Il miniàn
È noto che secondo la regola tradizionale è necessario raccogliere un numero minimo di persone per potere recitare alcune preghiere fondamentali. Il termine ebraico che indica il concetto è miniàn (lett. numero, quantità, conteggio). Nella formulazione ufficiale dello Shulchàn ‘Arúkh, il principale codice di ritualistica (Òrah Haiìm, 55:0, il numero è di “almeno dieci maschi, liberi adulti“: il che esclude in pratica dal conto le donne e i minorenni (che non hanno compiuto tredici anni, ed è per questo che nel linguaggio corrente degli ebrei italiani si dice “entrare di miniàn” o “fare il miniàn“, riferendosi ad una delle principali implicazioni del bar mitzwàh; ma è evidente che i due termini, miniàn e bar mitzwàh non devono essere confusi).
Mentre il principio generale è universalmente conosciuto, meno noti sono il significato preciso e le implicazioni di questa regola; eppure i problemi che la sua osservanza pone nelle nostre comunità oggi sono tutt’altro che indifferenti, e meritano una certa attenzione.
Le parti della Tefillàh che non possono essere recitate senza il minimo numero legale sono diverse; in primo luogo il qaddìsh, formula di chiusura delle riunioni di preghiera e di studio; poi la ripetizione ad alta voce della ‘amidàh, testo centrale e preghiera – Tefilláh – per antonomasia, con particolare riferimento ad un brano che si aggiunge tra la seconda e la terza benedizione, la qedushàh; il barekhù, breve formula di apertura e chiusura della preghiera; a queste va aggiunta la lettura pubblica della Toràh e della Haftaràh e la benedizione sacerdotale. L’elemento che caratterizza questi momenti della preghiera è una particolare sacralità: “ogni cosa che ha carattere di santità“, secondo la definizione talmudica (Bab. Berakhot, 21 b ) deve essere fatta alla presenza di 10 persone.
Il carattere speciale di questi passaggi introduce alla comprensione dei motivi che sono alla base della regola del miniàn. Il Talmud cerca un sostegno scritturale: cita il Levitico 22:32 dove è detto: “Mi santificherò in mezzo, ai figli di Israele“, e ne deduce che il processo di santificazione, di sacralizzazione che accompagna i momenti più significativi della preghiera deve avere luogo in mezzo a una comunità (appunto tra “i figli di Israele“, e non tra i singoli individui). In altri termini: vi sono dei momenti della preghiera nei quali si costruisce un discorso particolare di invocazione e di presenza del sacro, per i quali non è opportuna la voce dei singoli, ma è necessaria la presenza di un minimo gruppo organizzato. Nel qaddìsh, ad esempio, dove si chiede che si realizzi il regno divino sulla terra, è inconcepibile che una tale richiesta sia trasmessa da un individuo, non ha senso un regno senza sudditi, senza una comunità.
Queste considerazioni segnalano, al di là della casistica particolare, un elemento distintivo della preghiera ebraica: essa ha valore completo solo come espressione di una collettività.
Sono dieci le persone che costituiscono il nucleo più elementare; il perché di questo numero è variamente giustificato dalle fonti tradizionali con riferimenti biblici diversi: dal racconto della distruzione di Sodoma, che si sarebbe salvata purché ci fosse stato un nucleo di soli dieci giusti (Genesi 18:32), alla storia degli esploratori (dodici meno Giosuè e Calev), chiamati “comunità malvagia” (Num. 14:25), al primo gruppo di ebrei scesi in Egitto, in dieci (Gen. 42:3), e chiamati dal testo “figli di Israele” (ibid. v. 5): il che per la tradizione non indica solo la paternità dei fratelli di Giuseppe, ma più in generale il fatto che un gruppo di dieci persone costituisce un nucleo elementare di popolo ebraico.
Nella pratica l’insieme delle regola sul miniànrende una riunione di preghiera, priva dei numero legale, una cerimonia a tipica, monca, nella quale non si possono realizzare gli scopi più essenziali dell’incontro.
L’esclusione delle donne dal miniàn ha radici antiche, ed è verosimile che tra i suoi motivi ci sia l’esenzione delle donne dall’obbligo di recitare alcune parti della preghiera. In una prospettiva di integrazione della donna e di parificazione del suo ruolo a quello dell’uomo nella società ebraica la norma può sembrare discriminante, ma l’obiettivo della critica, in questo caso, non è preciso e può anzi essere fuorviante. Infatti il numero di dieci uomini, e solo uomini, previsto dalla regola tradizionale, è una situazione simbolica e rappresentativa di una comunità più vasta:dove esistono dieci uomini ci sono anche altrettante donne e qualche minore: e allora fare un miniàn misto di sole dieci persone significa ridurre notevolmente l’entità numerica del gruppo rappresentato. Il problema è un altro. in realtà: quello più generale della antica esenzione (che è differente dalla esclusione) delle donne dall’osservanza di molte regole che comporta fra le altre, anche questa conseguenza di ridotta presenza rappresentativa.
La questione del miniàn è nella vita delle comunità italiane un punto molto dolente. Anche se il dato non è molto consolante. vale la pena di’ ricordare che nelle comunità più piccole la questione si è posta già da più di un secolo, anche in termini polemici: tra i pochi tentativi di “riforma” che si segnalano nella storia dell’ebraismo italiano c’è anche quello, peraltro fallito molto presto, di introdurre un miniànridotto a sole sette persone. In pratica il problema è che è sempre più difficile, in ogni comunità, anche nelle più grandi, assicurare una continuità del servizio sinagogale con la presenza del minimo indispensabile. Si comincia con l’interruzione delle preghiere della mattina dei giorni feriali, poi non si riesce più a mantenere le riunioni pomeridiane e serali feriali; il Sabato resiste più a lungo, ma anche la partecipazione nella giornata festiva registra spesso salti e lacune. Allora si ricorre agli anziani della casa di riposo, o ai “minianisti” stipendiati all’uopo, o si spera nell’arrivo di turisti occasionali: e in quest’ultimo caso la continuità del servizio assume atipicamente un andamento stagionale. Qualche comunità ha affrontato con maggiore realismo il problema, accordandosi con gli studenti israeliani di temporanea residenza in Italia, e anche se la soluzione è in un certo senso di ripiego, perché non risolve il problema locale vero, chi la ha adottata può considerarsi, rispetto agli altri, fortunato. Lo schema di dissolvimento del miniàn,sopra descritto, è diventato una costante emblematica. dove la sinagoga è il termometro fedele di una complessa situazione di crisi.
È certo che l’attenuarsi progressivo della vita religiosa nell’ebraismo italiano riconosce tra le sue componenti fondamentali un motivo demografico: un calo molto grave di popolazione, particolarmente sensibile nelle piccole e medie comunità. Ma se consideriamo la situazione delle comunità italiane nei secoli possiamo. vedere che, a parte limitate eccezioni, il numero di ebrei è sempre stato un po’ al di sopra degli attuali valori; e per di più la popolazione era frazionata in un numero di minuscole comunità. Eppure in passato. anche in queste comunità, ci doveva essere una certa vitalità che teneva la sinagoga al centro dell’interesse. Se ora le sinagoghe si vanno svuotando il motivo principale è quello dei sostanziale disinteresse verso questo tipo di vita ebraica. A ciò si deve sommare la difficoltà oggettiva del decentramento imposto dall’allargarsi dei perimetri urbani e la lontananza dal centro storico ebraico. Non è comunque una posizione confessionale ritenere il Beth ha-kenésetil centro della vita comunitaria – almeno finché non emerge una qualsiasi alternativa valida, ogni iniziativa di rivitalizzazione deve sciogliere questo nodo fondamentale. La soluzione non riguarda certo solo il rabbino, sempre più isolato nel vuoto della sinagoga, ma tutta la comunità, che deve riscoprire il senso della partecipazione collettiva nella struttura sinagogale, assicurandone in primo luogo la continuità dei servizi.
L’altro problema, quello del decentramento, può essere risolto nelle comunità più grandi, creando in periferia piccoli nuclei; ma anche qui deve risaltare il ruolo del Beth ha-kenésetcome punto di riferimento di vita ebraica continuata e organizzata.
Riccardo Di Segni