La benedizione sacerdotale
Metteranno il Mio nome sui figli d’Israele
La Torà (Numeri VI, 22-27) stabilisce: «Parla ad Aharon ed ai suoi figli dicendo: Così implorerete la benedizione sui figli di Israele dicendo loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca; faccia rifulgere il Signore la Sua faccia verso di te e ti conceda grazia; rivolga il Signore la Sua faccia verso di te e ti benedica. Essi metteranno il Mio nome sui figli di Israele ed Io li benedirò».
Il passo, nel suo significato letterale, viene ad ordinare ai sacerdoti (Aharon ed i suoi figli) di implorare la benedizione divina su Israele usando la precisa formula indicata nel testo, e nella sua frase finale «ed Io li benedirò» si vuol accennare all’idea che non l’atto materiale della benedizione impartita dai sacerdoti è quello che fa giungere la benedizione, ma solo la volontà e la decisione divina. Un po’ problematica appare la spiegazione dell’espressione «Essi metteranno il Mio nome sui figli di Israele»; la tradizione la interpreta nel senso che, quando la benedizione viene detta nel Santuario, i sacerdoti debbano pronunziarvi il Tetragramma e non il suo sostituto Adonaj. Forse il senso più semplice e letterale è che, in quanto l’augurio di ricevere benefici viene fatto affermando che la fonte dei benefici stessi è il Signore, si riconosce con questo la sovranità divina e quindi ci si rende meritevoli della Sua Benedizione. Si può però andare ancora più oltre, e rifarsi al compito di guide spirituali e maestri del popolo, che la Torà avrebbe voluto veder affidato ai sacerdoti; il senso potrebbe essere questo: se oltre che recitare la formula stabilita i sacerdoti si adopereranno perché il nome divino sia veramente sul popolo, ossia sotto la loro guida il popolo metta in atto i comandi divini, il Signore ascolterà la loro preghiera e di fatto concederà la benedizione al popolo; il che implica l’idea che se i sacerdoti si limitano a recitare la formula ed il popolo, perché non guidato da essi, o per qualsiasi altro motivo, si tiene lontano dai precetti, la formula non avrà nessun effetto e la benedizione divina non verrà.
La tradizione stabilisce che la formula di benedizione venisse recitata nel Santuario in occasione dei due sacrifici quotidiani e di quello addizionale dei giorni festivi e semifestivi; fuori del Santuario nella ripetizione dell’Amidà delle Tefilloth al momento della recita delle quali non c’è da aspettarsi che i sacerdoti possano già aver bevuto vino o altre sostanze inebrianti; e ciò perché ai sacerdoti è proibito compiere qualsiasi atto di culto dopo aver bevuto alcoolici e tenendo conto del fatto che i sacerdoti di turno nel Santuario digiunavano tutto il giorno. Fuori del Santuario la Birkahth Kohanim ha luogo dunque a Shachrith di tutti i giorni, a Musaf dei giorni festivi e semifestivi ed a Minchà dei giorni di digiuno; a Kippur la si ha a Ne’ilà in aggiunta o in sostituzione quella di Minchà.
Se sono presenti uno o più Kohanim al momento della benedizione, in linea di principio essi sono tenuti a recitare la benedizione, ed ogni parola di essa va suggerita a loro dal Chazzan; in molti Paesi è però invalso l’uso che questo rito venga compiuto dai Kohanim solo il sabato o solo a Musaf dei giorni festivi ed a Ne’ilà di Kippur ed anche, in alcune Comunità, a Shachrith di Kippur; nelle altre occasioni la benedizione viene inserita dal Chazzan nella ripetizione della ‘Amidà, con una formula che in realtà era stata fissata per il caso che non ci fosse presente nessun Kohen. Nella maggior parte delle sinagoghe di Erez Israel, ed in genere dell’Oriente, si continua a compiere il rito da parte dei sacerdoti tutti i giorni; dalle inclinazioni del Machazor stampato a Bologna nel 1541 sembrerebbe che allora in Italia si usasse compiere il rito tutti i giorni, ma oramai da lungo tempo anche in Italia lo si compie solo nei gironi festivi, soltanto nei Campeggi spesso lo si mette in atto anche il sabato.
La Birkath Kohanim è dunque, in sostanza, lungi dal carattere di rito magico, una delle Mizvoth al cui compimento sono tenuti i sacerdoti, ai quali anzi è imposto di recarsi presso l’Aron ha-qodesh ed impartirla ogni qualvolta nella sinagoga in cui si trovano si usa compiere tale rito e sono considerati colpevoli se si astengono dal farlo. La parte del pubblico nel rito è esclusivamente passiva: per rispetto ad esso, quando viene compiuto, i non sacerdoti debbono alzarsi in piedi e restare nel massimo silenzio e raccoglimento, evitare di guardare i sacerdoti, non però voltando loro le spalle, ma abbassando lo sguardo o volgendolo da un’altra parte. Un uso erroneo, invalso purtroppo in alcune Comunità italiane, è quello di aprire le porte dell’Aron ha-Qòdesh durante la Birkath Kohanim: dovendo i sacerdoti rivolgere la faccia verso il pubblico per pronunziare le frasi augurali a suo favore, si trovano così a voltare le spalle ai Sifrè Torà, atto di spregio verso di essi proibito dalla tradizione. Si può notare invece che nelle Comunità askenazite si fa giustamente il contrario: in esse si usa tenere l’Aron ha-Qòdesh aperto durante tutta Ne’ilà di Kippur, ma al momento della Birkath Kohanim esso viene chiuso,appunto per evitare l’atto di spregio verso i sifrè Torà. Sarebbe desiderabile che l’atto erroneo suddetto venisse eliminato in quelle Comunità dove è invalso.
In alcune Comunità sefardite, e dietro il loro esempio in quelle italiane, è invalso l’uso che quando i sacerdoti adempiono alla loro Mizvà i padri impongano le loro mani sul capo dei loro figli e le madri sul capo delle loro figlie, in segno di benedizione; in alcuni luoghi questo uso si è preso anche quando la formula di benedizione viene recitata dal Chazzan; così pure in alcuni luoghi si usa che chi non abbia il padre (o la madre) presente si faccia imporre le mani sul capo da altro parente più anziano o da una persona ragguardevole. Questi usi di per se stessi sono senza dubbio piacevoli e commendevoli, fino a che si abbia coscienza del loro significato: ossia il genitore, o altra persona più anziana, intende con quel gesto augurare al figlio o all’altro individuo che quella benedizione che viene implorata lo raggiunga grazie alla volontà del Signore; si cade invece in forme non ebraiche di feticismo se si crede che l(imposizione delle mani sia quella che porta la benedizione, indipendentemente da altre circostanze, e che l’astenersi dall’imposizione delle mani impedisca che si ottenga la benedizione. L’atto dell’imposizione delle mani, soprattutto sul capo dei figli, ha il suo vero senso se il genitore sa di aver educato il figlio al rispetto della Torà e quindi ritiene che in seguito a questa via indicata da lui il figlio stesso possa sperare di ottenere la benedizione divina. Il gesto resta privo di significato se è un atto esteriore, materiale, non collegato con l’accettazione di fatto della disciplina della Torà.
È quindi evidente che l’abuso invalso in varie Comunità italiane di abolire la separazione fra uomini e donne, richiesta nella sinagoga dall’uso tradizionale, proprio durante la Birkath Kohanim è un controsenso: in sostanza, proprio nel momento in cui si spera che Iddio ci benedica grazie alla nostra obbedienza ai Suoi precetti, ci si comporta ostentatamente in maniera opposta alla tradizione, invitando così su di noi non la benedizione ma la collera divina. L’abuso trae origine anche da una concezione presa a prestito dall’ambiente «maschilista» italiano del recente passato, per cui la donna, la moglie, sottoposta al marito, avrebbe bisogno del suo intervento e della sua protezione per implorare la benedizione divina su se stessa e sulle sue figlie; nell’ebraismo il padre e la madre sono i due capifamiglia equivalenti, insieme essi educano i figli; e durante le Tefillà, quando la tradizione ebraica impone la separazione dei due sessi, ognuno dei due può e deve agire per far ottenere la benedizione divina ai propri figli, tenendosi vicini ognuno quelli del proprio sesso; e se l’uomo può chiedere la benedizione per se stesso e per i suoi figli, nella stessa misura la donna la può chiedere per se stessa e per le sue figlie – e così, non solo si fa vedere nel momento in cui si chiede a Dio di benedirci, che siamo ossequienti agli usi ebraici, ma anche si riafferma tangibilmente l’equivalenza degli appartenenti ai due sessi, senza aderire alle assurde pretese di superiorità dell’uomo sulla donna. Non c’è poi bisogno di dire che costituisce addirittura una sfida al Signore l’atto compiuto da vari ebrei che, purtroppo, vivono «more uxorio» (con o senza matrimonio civile, cosa che non ha nessun peso dal punto di vista ebraico) con non ebree, e che le mettono sotto il proprio Talleth per farle partecipi della benedizione: non solo l’atto non ha senso, perché la benedizione dei sacerdoti, come dice il testo biblico, riguarda solo i figli di Israele; ma l’ebreo stesso, che durante tutta la sua vita compie una delle trasgressioni più gravi che si possano concepire, facendo così in sostanza viene a dire al Signore: Non solo io contravvengo alla Tua volontà vivendo con una donna con cui Tu mi hai proibito l’unione, ma esigo anche che, mettendo ostentatamente in pubblico la mia colpa, Tu mi benedica: negando il valore feticistico degli atti, un tale comportamento non potrà portare che a far ricadere con maggior rigore la maledizione divina sull’individuo e non certo a far venire maggiori benedizioni sul suo capo o su quello della donna, che senza colpa di lei ma con grave colpa di lui, convive con lui in violazione della Torà.
In conclusione, cerchiamo di capire che cosa significhi in realtà la Birkath Kohanim, mettiamo in atti gli insegnamenti morali che possiamo trarre dal rito, manteniamo e rafforziamo gli usi raccomandabili connessi con essa, ma liberiamoci dalle scorie che ad essa si sono, quasi sempre per ignoranza, aggregate.
Menachem Emanuel Artom