- In una piccola comunità (P. Pescara)
- Metteranno il mio nome usi figli d’Israele (M.E. Artom)
- C’era una volta a Monte S. Savino (I. Di Nepi)
- Sulle montagne della Giudea (W. Murmelstein)
- Il «servizio col cuore» (S. Bahbout)
- Gesù e la Legge (R. Di Segni)
Sono inevitabilmente destinate all’estinzione le Comunità minori?
Per circa un anno, con la mia famiglia, ho vissuto a Lugano, nella Svizzera italiana. Esistono nella cittadina due organizzazioni comunitarie ebraiche, ognuna con una propria struttura organizzativa: Il Tempio, l’attività culturale, eccetera: la Comunità Israelitica (ortodossa), composta da 36 famiglie – 130 persone circa – e l’Associazione Ebraica del Canton Ticino, con circa 400 iscritti. Entrambe si reggono con il libero contributo dei soci, come altrove accade per altre associazioni (sportive, culturali eccetera); non esite, come in Italia la contribuzione obbligatoria mediante imposizione.
L’Associazione non è una comunità riformista, ma è composta di ebrei di tipo, si può dire, «italiano»: ortodosso–conservativi, ma poco o per nulla praticanti.
Per quanto ne so, all’inizio faceva funzionare il suo Tempio solo al Sabato, poi – a causa della cronica assenza di minjan – ogni due sabati, ed ora un solo sabato al mese e per le grandi feste. Tutto ciò è accaduto in pochissimo tempo. In essa agiscono alcune istituzioni: Wizo, Keren Kayemet. Ma in pratica escluso a Pesach, a Kippur, o per qualche manifestazione della Wizo, l’Associazione non esiste.
La vita – vita ebraica – della Comunità Israelitica è, invece, assai diversa: essa è tutta centrata sulla Torah, e quindi il Beth Hakeneseth è il centro della vita comunitaria.
La stratificazione sociale è molto differenziata: il tenore di vita è alto in alcuni casi, decisamente basso in altri. Ma non sono necessari pretesti per ritrovarsi tutti assieme.
Pur essendo pochi i bambini (molte giovani coppie studiano ancora e vivono in Israele o in America, a Londra o ad Anversa, e non sono comprese nel numero di famiglie sopra indicate), è funzionante un Gan (asilo) con una maestra e una dozzina di bambini. C’è poi la scuola elementare (con sezioni separate maschili e femminili), con due insegnanti, 10 bambini e 5 bambine dalla 1a alla 5a elementare; e c’è la scuola media: due maschi e 4 o 5 bambine. Esiste naturalmente un Kheder (scuola ebraica elementare) con 2 insegnanti, uno per i bambini fino a 10 anni, dove si studiano Torà e Mishnà ed uno per i più grandi, che studiano già la Ghemarà. È, per la parte laica, parificata. La lingua ufficiale della Comunità è lo Yiddish, ma si parlano correntemente l’italiano ed altre lingue (ebraico, inglese).
Terminate le medie, in genere i ragazzi frequentano, almeno per qualche anno, la Yeshivà; a Lugano ne esiste una in cui studiano circa una ventina di allievi.
L’attività prevalente dei membri della Comunità è il commercio (abbigliamento, oro e preziosi), ma ci sono anche uno o due industriali, diversi artigiani, molti impiegati e qualche operaio.
Si comprende perché prevalgono queste attività se si considera che almeno 34 famiglie sono strettamente cosher e shomer shabbath.
Il mikvèh, bagno rituale, segno della purità della famiglia e della sessualità ebraica, è sempre frequentato sia dalle donne (per le quali ce ne sono 2) sia dagli uomini (diversi mikvaoth).
Al mattino (ogni mattino e non solo il Sabato o per le Feste), la Comunità si ritrova, praticamente tutta, per la Tefillàh si fanno infatti almeno tre minian.
Al pomeriggio ed alla sera, per le tefilloth di minhà e arvith, ci sono sempre almeno due minian: uno al Tempio ed uno alla Yeshivàth.
È evidente che sono rispettate tutte le letture pubbliche della Toràh: lunedì, giovedì e Rosh Qodesh ed ovviamente al Sabato ed alle Feste.
Nei giorni di festa e di mezza festa le scuole di tutti i giorni sono chiuse.
Per il cibo esiste un negozio di cibi cosher. La carne invece viene ordinata a Lucerna e spedita per treno individualmente. Due volte alla settimana c’è la distribuzione del latte cosher, ma serve soprattutto per i turisti (ed ha un proprio Tempio). La Comunità lo usa qualche volta per qualche seudà (riunione). Ma è più consueto che per le varie occasioni di festeggiamenti (milà, ecc.) venga adoperata la sala della Comunità (una tenda separa uomini e donne): ed in questi avvenimenti lieti (o tristi) tutta la comunità è coinvolta. È una mitzvàh vivere insieme i momenti di gioia (una milà, un pidion ha-ben (riscatto del primogenito), un fidanzamento ecc.) come quelli di dolore.
La vita ebraica, autenticamente ebraica, è quindi molto intensa. Dopo il lavoro in genere fra minhà ed arvith, ci sono diversi gruppi che si riuniscono a studiare insieme almeno una mezz’ora. Ma è alla sera che essa esplode: due o tre volte alla settimana c’è uno shiur (lezione) del Rabbino o di qualche altro haham shirium durano non meno di 2/3 ore.
Il Rabbino, qui, è veramente un «Rabbino» ed un «Rabbino Capo» e fa veramente il suo «lavoroþ» di Rabbino.
La sua casa è un via vai di persone che chiedono spiegazioni sulla casheruth, sulla purità, su tutte le cose ebraiche, su tutti gli aspetti della vita ebraica. E non certo perché la gente sia ignorante di cose ebraiche: moltissimi sono essi stessi rabbini, quasi tutti hanno studiato almeno 5 anni in Yeshivà; ma perché questo è lo spirito di un’autentica comunità ebraica. Non è come in Italia dove il rabbino è ormai costretto a fare il cantante. Non h o mai visto il nostro Rabbino leggere la Toràh (ci sono sempre altre 5–6 persone che lo fanno) o fare il hazan.
All’entrata del Sabato la Comunità si ritrova, d’inverno, tutta insieme; mentre d’estate ci sono almeno tre minian. All sera ci si riunisce, se c’è stata qualche nascita o qualche avvenimento lieto, dopo la cena, alla seudà shalom zachar.
Molti si ritrovano, dopo cena, a casa del Rabbino che da poco è stato eletto Rebbe (Biala Rebbe, Hassidico, Gran Rabbino) per concludere il pasto insieme, per parlare e cantare, per gioire dello Shabbath.
Al mattino del Sabato, si fanno almeno due minian: qualche volta, soprattutto in occasioni di ricorrenze, si è riusciti ad organizzare anche un minian sefardita (ovviamente con il concorso di altri, essendo in stragrande maggioranza la Comunità composta da askenaziti).
Dopo il Kiddush (per il quale è uso invitarsi reciprocamente tra famiglie), dopo il pranzo ed il riposo, la vita comunitaria riprende con lo studio; dopo minhà si fa la seudà scelishì nella quale il Rabbino, o qualche illustre ospite di passaggio, tiene, come sempre, uno shiur.
Dopo arvith, nel periodo prescritto, tutta la Comunità si ritrova fuori del Tempio a fare il qiddush levanà: ed è un momento, anche questo molto suggestivo. Un momento, come molti altri, che non ho mai vissuto in nessuna comunità italiana.
Anche le donne hanno i loro momenti di riunione: dalle pratiche di carità (da cui non sono esenti gli uomini), al ritrovarsi a cucire o ricamare il kittel (la bianca veste, fatta senza nodi, che gli askenaziti indossano a Pessah, Kippur e per la sepoltura), ai shiurim della Rebbetzin (la moglie del Rabbino), ai vari incontri in diversi momenti (fidanzamenti, nascite, ecc.). Tutto avviene in due piani separati essendo in atto la netta, tradizionale ed ortodossa divisione tra uomini e donne. E devo confessare che io con la mia famiglia, che siamo tutti gherim (convertiti all’ebraismo) ci distacchiamo con dolore da questa piccola ma tanto ebraicamente attiva comunità dove siamo stati praticamente «adottati» e dove siamo sempre stati rispettati e trattati alla stregua di tutti gli altri. Certo se i nostri bimbi fossero stati più piccoli sarebbe stato assai più facile, per loro, l’inserimento: perché, naturalmente, questo presenta maggiori difficoltà se non si conosce lo Yiddish.
Purtroppo ragioni di lavoro ci costringono a partire, ma credo che un pezzettino del nostro cuore resterà in quella comunità, per la pienezza della vita ebraica che vi abbiamo vissuto. Ed è una piccola comunità italiane, dove questa vita, con al centro l’attuazione della Torà è vita ebraica nel vero senso della parola.
Con tristezza assisto alla morte delle nostre piccole comunità italiane: morte inevitabile, lento oblìo nell’assimilazione e nella perdita di tutti i valori ebraici.
Le recenti polemiche sul Libano, con tanti (troppi) ebrei schierati a favore dei presunti oppressi mi fanno vedere quanto è vicina sia la fine di quelle comunità!
Ho voluto raccontare come si vive ebraicamente in una piccola comunità (tra grandi e piccoli non più di centotrenta persone) con la speranza che almeno i giovani ritornino alla Toràh. Solo nell’osservanza e nello studio della Toràh c’è, anche per l’ebraismo italiano, la possibilità di sopravvivenza: tutti gli altri sono palliativi in attesa di una più dolce agonia e morte (ebraica).
Yehudà ben Avraham Avinu (Paolo Pescara)