La “preghiera del corpo”
Scialom Bahbout
Spirito e corpo: un insieme indivisibile
La preghiera deve coinvolgere non solo la mente e il cuore, ma il corpo umano in tutte le sue parti. Secondi i Maestri, questo è il senso delle parole del salmista: “Tutte le mie ossa diranno: Signore, chi è pari a te? (1). Spirito e corpo sono per l’Ebraismo un insieme indivisibile: così, mentre nei momenti in cui sembra prevalere la “materia” (si pensi alle regole della kasherut), in quelli in cui prevale lo “spirito” la Torà tende a valorizzare la “materia”.
Ma per far partecipare il corpo alla preghiera è meglio restare immobili o muoversi? Sulla questione sono state espresse diverse opinioni. L’autore del Shelà (2) ritiene che l’immobilità sia un ottimo ausilio per raggiungere un’adeguata concentrazione e, d’altra parte, egli osserva che nessun uomo oserebbe presentarsi neanche a un re di carne e ossa per chiedere qualcosa, dondolandosi “come un albero al vento”. Di diversa opinione è il Remà (3) che dà per scontato l’uso di dondolarsi durante la lettura della Torà e la preghiera. L’autore della Mishnà Berurà (4) stabilisce infine che ognuno si può comportare come vuole, muovendosi o meno, a seconda cioè se il movimento del corpo contribuisca ad aumentare la propria concentrazione.
Qual è l’origine e qual è il significato più profondo dei movimenti del corpo durante la preghiera? Sentiamo l’opinione di Jehudà Ha–levì e del Ba’al Shem Tov.
Il primo ci spiega innanzi tutto quale sarebbe stata l’origine di questa usanza: “Dicono che [si usa dondolarsi] per eccitare il calore naturale, però a me pare che derivi da altro… davanti a un libro potevano riunirsi 10 e più persone perché i nostri libri erano grandi, e bisognava che ognuno si chinasse a turno ad ogni istante per guardare la parola, e poi si ritirasse; e di nuovo si chinasse e si ritirasse perché il libro stava sul suolo: questa fu la prima causa di questo movimento. Poi a forza di guardare e osservare gli altri, come è natura degli uomini, il movimento si trasformò in abitudine: presso le altre nazioni, invece, poiché ciascuno legge nel suo libro e lo accosta agli occhi, e si china su di esso come vuole senza che gli altri glielo impedisca, non vi è bisogno di inchinarsi e di ritirarsi” (5).
Difficile dire quando ci sia di vero in quest’idea, piuttosto curiosa, espressa da Jehudà Ha–Levì. Lo stesso, analizzando più specificamente il rapporto tra corpo, sensi e anima, parla della preghiera: l’uomo pio farà sì che le membra “staranno in piedi nel tempo in cui si deve stare in piedi, senza pigrizia; si curveranno quando ci si deve curvare; si siederanno nel tempo in cui ci si deve sedere; gli occhi guarderanno nel modo in cui il servo guarda il suo Signore;… i piedi staranno diritti ed ugualmente disposti e tutte le membra saranno come turbate e impaurite ed eseguiranno gli ordini del loro sovrano senza guardare a molestie o danno che possano succedere loro e la lingua sarà d’accordo col pensiero, e non aggiungerà ad esso nulla, né pronuncerà le preghiere per abitudine, come la gazza o il pappagallo, ma ogni parola avrà il suo pensiero e la sua intenzione…” (6)
Secondo Jehudà Halevì, al di là dell’abitudine che accompagna ogni atto umano e quindi anche il dondolarsi, ogni movimento di una parte del corpo durante la preghiera assume comunque un significato e un’intenzione particolare: l’uomo non è un “pappagallo” e ogni parola della preghiera incide in maniera profonda sulle sue intenzioni e sui suoi comportamenti momento per momento.
Suggestiva è l’interpretazione che dà il Ba’ al Shem Tov (7). Egli invita a non sorridere e a non prendersi gioco di coloro che usano agitarsi durante le preghiere e fa questo paragone: “Quando un uomo sta per annegare, si dimena nell’acqua nel tentativo di salvarsi dalle acque che stanno per sommergerlo: è chiaro che chi osserva la scena non si prenderà gioco di lui e dei suoi movimenti. Così, quando una persona prega e si agita durante la preghiera, non va deriso perché egli cerca di salvarsi dalle kelipòt (8) e dalle acque malvage, cioè dai pensieri estranei che assalgono l’uomo per allontanarlo dalla concentrazione che deve accompagnare la sua preghiera”.
Per noi, certamente più lontani del Ba’ al Shem Tov dal mondo della preghiera, è ancora più difficile scrollarci di dosso tutti quei pensieri che occupano la nostra mente e la oscurano, a rompere quella che, secondo il Ba’ al Shem Tov, è la barriera che avvolge il nostro cuore. La dicotomia tra spirito e materia potrà essere superata e la preghiera divenire veramente completa se, assieme alla preghiera–col–cuore, saremo in grado di elevare la preghiera–col–corpo.
s. b.
NOTE
(1) Salmi 35°, 10.
(2) Jehajà Horowitz (1530-1630), rabbino di tendenze mistiche, autore del libro Shenè Luchot ha–berit (Le due tavole del patto), che contiene quasi tutte le leggi, le usanze e le credenze dell’Ebraismo.
(3) Remà, iniziali di Rabbit Moshè Isserles (1525-1572), autore delle Hagaòt (note) allo Shulchàn ‘Aruch che tengono conto degli usi degli ebrei di rito tedesco.
(4) “Insegnamento chiaro”, importante commento a Orach Chajim (La strada della vita) prima parte dello Shulchàn ‘Aruch, scritto da Rabbi Israel Meir Ha-cohen di Radin (1838-1938).
(5) Sefer Ha–kozarì II, 79-80.
(6) Ibid. III, 5.
(7) Ba’ al Shem Tov, Padrone del Nome Buono, soprannome di Israele Ben Eliezer (1700-1760) fondatore del Chassidismo. Il passo qui riportato è tratto da: S.J. Agnon: Jamin Noraim pag. 67.
(8) Letteralmente “Bucce”: rappresentano le scorie da cui deve essere liberato il creato per essere redento.