La morte dell’innocente (Stefano Tachè)
L’uccisione del piccolo Stefano Taché ad opera dei sanguinari terroristi arabi nel giorno di Sheminì ‘Azèreth induce molti di noi a porsi l’angosciosa domanda: come può il credente spiegarsi che il Signore permetta che un innocente, specialmente un bimbo piccolo che non è neppure arrivato all’età di rendersi conto di che cosa significhi essere ebreo, possa essere uno dei martiri della fede ebraica, uno dei tanti ebrei morti per il Qiddush ha-Shem? In realtà non è facile neppure spiegarsi, almeno a prima vista, perché anche un adulto, conscio e responsabile delle proprie azioni, debba perdere la vita solo perché appartiene al popolo eletto; ma almeno a proposito di quest’ultimo possiamo dire, forse, che può avere l’alto merito di sacrificare la propria vita in difesa o per l’attaccamento agli ideali del suo popolo ed al tempo stesso, essendo appunto responsabile e quindi — secondo il concetto ebraico — corresponsabile e garante delle azioni e delle eventuali colpe di tutti i suoi fratelli ebrei, paga con la sua vita per l’espiazione del male fatto in genere dal popolo ebraico. Naturalmente non si deve neppure lontanamente pensare che quei singoli individui, che oggi cadono negli attentati antisemiti di varia estrazione, o i milioni di vittime dell’Olocausto, siano stati più colpevoli di noi superstiti; no e poi no! Il credente deve pensare che Iddio, nella Sua imperscrutabile giustizia, ha scelto tra i membri del Suo popolo, per tanti aspetti colpevole verso di Lui, alcuni che con la loro morte espiino per tutti; in realtà forse tutti ci saremmo meritati la morte, ma la misericordia divina ha decretato la distruzione solo per una parte di Israele, scegliendo gli individui a cui è riservata questa sorte per vie a noi ignote e incomprensibili; e ciò anche perché Egli — secondo l’insegnamento dei Profeti — desidera soprattutto il ravvedimento dei colpevoli e non la loro distruzione; la perdita della vita di alcuni membri del popolo, spesso tra i migliori di esso, è al tempo stesso punizione per i superstiti, che debbono provare dolore e rimpianto per la scomparsa di individui a loro cari e vicini, ed incitamento a mettersi ognuno sulla strada della fedeltà all’ebraismo in tutti i suoi aspetti e a incitare i fratelli che non riescano a deciderlo con le loro forze a fare lo stesso — appunto in nome della solidarietà ebraica, che implica da una parte aiuto e sostegno reciproco tra tutti gli appartenenti al popolo di Israele e d’altra corresponsabilità di ciascuno nelle azioni di tutti — concetto espresso dai Maestri nella concisa frase “Israele ‘aravim zè llazé” (ogni ebreo è garante per ogni altro).
Neppure Satana
Siccome in realtà noi sappiamo che cosa avvenga esattamente di noi dopo la morte, può darsi benissimo — e del resto in questo senso ci portano a pensare le credenze più diffuse nell’ebraismo a proposito dell’al di là — che la morte non sia o non sia sempre un male per l’individuo che ne viene colpito, ed anzi che la morte tragica, per difesa dei valori ebraici o in quanto il caduto sia portatore di essi, sia un atto di benevolenza da parte del Signore (così è intesa dalla tradizione la scomparsa, relativamente prematura di Enoch nella remota antichità e poi, da molti interpreti, quella dei figli di Aharon al momento dell’inaugurazione del Tabernacolo).
Ma tutto ciò vale solo fino a un certo punto per capire l’uccisione di un bambino innocente e qui tornano a mente le parole del grande Poeta Chajim Nachman Bialik, dopo i progroms russi: neppure Satana ha saputo escogitare una vendetta adatta per chi versa il sangue di un bambino… e del resto la vendetta non è una qualità ebraica! Ma forse, partendo dalle considerazioni fatte a proposito dei martiri adulti, possiamo capire qualcosa anche a proposito dei piccolini caduti per le barbarie e la ferocia dei nemici di Israele. Premettiamo però che l’episodio di Roma non è purtroppo né nuovo né unico nella storia del popolo nostro; esso ci dà l’occasione di soffermarci sul problema perché è avvenuto in Italia, perché è stata colpita una famiglia personalmente nota a molti di noi e forse anche perché in Italia episodi di questo genere non si verificavano da moltissimo tempo. Ma il problema è sempre lo stesso, da quanto i babilonesi, secondo l’accenno del Salmo CXXXVII sfracellavano bambini sulle rosse della Giudea a quando, secondo reminiscenze talmudiche e liturgiche, i romani lasciarono sul terreno mucchi di cervelli di bambini da loro uccisi, dalle stragi dei crociati nell’Europa centrale fino agli eccidi dei nazisti, di cui furono vittime innumerevoli infanti ebrei, fino ai bambini uccisi in preghiera dai fedajin provenienti dall’Egitto nel 1956 nel Sud di Erez-Israel e fino a queste recenti vittime in Europa — per ognuno di questi bimbi trucidati, oggi come ieri, nel passato recente come in quello remoto, si pongono gli stessi angosciosi interrogativi.
Il mistero della morte
Partiamo dunque dalla considerazione sulla nostra ignoranza del vero significato della morte e dall’idea che talvolta il Signore richiami a Sé i migliori tra gli uomini. Ed allora forse possiamo pensare che i bambini,divenuti sacri martiri di Israele, hanno avuto il grande merito di servire, con la cono coscienza immacolata, come mezzo di espiazione per il loro popolo, pur non essendo ancora in grado di capire e di valutare che cosa ciò significhi; forse la morte prematura li ha preservati dal conoscere le brutture e gli orrori di questo mondo e la sofferenza fisica, che quasi in ogni caso avrà preceduto lo staccarsi dalla vita terrena, potrebbe essere interpretata come se stesse in sostituzione di tutte le sofferenze morali, che inevitabilmente avrebbero dovuto subire se fossero vissuti.
Se accettiamo queste considerazioni — cosa che faccio tutt’altro che a cuor leggero, e tenendo bene a mettere in chiaro che non si tratta della verità indiscutibile, ma di un’ipotesi a cui mi pare possa portare l’istintiva fede nella giustizia immensa di Dio di ci ogni ebreo è o dovrebbe essere imbevuto — restano tuttavia altri punti su cui dobbiamo soffermarci per cercare di renderci conto del significato della tragedia connessa con l’uccisione di bambini innocenti, e ciò sia per quel che riguarda i genitori e gli altri familiari del bambino e sia in relazione con la collettività ebraica.
Ho detto poco sopra che la morte per il Qiddush ha-shem di ogni ebreo va forse interpretata, tra l’altro, come punizione che viene inflitta ai superstiti per i peccati del popolo tutto; ma se le cose stanno così, appare un altro punto oscuro: per legge di natura gli stretti parenti dell’ucciso soffrono assai più che non gli altri ebrei, e perché quindi la punizione ci raggiunge in misure così disparate? E tanto più la domanda si pone in un caso come quello che ci ha dato la spinta a scrivere queste righe: qual dolore maggiore, quale pena maggiore ci può essere di quelli di genitori amorosi, che si vedono strappare dalle braccia, per un atto insano di cieco odio, il bambino che avevano allevato con tutto il loro affetto ed in cui riponevano tante rosee speranze per l’avvenire? Perché proprio il figlio di loro e non di una qualsiasi altra coppia deve fare le spese delle colpe del popolo a ci appartengono? Una risposta ad un quesito di questo genere non è nelle possibilità dell’uomo il darla, come non possiamo spiegare neppure perché una crudele malattia, un incidente stradale o di altro genere strappi un certo bambino e non altri dalle braccia dei suoi genitori. Credo che noi ebrei non possiamo che, per quanto possibile, far sentire ai genitori orbati del loro piccolo dall’odio antisemita che siamo tutti partecipi del loro lutto, quasi che ognuno di noi avesse perso il proprio bambino; certo non esiste consolazione per genitori in quelle condizioni, ma dovremmo tutti educarci a saper accettare un destino così crudele seguendo il modello di tanti Maestri ebrei, dall’età della Mishnà fino ai giorni nostri, che, privati della gioia di veder crescere i loro figli, si dissero che si trattava in sostanza di un deposito consegnato loro da Dio e che Dio stesso lo aveva richiesto indietro — e considerazioni di questo genere possono servire, se non certo a far scomparire il dolore, purtuttavia a rassegnarsi alla volontà superiore ed a riconoscere la pochezza della comprensione umana, che non è in grado di rendersi conto del perché di ogni cosa che avviene in questo mondo, anche se ci tocca personalmente ed in maniera tanto cruda.
Svegliare le coscienze
Ma la morte di innocenti per mano di nemici, siano essi adulti e specialmente se sono bambini, deve suonare come un violento campanello di allarme per svegliare le coscienze degli ebrei tutti. Ho detto sopra che è dovere di ognuno di noi fare suo il lutto dei genitori privati del loro bambino, ma questo non basta ed è forse la parte più facile del dovere da compiersi. Ogni ebreo deve rendersi conto che la causa della morte di tali innocenti è il comportamento del popolo ebraico in genere e di ogni singolo individuo in particolare; ogni ebreo deve sentirsi, in un certo senso, come causa, sia pure indiretta, del martirio subìto dai suoi fratelli; e se sente, come è naturale, orrore per tale martirio, e tanto più quando si tratta di bambini, non avranno quasi senso le manifestazioni esteriori di cordoglio e di sdegno se non saranno accompagnate da tangibili azioni per rimediare al male che si è fatto in passato o, in altre parole, per evitare che la giustizia divina permetta il ripetersi di simili misfatti. Non si può dare qui un elenco preciso di ciò che ognuno dovrebbe fare, ma si può accennare per sommi capi agli elementi fondamentali della Teshuvà del singolo e delle collettività che oggi si impone e che se verranno messi in atto subito forse ci eviteranno in futuro altri lutti e dolori del tipo di quelli sofferti nel passato remoto e recentissimo.
Il ritorno di ogni singolo alla pratica delle Mizvoth tutte, sia riguardanti il prossimo sia strettamente “religiosa”, è uno dei passi da farsi. La messa in atto della solidarietà ebraica, non nel senso che coloro che ci odiano ritengono ogni ebreo colpevole dei misfatti reali o immaginari di ogni altro ebreo, ma in quanto realizzazione dei doveri di fratellanza tra tutti gli ebrei è un altro elemento assai importante, che riguarda tanto i singoli quanto le collettività. L’abbandono dell’errore, per cui si nega di fatto la nazionalità ebraica, considerandoci, nei Paesi della Diaspora, come “minoranza religiosa” in mezzo a una nazione non ebraica di cui facciamo parte, o, all’altro estremo, si afferma solo un nazionalismo ebraico secondo cui Israele sarebbe un popolo come tutti gli altri, magari negando di fatto le nostre peculiarità morali e religiose — ecco un altro punto importante da mettere in chiaro; ciò per un nostro intimo convincimento, e non perché altri ce lo ricordino, considerando gli ebrei nella Diaspora come intrusi o lo Stato di Israele non alla stregua delle altre nazioni. Corollario di ciò che gli ebrei della Diaspora deve essere il sentire il dovere di vivere in Erez Israel come necessità impellente e la residenza fuori di esso come una situazione precaria da cambiare al più presto e abbandonando le idee assimilazioniste della grande importanza, della indispensabilità del perpetuarsi della Diaspora.
Se il sangue ebraico innocente versato, e specialmente quello dei bambini, indurrà i singoli ebrei ed il popolo tutto a mettersi su questa via, il loro sacrificio non sarà stato inutile, il Qiddush ha-Shem messo in atto con la loro morte crudele avrà un doppio significato, gli ebrei avranno fatto quanto stava in loro per meritarsi la protezione divina e chi ha fede sarà persuaso che, una volta presa questa via, il Signore non permetterà più che cadano vite innocenti. Coloro che sono stati colpiti nei loro affetti più cari potranno trovare conforto constatando che la loro sofferenza è stata anche l’inizio del rinnovamento spirituale di Israele.
Potrei chiudere qui, ma desidero aggiungere ancora un punto per evitare di essere frainteso: quanto ho detto sulle colpe di Israele non è certo giustificazione delle barbarie dei terroristi di Arafat o di altra estrazione, che sono mille volte più colpevoli, e neppure delle ipocrisie e delle violenze dei vari consensi internazionali che condannano Israele ad ogni pié sospinto, senza nessuna relazione con quello che il nostro Stato abbia fatto o non fatto. Il nostro esame di coscienza e l’auspicato mutamento nel nostro comportamento non debbono minimamente indebolire gli sforzi che si fanno, e che si dovrebbero intensificare, per difendere le vite degli ebrei nella diaspora e per frenare e punire i delinquenti che ci attaccano, e neppure, naturalmente, trascurare gli sforzi perché allo Stato di Israele vengano concessi di fatto i diritti elementari che spettano ad ogni popolo ed a ogni stato sovrano.
Menachem Emanuel Artom
Gadiel Tachè, il bambino di 4 anni ferito durante l’attentato alla sinagoga di Roma, nel quale rimase ucciso il fratellino Stefano di due anni, è finalmente tornato a casa. È stato infatti dimesso dall’ospedale S. Camillo di Roma dopo oltre due mesi di degenza durante i quali ha subìto parecchi interventi.
Gli auguriamo di tutto cuore che l’amore di cui è circondato dai suoi e da tutta la comunità di Roma, gli renda possibile superare il trauma e i ricordi legati ai tragici momenti trascorsi.