Le ali del colombo (prima parte)
L’interpretazione dei simboli di un’antica leggenda talmudica introduce alla comprensione di uno dei più caratteristici riti ebraici: I Tefillìn
Il Talmud Babilonese (Shabbàth 49a) racconta la leggenda di un tale Elishà’, vissuto durante una persecuzione romana antiebraica. I romani avevano proibito agli ebrei l’osservanza dei tefillìn, minacciando ai trasgressori la pena di morte mediante decapitazione. Elishà’ non si era preoccupato del divieto ed era uscito in strada indossando i tefillìn; una guardia però se ne era accorta e l’aveva inseguito. Elishà’ fece appena in tempo a togliersi i tefillìn e a nasconderli nel pugno; la guardia lo raggiunse e gli chiese cosa nascondeva. Rispose che erano ali di colombo. Da quel giorno, conclude il Talmùd, Elishà’ fu chiamato ba’al hakenafàim, lett. ‘il padrone delle ali’.
La leggenda nasconde sotto forme mitiche semplificate dei concetti molto importanti. Vi è lo scontro tra un potere brutale e grossolano e un’umanità semplice legata alla propria tradizione fino al punto di rischiare per questa la morte; un momento simbolico della lotta tra la forza e lo spirito. Ma vi è inoltre indicata una simbologia specifica propria del rito dei tefillìn. Probabilmente in questa, come in numerose altre immagini presenti nell’antica letteratura ebraica, il colombo (jonàh) simboleggia Israele: animale dal colore chiaro, mite e delicato, segno di pace (si pensi al racconto di Noè); il colombo è opposto qui al simbolo di Roma, l’aquila imperiale rapace. I tefillìn, nell’ambito di questa similitudine, diventano le ali del colombo: in altri termini il mezzo con cui Israele può spiccare il volo, può alzarsi verso il cielo. I romani, che hanno minacciato la morte a chi osserva questo rito, ne hanno avvertito l’importanza come segno esteriore di identità ebraica; ma il loro rappresentante, la guardia che deva fare osservare l’ordine, non riesce a distinguerne il significato spirituale essenziale.
Questa leggenda è una delle numerose testimonianze del rapporto con cui la tradizione ebraica vive questo rito così particolare. Per uno strano equivoco linguistico il mondo occidentale ha invece spesso travisato il senso di questo atto rituale, e la diffusa disinformazione in proposito continua a produrre equivoche e paradossali descrizioni: per rendersene conto basta andare a consultare qualche dizionario della lingua italiana alla voce ‘filatteri’. Nelle lingue europee infatti, l’ebraico tefillìn è tradotto con i derivanti del termine greco ‘phylacteria’, che indica ciò che protegge. L’antica traduzione greca si spiega in due modi (non contraddittori, ma complementari): l’assonanza del termine ebraico con quello greco (il singolare di tefillìn è tefillàh) e un generico valore protettivo.
Da qui è nato l’equivoco per cui il valore del rito è stato pensato come genericamente ‘protettivo’, e più specificamente come una sorta di magico amuleto che salva chi lo porta da ogni disgrazia. È chiaro che non si può negare, per questo come per ogni altri rito, la possibilità di un uso magico ed automatico da parte di chi lo osserva; ma gli insegnamenti e le intenzioni della tradizione sono tutti contro questa forma di utilizzazione, che viene avvertita come un rischio, come una degenerazione, che deve essere evitata. Vediamo allora quali sono i reali significati.
È noto che l’istituzione del rito deriva dall’interpretazione letterale del comando biblico di ‘legare come segno’ le parole divine sul braccio e di tenerle ‘come segni e ricordo tra li occhi’. La finalità di questo comando è specificata: “affinché l’insegnamento di Dio sia nella tua bocca, perché con mano forte ti ha fatto uscire dall’Egitto” (Esodo 13:9). Ma sia l’interpretazione letterale del comando biblico che la spiegazione delle sue finalità sollevano delle discussioni. Ad esempio molti hanno contestato la legittimità della deduzione dalla parola biblica; a loro detto, quando si parla di segno, di braccia e di occhi, l’intenzione è metaforica, ed è esagerato e formalista pensare che si voglia alludere ai tefillìn. Ad un esame più accurato del testo biblico e al confronto con altri usi questa critica appare infondata. Bisogna prima di tutto tenere presente le particolarità culturali dell’ebraismo religioso, nel quale ogni idea viene espressa attraverso dei segnali visibili, dei mezzi materiali, concreti. Ma nel caso dei tefillìn il discorso si allarga, perché è possibile stabilire un confronto con norme per alcuni versi analoghe, che riguardano la decorazione del gran sacerdote. Si può dimostrare che nelle prescrizioni di alcuni suoi abiti sacri, come ad esempio per il frontale, ricorrono espressioni e concetti analoghi a quelli della regola sui tefillìn (v. Esodo 28:29 e 36-38).
Nessuno critica il rapporto tra la norma biblica sulle vesti sacerdotali e la prassi rituale successiva; il discorso deve essere analogo per i tefillìn. Dal confronto deriva non solo la legittimità della deduzione, ma un allargamento del senso del rito. È evidente che gli abiti sacri si addicono al gran sacerdote come i tefillìn ad ogni ebreo.
In altri termini, i tefillìn sono per l’ebreo come una specie di segno che segnala una dignità sacerdotale. Qui emerge la doppia valenza di questo rito. Stando alla lettera del verso biblico, la loro funzione è mnemonica, di segnale; portandoli l’ebreo ricorda la sua condizione e l’obbligo di approfondire le sue radici culturali (studio e osservanza, le due accezioni della frase ‘l’insegnamento di Dio nella sua bocca’). In questo senso non si differenziano da altre norme analoghe, come la Mezuzàh e gli tzitziòth. Ma contemporaneamente questi segni introducono in una dimensione diversa, uno stimolo e veicolo di sacralità. Sono il segno di una chiamata sacerdotale collettiva. Il concetto va ulteriormente chiarito.
Generalmente si insiste sulla duplicità di funzione dei due tefillìn: quello legato al braccio, in corrispondenza del cuore, a segno del controllo dei sentimenti, e quello sul capo, per il dominio della ragione. La tradizione rabbinica ha integrato questa opposizione con un’altra; la tefillàh sul braccio, legata in una parte nascosta all’esterno, rappresenta l’interiorità e l’aspetto privato dell’esperienza religiosa; la tefillàh sul capo, esposta e visibile a tutti, l’aspetto pubblico ed esteriore, e in senso più ampio la decorazione formale e la caratteristica nazionale della condizione ebraica. Una precisa normativa insiste sul fatto che la tefillàh del capo debba di regola essere messa solo mentre si indossa già quella del braccio; dalle premesse è evidente che il senso di questa norma è che la religiosità esteriore, la decorazione, la distinzione nazionale diventano pienamente legittimi solo se l’interiorità della vita religiosa è stata realizzata. Quindi il concetto di sacralità e di distintivo sacerdotale assumono in questa prospettiva un significato ben preciso: la forma non deve mai prevalere sul contenuto, il distintivo non può fare a meno di un impegno. Inizia così ad essere chiaro perché i tefillìn sono le ‘ali del colombo’; ma l’analisi deve essere integrata da altri che vedremo in un successivo articolo.
Riccardo Di Segni
I tefillìn consistono di due astucci a forma di cubo che contengono delle pergamene nelle quali sono scritti quattro passi biblici (due brani del cap. 13 dell’Esodo — vv. 1–10 e 11–16, e due dal Deuteronomio: cap. 6: 4–9 e 11: 13–20). Anche gli astucci, malgrado l’apparenza, sono di pelle animale che al termine di una complessa lavorazione artigianale viene verniciata di nero e coperta di lacca lucida.L’astuccio del braccio contiene un’unica cavità centrale; quello per il capo è diviso in quattro cavità. L’ideale sarebbe costruire ogni elemento con un solo pezzo di cuoio che viene lavorato fino a formare la singola cavità o le quattro tasche affiancate; ma ciò richiede abilità particolari e procedimenti più complicati; più semplicemente si uniscono vari pezzi con una colla, derivata anch’essa dal cuoio. Le pergamene usate per la scrittura devono essere state lavorate ad hoc; la scrittura richiede la conoscenza di una specifica normativa, che nel corso dei secoli si è arricchita e complicata, specialmente per una serie di influssi mistici. L’ordine di inserimento delle quattro pergamene nell’involucro del capo non è casuale; si conoscono quattro diverse tradizioni; quella più seguita è di Ra.SH.I.; ma in alcune comunità vi è chi usa, dopo aver pregato i tefillìn di Ra.SH.I., metterne un altro paio dove i brani sono ordinati secondo lo schema di Rabbènu Tam. Dopo l’inserimento delle pergamene nell’involucro, questo viene chiuso con una cucitura fatta con nervi — I tefillìn, per essere legati al braccio o stretti sul capo, sono uniti a delle strisce di cuoio che vengono verniciate in nero da una parte; è importante che la parte nera rimanga all’esterno quando la striscia è legata al corpo. |