Il lunario della Diaspora
I giorni della festa
È ben noto che la Torà stabilisce la durata della festa di Pesach in sette giorni, di cui il primo e l’ultimo di festa solenne, quella della festa di Sukkoth in sette giorni, di cui il primo di festa solenne, seguita dalla festa di Sheminì ‘Azèreth di un unico giorno di festa solenne; così pure la giornata del ricordo (oggi detta Rosh ha-Shanà) secondo il testo della Torà dura un solo giorno come il Kippur, e all’inizio di ogni mese il primo giorno del mese stesso è segnalato come Rosh Chodesh (capo mese). È altrettanto noto che solo il Kippur dura un solo giorno in tutti i luoghi del mondo, mentre il Rosh ha-Shanà dura due giorni ovunque; le altre tre feste, surricordate si celebrano esattamente per la durata stabilita dalla Torà solo in Erez Israel, mentre nella Diaspora si festeggia sempre un giorno di più (detto «jom tov shenì shel galujoth») e così Pesach ha otto giorni, di cui i primi due e gli ultimi due di festa solenne, Sukkoth sette, di cui i primi due di festa solenne e Sheminì ‘Azèreth due, entrambi di festa solenne, di ci il secondo è spesso chiamato Simchath Torà; il capomese poi si solennizza dovunque talvolta un giorno solo e talvolta due.
È interessante rendersi conto del motivo di queste «aggiunte» a quanto stabilito dalla Torà ed a queste differenze tra Erez Israel e la Diaspora, che sembrano spezzare l’unità del popolo ebraico.
La nostra tradizione presuppone che non si abbia un lunario fisso, predisposto, ma, al contrario, che l’inizio di ogni mese venga stabilito in base all’osservazione diretta delle fasi lunari. E di fatto, almeno durante il periodo del secondo Santuario e per vario tempo dopo la sua distruzione (periodo per cui si hanno notizie precise), se arrivavano al Sinedrio dei testimoni che avessero visto la luna nuova prima di mezzogiorno del trentesimo giorno dall’inizio del mese precedente, quel giorno veniva proclamato capo mese, primo del nuovo mese; altrimenti, quel giorno, che intanto veniva celebrato come capo mese, veniva considerato come ultimo del mese vecchio e solo l’indomani veniva proclamato capo mese. Succedeva così che anche a Gerusalemme, nella sede del Sinedrio e nel Santuario, talvolta si celebrasse il capo mese per un giorno solo e talvolta per due.
Lo stesso avveniva per Rosh ha-Shanà: cadendo questa ricorrenza il primo del mese ci si trovava nella stessa situazione del capo mese, per cui poteva darsi che venisse celebrato talvolta un giorno solo e talvolta due; la tradizione talmudica afferma che id fatto venne sempre celebrato almeno a Gerusalemme per un giorno solo, ma comunque la possibilità almeno teorica che durasse due giorni esisteva.
Una volta stabilito quale giorno fosse il primo del mese nuovo, il Sinedrio mandava dei messi in tutti i Paesi per far sapere quale era stato il giorno di inizio del nuovo mese, in modo che si sapesse quando dovevano cadere le varie feste (un tentativo di far arrivare presto le notizie, attraverso una specie di telegrafo ottico, venne abbandonato, secondo quanto riferisce la Mishnà, perché i samaritani avevano preso a fare segnalazioni false per far cadere in errore i giudei da essi odiati); i messi, che dovevano coprire le distanze a piedi o a dorso d’asino o a cavallo, pur essendo autorizzati a viaggiare anche di Shabbath e in giorni festivi, difficilmente potevano arrivare in giornata in tutte le località di Erez Israel, e quindi anche in molte località di questo Paese il capo mese e il Rosh ha-Shanà si celebravano generalmente due giorni, essendo nell’incertezza se il mese precedente era stato di 29 o 30 giorni, e così si arrivava, per esempio, ad un giorno che poteva essere il 14 o il 15 di Nisan, a seconda se Adar era stato di 29 o 30 giorni, e via dicendo. Nel dubbio si consideravano come feste solenni entrambi i giorni che potevano essere il 15 di Nisan ed entrambi i giorni che potevano esserne il 21 e così la festa durava otto giorni, di cui quattro di festa solenne; situazione analoga si verificava per Sukkoth. Sembra che, per non costringere a digiunare due giorni consecutivi, cosa che non si può pretendere ragionevolmente, pur nel dubbio il Kippur venisse celebrato in una sola delle due giornate che potevano essere il 10 di Rishrì.
Indebolitosi il Sinedrio, specialmente dopo che l’impero romano era divenuto cristiano ed aveva instaurato una politica persecutoria contro gli ebrei, si temette – a ragione – che non fosse lontano il giorno in cui il Sinedrio avrebbe cessato di funzionare o almeno di poter adempiere alle sue funzioni per la fissazione del capo mese; si venne così alla decisione di stabilire un lunario fisso, basato sulle nozioni astronomiche del tempo; secondo la tradizione ciò avvenne nel 358 per decisione del patriarca Hillel II; la tradizione è contestata in alcuni studiosi, che ritengono invece che la fissazione definitiva sia avvenuta nel V sec., ma non ha importanza per il nostro assunto, se la fissazione stessa sia del IV o del V sec. L’importante è che il Sinedrio, servendosi dei poteri conferitigli dalla Halakhà in questo campo, ad un certo momento decise di mettere in atto, come misura di emergenza, un lunario fisso, e presupponendo che, quando fossero giunti tempi migliori, si sarebbe tornati alla fissazione del capo mese in base all’osservazione diretta del novilunio. Stabilendo il calendario fisso, venne pure deciso che ciò che avveniva quasi sempre o spesso in seguito alle incertezze, si mantenesse anche con il calendario fisso; ossia che Rosh ha-Shanà avesse due giorni dovunque, che nelle altre feste si aggiungesse nella Diaspora un giorno e che il capo mese venisse celebrato per due giorni quando il mese che terminava aveva 30 giorni (cioè anche il 30 del mese uscente è considerato come capo mese oltre al 1° del mese nuovo) e che il Kippur durasse dovunque un giorno solo. L’aggiunta di un giorno non è stata stabilita per le ricorrenze non ricordate nella Torà ma fissate dai Maestri (Chanukkà, Purim e, ai giorni nostri, Jom Ha-‘Azmauth), perché questi stessi che le hanno stabilite hanno deciso che nella Diaspora non avessero il giorno aggiunto.
Un problema che si pone è se l’obbligo di fare un giorno in più di festa sia territoriale o individuale; in altre parole, se il celebrare o non un giorno in più dipenda dal luogo in cui l’individuo si trova nei giorni festivi od invece da quello che è il luogo fisso di residenza dell’individuo, senza tener conto del luogo in cui si trovi materialmente nel giorno festivo.
La norma base della Halakhà è che ciò che decide è il luogo fisso di residenza dell’individuo, e cioè che l’ebreo della Diaspora debba sempre celebrare il giorno in più anche se si trova durante la festa di Erez Israel, e viceversa che il residente fisso in Erez Israel non sia tenuto a celebrare il giorno aggiunto anche se si trova momentaneamente nella Diaspora. Ci sono però delle limitazioni a cui l’individuo deve badare: ossia l’ebreo residente in Erez Israel non deve compiere pubblicamente atti proibiti agli ebrei locali nel giorno festivo aggiunto, per non ledere i loro sentimenti o non dare scandalo a chi lo veda compiere tali atti; l’ebreo della Diaspora che si trova in Erez Israel non deve dare pubblicità alla solennità con cui celebra la giornata che per i residenti nel luogo è feriale o di mezza festa; in modo particolare deve celebrare senza sfoggio, e magari sfrondandolo dalle sue parti non essenziali, il Seder della seconda sera di Pesach; ciò perché il celebrare festivo un giorno che il Erez Israel non lo è viene considerato come un’offesa alla santità ed alla peculiarità della Terrasanta.
Se questi sono i principi, non resta però molto chiaro quando un individuo vada considerato come residente fisso di Erez Israel o della Diaspora e quando no. Nei secoli scorsi spesso si considerava come residente provvisorio l’individuo che non avesse con sé il coniuge e viceversa se entrambi i coniugi erano insieme, e vi è chi ancora oggi considera questo elemento come decisivo; ma in realtà, nelle condizioni attuali, di grande facilità di spostamenti e di intenso turismo, questo criterio appare assai fallace, e non occorre dimostrare che innumerevoli sono i casi di coppie che si recano insieme in un Paese diverso da quello della loro residenza abituale pur senza avere nessuna intenzione di stabilirvisi.
L’idea forse prevalente oggi, e che appare come più logica, è che gli elementi che determinano quale sia la residenza fissa siano un insieme di componenti oggettive e soggettive. All’atto pratico: l’ebreo della Diaspora che abbia una vaga intenzione di compiere la ‘alijà, senza però avere ancora preso decisioni definitive né avere basi consistenti in Erez Israel, deve esser considerato residente nella Diaspora; quando invece l’intenzione sia accompagnata da un sopraluogo in Erez Israel, dall’assicurarsi là un’abitazione o un’attività e quando l’individuo veda la ‘alijà come atto da realizzarsi a breve scadenza, può esser considerato residente di Erez Israel. Al contrario, chi si reca da Erez Israel. Al contrario, chi si reca da Erez Israel come «shaliach», con la ferma intenzione di ritornare in Erez Israel, specialmente se vi lascia delle solide basi, come una casa sua, un posto di lavoro assicurato al ritorno, può continuare a considerarsi come residente di Erez Israel, anche se ha tutta la sua famiglia con sé. Chi invece lascia Erez Israel senza un termine più o meno preciso per il ritorno, cercandosi un’attività di carattere stabile nella Diaspora e magari acquistandovi l’abitazione, anche se ha lasciato una parte della sua famiglia in Erez Israel, deve considerarsi residente nella Diaspora (senza entrare qui nella discussione se una tale sistemazione sia lecita o meno secondo la Halakhà).
Un altro problema è che cosa si intende per «Erez Israel» agli effetti della durata delle feste. Sembra che debba considerarsi come Erez Israel tutta la Erez Israel storica, cioè non solo la Cisgiordania oggi tutta in mano dello Stato di Israele, ma anche quelle parti del Libano, del Sinai, della Siria e della Transgiordania che sono escluse dai confini dello Stato ebraico, ma tutto ciò ha solo un valore teorico, perché quelle zone sono praticamente senza ebrei in seguito alle persecuzioni degli Stati arabi, e se vi è qualche individuo isolato ebreo è dubbio se gli sia lecito o possibile celebrare le sue festività. Un problema può presentarsi per la parte del Libano, che non fa parte della Erez Israel storica e che oggi è occupata dalle forze militari israeliane, dato che la Halakhà stabilisce come norma generale che le particolarità di Erez Israel si applicano anche a territori fuori dai confini biblici, che siano stati conquistati dal popolo ebraico. Il problema non si pone naturalmente per i militari ed i funzionari israeliani che si trovano in quei luoghi, perché è evidente che si tratta di persone che per necessità di cose sono fuori di Erez Israel, ma che sono a tutti gli effetti residenti fissi di Erez Israel. Non mi risulta che nessuna autorità rabbinica dei giorni nostri abbia preso una posizione precisa per i pochi ebrei che si trovano a Tiro e a Sidone e forse in qualche altra località occupata dall’esercito israeliano; a mio modesto parere, dato che Israele considera l’occupazione di parte del Libano come un atto transitorio e destinato a finire al più presto, essa non va vista come una conquista di territorio e quindi i residenti in quei luoghi debbono sempre considerarsi come residenti fissi della Diaspora.
Si sente dire molto spesso: ma ormai che c’è il calendario fisso e che i rapporti tra Erez Israel e Diaspora sono così frequenti, perché non si giunge ad una unificazione e non si abolisce il «jom tov shenì shel galujoth»? La risposta più semplice da darsi è quella halakhica: siccome solo il Sinedrio ha il diritto di stabilire quali giorni siano capo mese e quali no, e quindi quali giorni siano festivi e quali no, solo il Sinedrio (che oggi non esiste) potrebbe trattare Maimonide, Sefer ha-Mizvoth, 153° precetto positivo, nella traduzione italiana pubblicata dal DAC a pag. 177-178).
Ma anche prescindendo dalla formalità della Halakhà non vi è dubbio che la disposizione vada mantenuta: questa differenza, questa particolarità che trae origine dall’insicurezza e dall’incertezza proprie della Diaspora, è uno degli elementi che debbono appunto ricordarci che la vita della Diaspora è piena di insicurezza e d’incertezza, che la residenza nella Diaspora è qualcosa di provvisorio e di insicuro e che l’ebreo può esprimere in pieno ed in completa libertà la sua vita e la sua cultura solo in Erez Israel, ed a ciò deve aspirare in ogni momento; le feste debbono ricordarglielo in modo particolare.
Menachem Emanuel Artom