I Maccabei, primi partigiani della storia
Si può notare come i libri di storia, trattando dei regni ellenistici sorti dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro Magno, evitino ogni accenno alla rivoluzione dei Maccabei. Eppure la lotta dei Maccabei, iniziata nell’anno 167 e terminata solo nell’anno 129 a.E.V. contribuì in modo determinante al declino del più esteso regno ellenistico, quello seleucida.
La sottomissione dell’Impero Persiano da parte di Alessandro Magno portò gli Ebrei a contatto con una cultura greco-macedone decadente, ove i cattivi costumi prevalevano nettamente sull’insegnamento delle grandi scuole filosofiche precedenti. Il dialogo fra Ebraismo e Ellenismo era inevitabile; ma vi erano due modi per dialogare: considerare la cultura greca come un insieme di materie profane, da studiare in subordine alla Legge; soluzione accettabile dai «puri», o aderire alla cultura greca senza rispettare le norme fondamentali della Legge, trattando la Fede come una qualsiasi filosofia. Questa soluzione, scelta dai cosiddetti «sincretisti» appartenenti agli aristocratici e ad alcune famiglie sacerdotali, portò prima alla decadenza dei costumi (per la pratica del nudo molti infransero il precetto della circoncisione) e, successivamente, alla profanazione del Tempio.
Nel regno dei Seleucidi era particolarmente grave il problema dei rapporti fra l’elemento colonizzatore greco/macedone ei molti popoli autoctoni. I Seleucidi seguirono la politica, già iniziata da Alessandro Magno, di costruire i punti strategici città greche, dotate di privilegi, per controbilanciare le città degli autoctoni sottoposte ai governatore. Questa politica venne seguita particolarmente in Mesopotamia, anche perché- non era possibile ellenizzare popolosi centri commerciali quali le città di Babilonia e Uruk. La grande comunità ebraica di Babilonia era quindi sotto il dominio seleucida, separata da Gerusalemme da un confine.
Nell’anno 202 a.E.V. il sovrano seleucida Antioco III il Grande credette opportuno allearsi con Filippo V di Macedonia contro i Tolomei. Questa alleanza venne considerata con forti sospetti da Roma, specialmente dopo i primi successi dei due alleati. Antioco III nell’anno 201 attaccò direttamente il regno tolemaico e nell’anno 198 a.E.V. conquistò la Giudea. In riconoscimento della favorevole accoglienza fattagli, Antioco III il Grande promette agli Ebrei sia la libertà di osservare la Legge, sia il rispetto del Tempio. Ma che valore possono avere delle promesse fatte a sacerdoti e aristocratici ellenizzati, poco rappresentativi?
I «puri» e i nazionalisti, oppositori dell’ellenizzazione, vedevano come Roma prima (197 a.E.V.) sconfiggesse Filippo V di Macedonia per poi proclamare (196) la libertà delle città greche. Anche i tentativi di Antioco III di trarre profitto dalla confitta dell’alleato per espandere i propri domini nell’Asia Minore e in Tracia vennero contrastati da Roma negli anni 191/189. Con la pace del 188 i Seleucidi dovettero rinunciare alle mire sull’Europa e sull’Asia Minore oltre il Tauro e consegnare la flotta da guerra e gli elefanti. Questa sconfitta può essere considerata l’inizio della crisi del regno seleucida. Ad Antioco III successe nell’anno 187 l’oscuro Seleuco IV Filopatore e nell’anno 175 Antioco IV Epifane che inaugurò la politica dell’ellenizzazione forzata.
In questo stato di crisi del regno seleucida la Giudea si inserisce adeguatamente per la discordia e le lotte fra le varie famiglie sacerdotali, con tentativi di costruire templi fuori di Gerusalemme. Nell’anno 177 il Sommo Sacerdote Onias III è costretto alla fuga dal fratello Joshua Jason che introduce usanze greche nel Tempio di Gerusalemme, ma questa profanazione non sembra sufficiente ad Antioco IV Epifane quando visita la Giudea (forse nell’anno 171 a.E.V.). Infatti, Antioco IV destituisce Joshua Jason e nomina al suo posto tale Menelao, definito «non sacerdote».
L’ellenizzazione forzata mirava a distruggere l’identità dei popoli soggetti, che dovevano perdere le loro tradizioni. Uno dei modi per privare un popolo della propria identità è, da sempre, l’eliminazione dei depositari delle sue tradizioni, quali sacerdoti, maestri, eccetera. Così si spiega la destituzione di Joshua Jason (peccatore e traditore, ma sempre sacerdote) con il «non sacerdote» Menelao.
L’usurpatore Menelao partecipa al saccheggio del Tempio compiuto dal presidio seleucida e fa assassinare il Sommo Sacerdote regolare Onias III, già fuggito nell’anno 177. Al saccheggio seguono tumulti popolari, crudelmente repressi e, nel 169, un tentativo di Joshua Jason di ritornare a Gerusalemme. Antioco aveva intanto ripreso il tentativo di conquistare l’Egitto, ma nell’anno 168, per intervento di Roma, deve rinunciare alle proprie conquiste egiziane. Antioco ritorna a Gerusalemme (dove già era stato creduto morto) e ordina una nuova rappresaglia (contro chi già aveva nuovamente sperato) e il rafforzamento di una zona della città, la cittadella, da riservare ai seguaci di Menelao; segue nell’anno 167 a.E.V. l’ordine di trasformare il Tempio in un santuario di Giove e il divieto dell’osservanza dei precetti quali la circoncisione e la santificazione dello Shabbath.
Le ribellioni contro l’ellenizzazione forzata si intensificano nell’anno 167 la forma di una vera e propria rivoluzione, sotto la guida della famiglia sacerdotale degli Asmonei (il sacerdote Mattatia e i suoi figli, detti i Maccabei), residente a Modin, nelle montagne della Giudea, zona geograficamente adatta alla lotta armata. La famiglia degli Asmonei non si era ellenizzata. È da ricordare che il sacerdote Onias III) aveva preferito la vita nell’esilio e aveva ottenuto da Tolomeo VI il permesso di costruire nella città di Leontopoli un Tempio che continuò a funzionare fino all’anno 73 E.V. quando venne chiuso da Vespasiano.
Negli anni 167/166 a.E.V. intorno ai Maccabei si raccolgono numerosi combattenti per la difesa della Legge, che, anche se poco addestrati, negli anni 165/64 conseguono clamorose vittorie sui potenti eserciti seleucidi e, assediati gli ellenisti nella cittadella, liberano Gerusalemme e riconsacrano il Tempio. Quando accendiamo le fiammelle di Channukkà è doveroso ricordare che la lotta non finì allora, perché era necessario a difendere la libertà riconquistata. È vero che i Maccabei avevano mandato loro ambasciatori a Roma e si erano rivolti con richieste di aiuto anche alla comunità di Alessandria (nulla ci è noto dei probabili contatti con la comunità babilonese); il peso della lotta gravò ovviamente sulla popolazione della Giudea. Nell’anno 163 a.E.V. i Maccabei devono affrontare sia gli attacchi dei popoli vicini, sia l’attacco di Lysias, il grande condottiero, divenuto reggente del minore Antioco V. Lysias riesce a sconfiggere i Maccabei, ma ritiene opportuno giungere ad un compromesso con il quale riconosce la libertà di osservare la Legge e si ritira da Gerusalemme; l’usurpatore Menelao, ritenuto responsabile dei disordini, viene giustiziato.
La fragilità del compromesso raggiunto risalta quando Antioco V e Lysias vengono spodestati nell’anno 162 a.E.V. da Demetrio I che riprende la politica delle interferenze nella nomina del Sommo Sacerdote, nominando Alkimos, che pur essendo sacerdote, era ritenuto indegno della carica. Prima Giuda Maccabeo e dopo la sua morte, nel 160 a.E.V., i fratelli guidati da Gionata devono lottare sia contro Alkimos e i suoi seguaci (fra cui anche alcuni pietisti), sia contro le truppe seleucide. In seguito i governanti seleucidi vengono ad accordi con i Maccabei, come quando il pretendente Alessandro Balla, sollevatosi contro Demetrio I, nomina Gionata Sommo Sacerdote, «amico del re», generale, governatore. La riunione nella persona di Gionata della carica religiosa, di quella politica e di quella militare agevolò certamente la lotta di liberazione (anche se la medesima riunione di cariche nelle persone dei successivi re asmonei portò ad un continuo inasprimento delle contese politiche), specialmente nel periodo di regno di Alessandro I Ballas, dal 150 al 145 a.E.V.
Gionata poteva quindi provvedere sia alla ricostruzione di Gerusalemme, sia all’unificazione del paese, assicurando l’accesso al mare con la conquista di Giaffa. In questo modo venne assicurato il libero passaggio dei pellegrini, non più costretti al transito fra popoli ostili, e, inoltre, l’apertura di una nuova via commerciale tra il regno dei Nabbattei e il Mediterraneo, come inizio di uno sviluppo economico. Gionata viene tradito e ucciso nel 143 dopo la conquista di Giaffa, sotto il regno di Demetrio II.
La lotta è portata avanti da Simone Maccabeo, che può giovarsi di un nuovo fattore: la guerra dei Parti contro i Seleucidi, ripresa nell’anno 142 dal re Mitriade I che nell’anno 141 conquistò quasi tutta la Mesopotamia, dove solo le città greche rimasero fedeli ai seleucidi. Nel 140 Mitriade I cattura Demetrio, ma gli concede un onorevole esilio/prigione. In questa situazione Simone può affrancare la Giudea dall’obbligo di tributi (nell’anno 142), eliminare le ultime presenze degli ellenisti assediando a fondo la loro cittadella sopra Gerusalemme e convocare un’assemblea nazionale per farsi confermare Sommo Sacerdote (140 a.E.V.).
Simone viene assassinato dal genero nel 134 a.E.V. e i successivi tumulti sono un ottimo pretesto per Antioco VII Sidetes per riconquistare Gerusalemme e poi obbligare Giovanni Hircanos a seguirlo nella guerra contro i Parti, ripromettendosi, evidentemente, dalla presenza nel proprio seguito del sommo sacerdote di Gerusalemme, un effetto (favorevole) sull’atteggiamento delle comunità ebraiche babilonesi. Anche se, come detto, non sappiamo nulla dei contatti fra i Maccabei e le comunità ebraiche babilonesi, non è credibile che queste comunità, sempre dalla parte dei «puri», non abbiano opposto resistenza all’ellenizzazione forzata ordinata da Antioco IV. Gli storici ritengono che l’ellenizzazione promossa dai seleucidi abbia sempre incontrato resistenza presso i vari popoli della Mesopotamia.
Dopo un’effimera riconquista della Mesopotamia, Antioco VII resta ucciso in battaglia e Giovanni Hircanos I, nell’anno 129 a.E.V. conquista quindi l’indipendenza della Giudea.
Wolf Murmelstein
La preghiera ha anche un significato simbolico
Nella preghiera e nel Bet hakeneset l’ebreo compie una serie di atti di significato simbolico non sempre del tutto chiaro, ma che comunque hanno lo scopo di risvegliare l’attenzione e la concentrazione di chi prega in modo che possa disporsi nel modo migliore per essere pervaso dal senso di amore-timore che deve accompagnare la preghiera.
Nell’Ebraismo l’azione è un dato talmente importante che è quasi superfluo ricordarne il valore primario. Basterà riportare le parole dell’autore del Sefer hachinnuch (1): «Sappi che l’uomo viene influenzato dalle azioni che compie e la sua mente e i suoi pensieri seguono le azioni di cui si sta occupando, sia chele azioni siano indirizzate verso il bene che verso il male…».
Esaminiamo alcune di queste azioni e vediamo quale ne sia il significato e lo scopo.
È noto che la preghiera ha sostituito i sacrifici che venivano presentati quotidianamente nel Tempio di Gerusalemme. A proposito delle parole «Lo servirete con tutto il vostro cuore» (2), i Maestri si chiedono in cosa consista servire il Signore col cuore, e rispondono che la ‘avoda’ shebalev (il servizio col cuore) è appunto la preghiera. Proprio per questo rapporto tra avoda’, she-ba-lev, intesa come preghiera, è necessario che la preghiera per eccellenza – la ‘amidà’ – venga detta in piedi e in un luogo prefissato, così come il culto sacrificale veniva fatto stando in piedi (3) e in un luogo fissato in precedenza. Così pure non deve esserci nessun elemento che crei una divisione tra chi prega e il muro e il pavimento, analogamente a quanto viene stabilito per il sacrificio: per questo motivo è vivamente sconsigliato di pregare stando su un palco (4). È bene sottolineare che la necessità di recitare la preghiera stando in piedi e in un luogo a tale scopo destinato, si deduce anche dal comportamento di Abramo nella preghiera fatta per salvare Sodoma e Gomorra (5).
Strettamente legato con il sacrificio è anche l’uso di volgere il proprio sguardo verso il Tempio di Gerusalemme, il luogo in cui venivano presentati i sacrifici.
«Insegnano i nostri Maestri: Un cieco e così pure chi non è in grado di distinguere i punti cardinali, rivolge il proprio cuore verso il Padre che è nei cieli come è detto: “Ed essi pregheranno col pensiero rivolto al Signore” (6) uno che sta pregando in un paese straniero, rivolge il suo cuore verso la Terra d’Israele come è detto: “Ed essi Ti pregheranno col pensiero rivolto alla loro terra”. Se uno si trova nella Terra d’Israele, rivolge la mente verso Gerusalemme, com’è detto: “Essi pregheranno rivolti verso la città che Tu hai scelto”. Se uno si trova a Gerusalemme, rivolge la sua mente verso il Santuario com’è detto: «Ti pregheranno rivolti verso questa casa”. Se uno sta pregando nel Santo dei santi (7), rivolge il proprio cuore verso il kapporet (la cortina che copriva l’Arca Santa)… Quindi: se uno sta in oriente si rivolge verso occidente; se uno sta in occidente si rivolge verso oriente; se uno sta a sud, si rivolge verso settentrione; se uno si trova a settentrione, si rivolge verso sud. E così tutto Israele rivolge la propria mente verso lo stesso punto» (8).
La preghiera, come al sacrificio che veniva fatto dal Sacerdote a nome di tutto Israel, rappresenta il momento unitario del popolo ebraico: anche quando gli ebrei sono dispersi nelle varie Diaspore, l’idea e la presenza di Erez Israel e Gerusalemme riescono a unificarli.
Questo semplice comportamento – ripetuto per generazioni tre volte al giorno – ha contribuito non poco a tenere desta la speranza ebraica di un ritorno a Sion. Sul valore e sulle conseguenze che deve avere questo atto, Rabbi Jaakov ben Zevì Amdin (9) è ancora più esplicito: «È noto che è obbligo per chi prega di rivolgere il proprio corpo verso Gerusalemme… e a nulla serve la sola intenzione (cioè a nulla serve volgersi solo spiritualmente verso Gerusalemme), a meno che non vi siano seri motivi di impedimento… perciò ogni ebreo deve convincersi in modo chiaro di salire in Erez Israel per abitarvi stabilmente…».
Gli avvenimenti di questo ultimo secolo – ma anche l’emigrazione in Erez Israel lungo tutto il corso della storia ebraica nella Diaspora – dimostrano appunto come dice l’autore del Sefer hachinnuch che i comportamenti influenzino i pensieri e le decisioni dell’uomo.
Shalom Bahbout
1) Il libro dell’educazione che contiene un’esposizione delle 612 mizwot e dei loro significati. Quest’affermazione viene ripetuta per ben otto volte dall’autore del libro.
2) Deuter. Cap. 11, v. 13.
(3) «la-‘amod le-sharet»; per stare in piedi per servire. Deuter. Cap. 18 v. 5.
(4) Oltre a questo motivo ve n’è un altro: in segno di umiltà la preghiera va detta stando in basse e non in alto.
(5) Genesi cap. 18, v. 27.
(6) Tutti o passi che vengono riportati in questo brano del Talmud sono ripresi dalla preghiera di Salomone fatta in occasione dell’inaugurazione del primo tempio. Cfr. I RE cap. 8.
(7) Si tratta del Gran Sacerdote che entrava nel Santo dei Santi il giorno di Kippur.
(8) Talmud Babil. Berachot 30a.
(9) Rabbi Jaakov ben Zevi Amdin (Altona 1697–1776) autore di numerose opere tra cui un commento al Siddur tefillà «Bet El», da cui viene ripreso questo brano (pag. 30).
Riproposta da una nota antropologa l’immagine di un Gesù rivoluzionario rispetto alla halakah. Ma gli argomenti sono poco convincenti e ne esce un’immagine piuttosto distorta dell’ebraismo
Quale era la posizione di Gesù nei confronti della cultura ebraica e, in particolare, di uno dei suoi aspetti più caratteristici, la Halakhà, la «Legge»? Gesù proponeva una rottura completa o si inseriva organicamente nella preesistente tradizione? È una domanda che si pone da secoli, che già i discepoli di Gesù si ponevano, e alla quale sono state date risposte molto differenti. A prima vista questo problema «cristologico» sembra avere per gli ebrei di oggi solo un interesse genericamente storico o ideologico; in realtà la questione invece ancora molto da vicino l’ebraismo perché nel dibattito, tuttora vivissimo su questo punto, sono sistematicamente chiamate in giudizio, e talora pesantemente contestate, le basi stesse su cui poggia l’ebraismo. È pertanto opportuno non perdere di vista gli sviluppi di queste discussioni; e per questo è utile dedicare un’attenzione ebraica ad uno dei contributi più recenti, sul quale è già aperto nel mondo cristiano e laico un dibattito. È il libro di una nota docente di antropologia culturale, Ida Magli: Gesù di Nazaret – Tabù e trasgressione (Rizzoli, Milano 1982, pp. 176, L. 9.000). La tesi dell’autrice è che Gesù «è l’unico l’uomo che ha tentato un’opera impossibile: cambiare totalmente, anzi capovolgere la “cultura” in cui era nato… distruggendone le strutture portanti» (p. 8); Gesù «ha preso le radici» dell’ebraismo «e le ha capovolte al sole e all’aria, dichiarando che esse ormai erano inutili» (p. 174). Nessuno però avrebbe realmente compreso questa sua rivoluzione, neppure gli apostoli (p. 33); e ne sarebbe derivata una religione nuovamente fondata su riti e strutture di sacro che Gesù invece aveva voluto combattere. Oggi, prosegue l’autrice, il bagaglio culturale e scientifico di cui disponiamo, in particolare l’antropologia culturale, ci consente di comprendere «di più» i termini di quest’opera di geniale rivoluzione, che è eccezionalmente distinta da qualsiasi altra opera geniale proprio per il rifiuto globale della cultura in cui è nata (p. 27).
È naturale occuparsi in questa sede di quanto l’autrice afferma sui rapporti di Gesù con l’ebraismo, tralasciando il resto che non ci compete.
Gesù un contestatore?
La prima osservazione da fare riguarda il metodo adottato per arrivare alle conclusioni. Supponendo che necessariamente Gesù debba essere stato un contestatore dell’ebraismo, l’autrice seleziona nella letteratura evangelica, come veramente attribuibile a Gesù, «tutto quello che è in contrasto con la cultura del tempo» (p. 32). In questa premessa esistono effettivamente dei criteri propri della tradizione scientifica di lettura dei Vangeli portano sugli insegnamenti di Gesù sono da attribuirsi alle differenti concezioni degli autori degli scritti, e ciò autorizza una ricerca dei detti autentici di Gesù. Ma lo sviluppo della premessa, nell’analisi condotta da Magli, rende molto labile il suo approccio particolare al problema, perché risulta subito chiara una sua scarsa conoscenza del patrimonio culturale ebraico. Per cui gran parte di ciò che a suo dire è in contrasto con l’ebraismo, e pertanto va ascritto a Gesù, non lo è affatto. Esaminiamo alcuni esempi in dettaglio. Per Magli (p. 54) sarebbero esempi di “rivoluzione” nei confronti delle strutture ebraiche frasi come: «Quando vuoi pregare entra nella tua camera» (Matteo 6:6); ma il concetto ha già alcuni modelli biblici (2 Re 4:33,Isaia 26:20) e trova analoghe espressioni – nella condanna dell’esibizionismo religioso – in TB Berakhòth (24/b. Un’altra frase “rivoluzionaria” sull’offerta, che deve essere segreta (Matteo 6:3) ha ampi riscontri rabbinici, come in TB Babà Bathrà 10; la critica dell’ostentazione del digiuno (Matteo 6:16) torna con parole quasi identiche in TP Chaghigà 1, ed è codificata in Shulchàn Arùkh, Orach Chajiim 565:6 (libro che l’autrice cita – a p. 79 –, ma solo per una regola sulla defecazione). La cacciata dei mercanti dal Tempio – topos di una certa letteratura antiebraica – è citata (p. 55) come prova dell’eliminazione della struttura fondamentale del tempio; ma il concetto già compariva in Zaccaria (12:21) ed inoltre si ignorano le opposizioni rabbiniche alle speculazioni nel Tempio, testimoniate tra l’altro dalle disposizioni legali di Rabban Shimòn ben Gamliel in Mishnà Keretòth 1:7. Il «porgi l’altra guancia» di Matteo 5:39 (citato a p. 87) sta già in Lamentazioni 3:30.
Secondo Magli, Gesù avrebbe eliminato e annullato gli usi della parola potente, proibendo il giuramento e affermando: «La tua parola sia sì sì, non no» (Matteo 5:37); ma ignora l’analoga opposizione rabbinica al giuramento (Tanchumà, Wajiqrà) e soprattutto il fatto che la ripetizione del sì e del no è già, nel diritto ebraico, un giuramento (TB Shevu’òth 36b).
La condizione della donna
Molto spazio viene dedicato alla condizione della donna. Ma anche qui il quadro non è preciso. La descrizione della regola del levirato (pp. 59, 68, 71) rispecchia quella del tutto particolare del libro biblico di Ruth, sicuramente diversa nell’applicazione ai tempi di Gesù; soprattutto è erroneo sostenere che la vedova doveva comunque essere sposata dal cognato; anzi, nel caso della vedova di Nain, prospettato nel Vangelo, secondo la legge rabbinica il matrimonio sarebbe stato rigorosamente proibito. Anche la descrizione dei riti di separazione mestruale è imprecisa o volutamente esagerata. Si confonde la separazione dei coniugi (che può verificarsi anche per impurità maschile) con la segregazione della donna (p. 89); si tratteggia una presunta reticenza e oscurità rabbinica citando la traduzione italiana di Castiglioni della Mishnà di Niddà (p. 31), e poi afferma che sull’argomento «ben poco se ne sa di sicuro» (p. 89); in realtà le fonti rabbiniche su questo punto abbondano e le difficoltà di lettura – per un lettore ignaro in lingua italiana – non si distinguono da quelle di moltissime altre descrizioni di diversi riti. È vero che almeno inizialmente le donne ebree conoscono queste prescrizioni per tradizione orale, da parte della madre (p. 31 e 89); ma questo vale per ogni altra norma tradizionale e comunque ognuno nell’ebraismo è tenuto ad approfondire lo studio delle regole che lo riguardano. È quindi errato parlare di «tabuizzazione del fenomeno… e del discorso sul fenomeno» (p. 31). Un esempio decisivo di rottura del tabù sarebbe nell’episodio della guarigione della emorroissa (donna che soffre di flussi di sangue, ndr) (in Matteo 9:20, citato a p. 90). Costei guarisce dalla sua condizione toccando le frange della veste di Gesù (che quindi portava gli tzitziòth, cosa non da poco per un rivoluzionario). In proposito va notato che emorroissa non è una «invenzione linguistica», ma la traduzione di un preciso termine biblico e rabbinico, zavà; e che esempi di guarigioni simili abbondano nel Talmùd, come in TB Niddà 61a, con la differenza che è Dio che guarisce.
Gesù avrebbe rotto un altro tabù sessuale accettando di farsi lavare i piedi dalla prostituta Maria Maddalena (p. 91); ma ciò che emerge realmente dall’episodio non è l’eliminazione del tabù (perché la donna ha comunque «molto peccato») ma solo una maggiore disponibilità e comprensione per chi in ogni modo resta una peccatrice.
Magli poi esagera attaccando la condizione della donna ebrea, affermando che Gesù (p. 70), «in un’occasione in cui non ne valeva la pena», secondo la valutazione ebraica, nella quale chi contava erano solo i maschi. Che un padre ebreo non si dovesse preoccupare della figlia malata, solo perché donna, è veramente una affermazione assurda; evidentemente si ignora il valore della vita nella cultura ebraica, senza distinzione di sesso. Così come è assurdo affermare che Israele, come sposa di Dio, è costituito dai soli maschi circoncisi (p. 123); l’alleanza, invece lo dice espressamente il Deuteronomio (29, vv. 2 e 17) – riguarda l’intera comunità, senza distinzione.
E ancora; si confonde (p. 50-51) il concetto rabbinico di discussione con quello di lite, nell’interpretazione dell’episodio del Gesù giovane al Tempio (che non è che l’espressione ebraica del topos del puer senex, peraltro con molti altri esempi nella tradizione rabbinica e mistica); si confonde il richiamo al modello dell’armonia divina in cielo, come esempio per la terra, con il concetto di escatologia o aldilà (p. 86-87), si dimentica (p. 103) il valore di purificazione della circoncisione – precisamente sottolineata dai mistici ebrei –, per cui se le donne non sono sottoposte a questa operazione è evidente che alla nascita sono certo migliori dell’uomo e, non come invece sostiene Magli, escluse dal patto e dal rapporto con Dio; si riferiscono ai sacrifici umani alcune espressioni profetiche («non so che farmene dei vostri sacrifici», cit. a p. 122) che invece combattono il formalismo dei regolari sacrifici rituali; si ignorano, (p. 143) affermandone la probabile inesistenza, le discussioni talmudiche (TB Zevachin 62b) sull’uso rituale della destra e la sinistra; si ignora (p. 61) che l’ebraismo biblico (per esempio in Deuteronomio 33:9) privilegia la scelta morale rispetto ai rapporti biologici di parentela.
Una tesi non nuova
Si potrebbe continuare con altri esempi, ma i dati già esposti dimostrano abbondantemente l’inconsistenza scientifica della metodologia adottata. Ma aldilà del metodo, rimane la tesi. In proposito c’è da osservare che per quanto, nella forma, la tesi si presenti nuova (concetti e terminologia dell’antropologia culturale), la sostanza riprende un preciso filone della tradizione cristiana, ortodossa ed eretica. L’idea dell’antilegalismo di Gesù (antinomismo secondo la definizione di Lutero) è degli inizi del cristianesimo; compare in modo particolare in Paolo, ed ha piene espressioni in correnti gnostiche. È dell’eretico Marcione, del secondo secolo, la dottrina esplicita di rigorosa separazione tra il Dio dell’Antico Testamento, rigoroso e vendicativo, e quello del Nuovo, Dio dell’amore. Marcione fu considerato eretico, ma la tentazione del marcionismo, come presentazione di due mondi opposti, ha accompagnato fino ad ora il cammino della Chiesa; solo adesso si comincia a educare al superamento di queste posizioni che, tra l’altro, sono state uno dei veicoli dell’antisemitismo cristiano. Precisiamo: non è che sostenere l’antinomismo di Gesù sia un’operazione antisemita; la stessa tesi la sostengono anche delle fonti ebraiche. Ma il discorso può diventare portatore di valenze aggressive se è finalizzato a distinguere i buoni dai cattivi.
Scarse conoscenze della realtà ebraica
In sostanza l’analisi di Ida Magli ripropone antichi concetti, con la differenza di un’argomentazione poco convincente. Gesù è presentato come una sorta di simbolo di perfezione antropologica, come una categoria del pensiero.
Il che è legittimo come punto di fede, ma diventa problematico nel momento in cui si accompagna ad una presentazione tanto negativa della realtà ebraica. Riaffiora l’antico spettro cristiano del Dio veterotestamentario, e tutto ebraico, «tremendo e geloso», di cui Gesù viene a cambiare i lineamenti (p. 87). Questa affermazione non è solo un errore scientifico, ma anche e soprattutto una perfidia teologica. E l’ebraismo? Ecco le conclusioni: «Una religione che si basi su “rituali” è una religione di “morti”… Chi si abbandona… alla speranza che le formule, i rituali, i sacrifici, le mediazioni, lo garantiscono, lo salvino, lo tutelino, è morto» (p. 169). Ma questo è vero anche in un’ottica rigorosamente ebraica; con la differenza che l’obbligo della partecipazione intellettuale all’osservanza, l’impegno della comprensione e il rifiuto degli automatismi (tutte cose ben prescritte dalla tradizione biblica e rabbinica) non devono essere dissociate dall’osservanza. Invece per il Gesù di Ida Magli, chi osserva il rituale è «morto», e «nelle strutture che ratificano la differenza tra sacro e profano» … «si colloca la violenza sull’individuo, la privazione della sua libertà, della sua responsabilità (p. 168)». Qui siamo agli antipodi dell’ebraismo; ma per sostenere certe tesi bisogna cancellare con colpo di spugna tutti i valori educativi, formativi, di potenziamento dell’uomo sostenuto dalla «Legge» ebraica; e non è un’operazione da fare con tanta disinvoltura. Nessuno nega, proprio dal punto di vista ebraico, la possibilità di altre strade per realizzare gli obiettivi di miglioramento dell’uomo che l’ebraismo persegue. Ma non è corretto, né scientificamente né moralmente, banalizzare e svuotare di valore un’esperienza religiosa come quella ebraica, senza neppure averne una conoscenza diretta e approfondita. Ida Magli ha tutti i diritti di riproporre in termini antropologici alcuni aspetti gnostico-eretici della divinità di Gesù; ma prima di trascinare l’ebraismo in un’analisi tanto negativa dovrebbe conoscere meglio il mondo che critica.
Riccardo Di Segni