare e a vivere col nostro retaggio più prezioso e antico è appunto l’edizione italiana, che presto uscirà e che qui annunciamo, dell’opera di una delle più vive commentatrici bibliche moderne.
Caino parlò a suo fratello Abele e, mentre erano nel campo, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise. (4, 8)
Questo accadde alla seconda generazione della razza umana. Ci troviamo di fronte alla descrizione di un evento particolare, di una lite fra i due figli di Adamo, o non piuttosto davanti a un contrasto archetipico fra due membri della specie umana, fra i figli dell’uomo? Ecco come i nostri Saggi commentano il terribile evento.
“Caino parlò a suo fratello Abele e, mentre erano nel campo”… Di cosa stavano discutendo? Dicevano: Orsù, dividiamoci il mondo. Uno si prese le terre e l’altro i beni mobili. Uno disse: la terra sulla quale ti trovi è mia, e l’altro rispose: gli abiti che indossi sono miei. Uno disse Toglietili! L’altro: Vola! Nel corso della discussione, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise!
R. Joshua di Sachnin disse a nome di R. Levi: Entrambi si presero le terre ed entrambi si presero i beni mobili. Ma di cosa stavano discutendo? Uno disse: Il Tempio sarà costruito sui miei possedimenti. L’altro disse: Il Tempio sarà costruito sui miei possedimenti, come è detto: “mentre erano nel campo”. Il “campo” non è altro che il Tempio, come è scritto (Micah 3, 12): “Sion verrà arata come un campo. Nel corso della discussione, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise.
Jehudà bar Ammì disse: Si disputavano per Eva. (Bereshit Rabbà, 22, 16)
Dal brano succitato risulta evidente che il Midrash dà alla storia di Caino e Abele un’applicazione universale. Esso non si interessa tanto al caso individuale di Caino e Abele, quanto ai motivi che stanno al fondo dell’umano desiderio di disputare, di fare la guerra, di uccidere e assassinare i propri simili.
A pagina 15 del suo “Darke’ Aggadà”, il Professor Heinemann nota che i nostri Saggi, in contrasto con l’approccio scientifico, non generalizzano il concreto, ma, al contrario, esprimono in termini concreti delle astrazioni.
Nel nostro Midrash vengono date tre risposte per spiegare le cause che stanno all’origine dello spargimento di sangue e dell’assassinio. In base alla prima, esse vengono istigate da considerazioni economiche, la lite sul possesso materiale. In base alla seconda, lo spargimento di sangue è motivato da ragioni religiose e ideologiche: ognuna delle parti sostiene che il Tempio dovrà essere costruito sui territori di sua proprietà, e quindi che è la propria religione che va accettata. La terza risposta fa risalire le radici dello spargimento di sangue e del conflitto alla passione sessuale: “Si disputavano per Eva”.
Il Midrash constata indubbiamente una verità universale, ma ciò emerge forse dal contesto? Si è convenuto che i Rabbini non si preoccupavano tanto degli individui Caino e Abele — i figli dell’Uomo, quanto degli uomini. Il loro scopo non essendo esplicativo, e cioè di chiarire il senso elementare del passo, ma piuttosto di estrarne un principio universale, essi non si sentivano legati dal contesto nella loro ricerca di una risposta alla domanda: “Di che cosa stavano discutendo?”
Caino portò dei frutti della terra un’offerta al Signore. E anche Abele portò dei primi nati del suo gregge,
delle loro parti grasse. E il Signore si rivolse verso Abele e verso la sua offerta, ma per Caino e per la sua offerta non ebbe uno sguardo. (4, 3-5)
Perché Dio non accettò il dono di Caino? Alcuni commentatori trovano la risposta di due allusioni sepolte nel contesto:
“Caino portò dei frutti della terra” — dei meno pregiati. (Rashì)
Rashì deduce questo fatto da una sottile differenziazione che il testo reca nelle descrizioni delle rispettive offerte di Caino e Abele. Abele portò “dei primi nati del suo gregge”, sottintendendo dei più pregiati. Ma Caino portò semplicemente “dei frutti della terra”. Inoltre,nel caso di Abele si nota: “dei primi nati del suo gregge” — il gregge di sua proprietà, mentre Caino portò “dei frutti della terra”. Caino non compì quindi un sacrificio individuale e non deviò dal suo modo di essere per scegliere quanto vi era di meglio nei suoi personali possessi.
Quale dovrebbe essere la reazione di un uomo che ha sbagliato e avverte il proprio errore? Egli dovrebbe certamente preoccuparsi di porvi rimedio, in special modo quando il farlo è in suo potere. Ma Caino non seguì questa via. Al contrario: “Caino era furioso”. Con chi era furioso? Non certo con se stesso:
Il Signore disse a Caino: Perché sei adirato e perché il tuo viso è afflitto?
Sforno spiega nel modo seguente le implicazioni contenute nella domanda di Dio a Caino:
“Perché sei adirato?” — perché eri geloso di suo fratello e urtato dalla mia favorevole disposizione nei confronti della sua offerta?
“E perché il tuo viso è afflitto?” — Se un errore può venire rimediato, non ha senso rimpiangere il passato, ma bisogna piuttosto cercar di ovviare per il futuro.
Quindi seguono le parole chiave del divino messaggio a Caino, in un passo che è stato giudicato uno dei più difficili della Torà:
Se ti comporti bene, non sarai forse sollevato? Se invece non ti comporti bene, il peccato è in agguato alla porta, rivolge a te la sua brama, ma tu puoi dominarlo.
La parola seèt (qui tradotta con “sarà sollevato”) è un verbo o un sostantivo? Malbim lo considera un sinonimo di masset, termine che significa dono o sacrificio. Ecco come egli spiega il nostro versetto:
Egli gli rivelò che il Signore non trovava piacere nelle offerte, ma solo nell’obbedienza (Cfr. 1 Samuele 15, 22 “l’obbedienza è migliore dei sacrifici”). Ciò che conta è che tu migliori i tuoi modi. Non hai portato un’offerta degna, ma migliorare l’offerta non ti aiuterà. Non importa che tu offra un dono più o meno pregiato, visto che il peccato è in agguato alla porta per accusarti. E l’Onnipotente gli spiegò tre cose: (1) che l’istinto cattivo è sempre pronto a farsi avanti e l’uomo dovrebbe quindi esaminare le proprie motivazioni e non permettere ai propri impulsi più bassi di avere la meglio su di sé, visto che essi sono sempre in agguato per avvelenare il suo comportamento; (2) Egli gli spiegò quindi che, seppure le sue passioni più vili bramavano di indurlo in peccato e demoralizzarlo, (3) d’altro canto era il suo potere di dominarle esercitando il libero arbitrio di cui l’uomo è dotato. L’uomo era veramente libero soltanto se dominava la parte bestiale della propria natura, non se lasciava che essa prevalesse su di lui.
In base a questa interpretazione, il passaggio trova la sua giusta prospettiva, insieme col ruolo dei sacrifici nello schema del comportamento umano. Malbin considera quindi il passo in quanto portatore dello stesso pensiero che ricorre nell’intera Scrittura e specialmente nei libri profetici: l’obbedienza è meglio dei sacrifici. Ma è difficile accettare la sua interpretazione del testo, e in particolar modo le connotazioni che egli ascrive all’avverbio condizionale ebraico im (sec). A pag. 119 del suo libro “Me–adàm ‘ad noach“, Cassuto asserisce quanto segue:
È impossibile spiegare il versetto come se vi si potesse leggere: “sia che tu ti comporti bene, il peccato è in agguato alla porta”. In tal caso il testo avrebbe riportato di nuovo l’intera frase oppure avrebbe semplicemente detto: “che tu ti comporti bene oppure no”.
Stando alla presente forma del versetto, abbiamo qui due condizioni contrastanti: “Se ti comporti bene” e “se non ti comporti bene”. La parola seèt (sarà sollevato) non fa parte della clausola “se”, bensì del periodo principale. Se ti comporterai bene — allora sarai sollevato; ma se non ti comporterai bene — guarda che il peccato è in agguato alla porta.
Dobbiamo quindi accettare l’opinione dei commentatori secondo i quali il passo contiene due antitetici periodi di condizione. Alcuni, come Onkelos e Rashì, spiegano la parola seèt come esprimente perdono (cfr. “perdona iniquità e trasgressione”, Esodo 34, 7); altri (Ibn Ezra, Biur) pensano significhi innalzamento nel senso di esultanza.
Se ti comporti bene — secondo Onkelos: “se migliori il tuo comportamento, Egli ti perdonerà”.
“Il peccato è in agguato alla porta” — il tuo peccato sta all’ingresso della tua tomba. “Rivolge a te la sua brama” — del peccato, l’istinto cattivo che continuamente ambisce e agogna di farti cadere.
“Ma tu puoi dominarlo” — se lo vuoi, puoi dominarlo. (Rashì)
Se ti comporti bene, il tuo volto sarà sollevato, altrimenti, “il peccato è in agguato alla porta”. Il peccato prepara sempre agguati alla tua anima, perennemente aspettando che tu pecchi. È questa una vivissima figura retorica che descrive l’iniquità di una porta chiusa, in attesa dell’opportunità di entrare. Ma se tu vuoi, hai il potere di dominarla, e per questo motivo ho detto che è in tuo potere sollevarti dall’avvilimento. La tua ira e il tuo viso afflitto non sono altro che malvagità di cuore. (Biur)
Il messaggio contenuto nei primi capitoli della Torà è quindi un messaggio di incoraggiamento per il genere umano, affermando che la salvezza spirituale dell’uomo è in se stesso. C’è sempre un’opportunità di pentirsi e di rimediare ai propri errori. Di conseguenza l’avvilimento e la disperazione di Caino non avevano giustificazione di sorta. È questa la forza insita nella domanda dell’Onnipotente:
Perché fai il viso afflitto?
Ma Caino non fu soddisfatto dal messaggio contenuto nelle parole dell’Onnipotente. La sua reazione fu:
Caino parlò a suo fratello Abele e, mentre erano nel campo, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise.
Adamo, il primo uomo, commise offesa contro il suo Fattore, Caino, la seconda generazione della razza umana, peccò contro suo fratello e lo uccise. Questo è l’inizio della storia degli uomini.