Le Comunità scomparse
Nel 1979, gli allievi della II media di Monte San Savino, una ridente località in provincia di Arezzo, guidati dalla professoressa Maria Teresa Bindi Ciabattini, condusse una ricerca sulla ormai scomparsa Comunità ebraica del luogo. La ricerca venne poi inviata al mensile Shalom che la pubblicò nel numero di settembre dello stesso anno.
Due cose avevano colpito particolarmente i giovani ricercatori: l’eccidio degli ebrei savinesi, avvenuto nel maggio del 1799, e le attuali condizioni dell’antico cimitero ebraico.
La distruzione della Comunità ebraica di Monte S. Savino avvenne ad opera delle truppe del “Viva Maria», formate per lo più da contadini, aizzati dal clero, dai proprietari terrieri, e dal vice reggente di Roma, Monsignor Passeri, contro i francesi e quando simpatizzavano per questi. Al comando di don Giuseppe Romanelli di Quarata, osservano i ragazzi savinesi»… con il grido di “Viva Maria” che voleva dire morte alle idee nuove, morte ai repubblicani, ai giacobini e agli ebrei, commettevano incendi, massacri, rapine (…). Alcuni ebrei scampati al massacro tra cui lo zio di Salomone Fiorentino, poeta savinese, si rifugiarono a Siena e lì furono uccisi. A questo punto noi ci domandiamo: perché gli ebrei furono cacciati e uccisi proprio in questa circostanza? Noi sappiamo che la legislazione francese rendeva gli uomini liberi, perciò concedeva agli ebrei gli stessi diritti degli altri cittadini. Gli ebrei non potevano essere perciò che filogiacobini e i cittadini savinesi ne approfittarono per ucciderli e impadronirsi dei loro beni. Ad un odio antico venne fornita una motivazione “legittima”». (Shalom n. 8 1979). Riguardo al cimitero, i ragazzi notarono che solo 23 tombe erano visibili, le altre erano ricoperte di sterpi. Perché ai savinesi non importa niente, a quanto pare, del loro passato, e lo hanno lasciato diventare un ammasso di spine.
Prendendo spunto dalla decifrazione di due lapidi in ebraico nel cimitero di Monte San Savino, il prof. Nello Pavoncello ha dedicato un suo scritto, pubblicato su «Gli Annali dell’Istituto Orientale» di Napoli, alla storia degli ebrei di Monte S. Savino e dell’Aretino in quel travagliato periodo. Poco o nulla è stato scritto in proposito «… se prescindiamo – afferma Pavoncello – da alcune notizie, storicamente documentate, riportate dal Cassuto nella sua monumentale opera sugli ebrei a Firenze, riguardante i primi prestatori di denaro ebrei, chiamati ivi; notizie che risalgono all’inizio del XV secolo». Pavoncello indica quindi un articolo sull’argomento apparso sulla «Difesa della razza» a firma P. Ficai Veltroni, ovviamente antisemita.
Fino a quel 7 maggio 1799 era esistito a Monte San Savino un antico e consistente nucleo ebraico. In documenti reperiti durante la ricerca, gli allievi della professoressa Bindi Ciabattini hanno trovato prove che attestano la presenza degli ebrei nel paese già dal 1583, come afferma il cronachista Fortunio; e in un documento datato 1626 è riprodotta la licenza che autorizzata gli ebrei fiorentini Elia Passigli ed Angelo Pesaro a fondare a Monte San Savino un banco di pegni, concessa dal marchese Bertoldo degli Orsini. Gli ebrei dovevano vivere separati dai cristiani, nel Ghetto, ed avevano una sinagoga e una scuola. Il documento riporta anche il nome dell’insegnante: Sabato Benedetto Di Veroli, romano.
Lo scritto di Pavoncello allarga quindi l’indagine più indietro nel tempo. Rifacendosi a Cassuto, Pavoncello scrive: «I banchi di prestito in Firenze, tenuti precedentemente da cittadini fiorentini avevano da lungo tempo le loro sedi tradizionali (…). Da una memoria possiamo desumere l’indicazione dei luoghi in chi i quattro resti degli ebrei erano situati». E in seguito: «…Bonaventura, figlio di questo Salomone (Da Terracina ndr) fu dal 1421 il concessionario dei banchi di Monte San Savino e di Prato e nel 1423 fu associato al banco di Pisa. Il figlio suo, Salomone, è dapprima associato col padre per i banchi di Monte San Savino, di Prato e di Pisa…»
È stabilita così la presenza ebraica nel paese e l’origine della Comunità ai primi decenni del XV secolo «… epoca confermata nel 700» – dice Pavoncello – dal poeta Salomone Fiorentino, «Massaro» o amministratore della Sinagoga che così allora scriveva: «È cosa indubbia che la nazione ebraica del Monte San Savino siasi stabilita in corpo da tempo remotissimo con pubblica Sinagoga e luogo appartato onde seppellirvi i loro morti, acquistati con denaro dalla loro Comunità».
«È indubitato – afferma ancora Pavoncello – che nel 1745 vi abitavano ben 104 famiglie ebraiche. A Monte San Savino gli Ebrei ebbero il loro Ghetto, la Sinagoga ed il Cimitero».
Si tratta del cimitero che attualmente si trova nelle condizioni disastrose descritte nella ricerca dei ragazzi savinesi, ed era chiamato dagli abitanti del paese «Il Campaccio». Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con certezza quando il Cimitero abbia incominciato ad accogliere le salme degli ebrei; certamente essi vi ebbero sepoltura fino al 1799, quando si scatenarono i moti antisemiti che distrussero la Comunità. Questi moti ebbero origine dalla rivolta di Arezzo e della Val di Chiana contro i presidi francesi: man mano che queti si ritiravano, i rivoltosi massacravano e derubavano le Comunità ebraiche, considerate appunto «giacobine». «Gli ebrei superstiti – scrive ancora Pavoncello – assaliti, spogliati e derubati di ogni loro avere si trovarono costretti a fuggire e a riparare ad Arezzo, Firenze, Siena. Da allora l’antica Comunità ebraica di Monte San Savino si estinse e non si è mai più ricostruita, tanto che ai nostri giorni non vi figura nemmeno un ebreo in questa città…».
Pavoncello passa poi all’esame delle due epigrafi cui abbiamo accennato. «La prima è del 1783; è racchiusa in sei righe e fu scritta in memoria di Avraham Usili o Usigli (…) certamente appartenente all’illustre famiglia Usigli di origine spagnola, conosciuta in Italia con i cognomi Usiglio, Usigli o Usilio, che ha dato all’ebraismo eminenti personalità nel campo delle lettere, della poesia, della medicina e dell’arte, e in particolar modo della politica risorgimentale». A questo proposito ricordiamo per tutti Angelo Usiglio, collaboratore di Mazzini, che lo chiamava «il piccolo dolce Angelo».
La seconda lapide si può far risalire all’incirca al XVIII secolo (la scritta è quasi cancellata e delle cinque righe di cui è composta solo quattro sono faticosamente leggibili) e fu scritta in memoria di un Orvieto, forse Uriel, anch’esso appartenente ad una famiglia illustre, ricca di molte personalità nel campo letterario.
Isa Di Nepi