Questa sera a Roma, per la Champions League, arriva l’Ajax. La squadra di Cruyff e del calcio totale. Ma anche la squadra della stella di David sugli spalti, la più amata d’Israele. In un bel libro di Simon Kuper, la misteriosa storia di come l’Olocausto e la vita quotidiana si incontrarono su un campo di calcio
Alberto Piccinini – Il Manifesto
Vedere sventolare bandiere con la stella di David in uno stadio europeo ha del sorprendente, se si pensa alle croci celtiche e ai cori antisemiti che rappresentano la triste regola di molti, troppi gruppi di ultrà. Capita all’Amsterdam Arena, e ogni volta che gioca l’Ajax, ma non solo lì. I tifosi biancorossi condividono infatti la scelta di questo simbolo singolare (calcisticamente parlando) con quelli del Tottenham Hotspur – che si definiscono anche «Yid», yiddish. Ma, mentre questi ultimi possono rivendicare un legame con la comunità ebraica che abita la zona del loro club, a nord di Londra, le storie ufficiali dell’Ajax non fanno cenno a niente di simile nella centenaria vicenda di una squadra nota piuttosto in tutto il mondo per il calcio totale e i costumi alquanto rilassati delle sue star dell’epoca, a cominciare da Johann Crujff . Simon Kuper, storico del calcio e giornalista del Guardian, ha lavorato per tre anni attorno a questo strano silenzio e dopo un primo saggio pubblicato per un rivista olandese (reperibile in rete nella traduzione inglese) ha dato alle stampe un libro appassionante e spietato come Ajax, the Dutch, the War (ed. Orion), appena uscito in Inghilterra. «Il calcio – questa la scoperta di Kuper – è stato il luogo dove l’Olocausto e la vita quotidiana si sono incontrati». Durante l’occupazione nazista circa tre quarti degli ebrei olandesi sparirono nei campi di concentramento, ma la zona grigia di complicità e collaborazione fu molto più estesa di quanto non si pensi: le stelle di David che sventolano allo stadio per l’Ajax sarebbero in realtà la testimonianza (ormai del tutto involontaria, ma proprio per questo ancora più significativa) di una realtà storica che fino a non molto tempo fa è stata negata, messa da parte, o peggio mascherata dietro la figura di Anna Frank e il mito della tolleranza olandese – recentemente infranto, peraltro, da Pym Fortuyn.
Negli anni trenta l’Ajax era la squadra più amata dagli ebrei di Amsterdam. Passava dal ghetto il tram che portava venditori di stoffe e mercanti di diamanti, insieme a figli e nipoti, a tifare per la squadra della buona borghesia cittadina. L’ala destra Eddie Hamel, un ebreo newyorkese bravo e bello che oggi ricorderebbe Beckham, era un motivo in più per passare la domenica allo stadio. Nel 1940, l’occupazione nazista mise fine anche a questo. Hamel (che all’epoca aveva già lasciato la squadra) morì ad Auschwitz, e con lui tanti dei suoi tifosi. Fu deportato e ucciso anche l’ebreo Han Hollander, primo radiocronista calcistico del paese.
Può sembrare bizzarro rileggere una tragedia così grande attraverso il calcio. Certo è che il collaborazionismo di molti olandesi non fu fermato dall’appartenenza a comuni colori: nomi di altri giocatori dell’Ajax dell’epoca compaiono tra quelli degli iscritti al partito nazista, tra i delatori o tra i semplici contabili delle ricchezze requisite agli ebrei. E proprio nell’archivio di un’altra squadra di calcio dell’epoca, lo Sparta Rotterdam, Kuper scopre il volto burocratico ed efficiente dell’Olocausto: sono le lettere, deferenti ma spietate, con le quali si rende noto ai soci ebrei che in base alle nuovi leggi la loro affiliazione (il loro abbonamento, diciamo così) è da considerarsi terminata; tra i documenti spunta fuori anche un grande cartello – conservato chissà come – con la scritta «Proibito agli ebrei», da inchiodare sulla porta dello stadio.
Anche in Italia i due allenatori delle squadre più forti del periodo furono costretti a lasciare il loro incarico a causa delle leggi razziali. Arpad Weisz, l’ebreo ungherese inventore del Bologna «che tremare il mondo fa» fu licenziato poco dopo l’inizio del campionato 38-39 e morì durante la guerra. Egri Erbstein, anch’egli ebreo ungherese, direttore tecnico del grande Torino e profeta del Metodo, fuggì all’estero senza però riuscire a evitare il campo di concentramento. Sopravvisse e tornò al suo posto, dopo la guerra, per morire nella tragedia di Superga.
Benché non faccia cenno a questa vicenda – pur spingendosi molto in là nel ricostruire una storia in parte inedita del calcio europeo durante gli anni della guerra (quando, fermi i campionati regolari, si continuava a giocare un po’ ovunque) – il libro di Kuper è straordinariamente efficace nel ricostruire attraverso la voce dei pochissimi testimoni ancora in vita, il ruolo della guerra nella questione delle radici ebraiche dell’Ajax. All’inizio degli anni sessanta, la ricostruzione di quello che diventerà lo squadrone noto in tutto il mondo, passerà infatti attraverso alcuni personaggi profondamente toccati da quelle tragedie: il presidente Jaap Van Praag, un negoziante di dischi ebreo sfuggito ai rastrellamenti stando per due anni nascosto nel retrobottega di un fotografo; Maup Caransa, anch’egli ebreo ma salvato durante la guerra dal suo matrimonio con una donna cattolica, all’epoca eccentrico petroliere miliardario. E i fratelli Freed e Wim Van Der Mejiden, due imprenditori edili meglio noti come «costruttori di bunker» per i servigi resi ai nazisti, e per questo processati dopo la liberazione.
E’ uno strano terzetto, ma spiega bene i motivi del silenzio ufficiale dell’Ajax sulle stelle di David in mano ai suoi tifosi: il colpo di spugna tentato nel dopoguerra dagli olandesi nei confronti del loro passato sotto l’occupazione nazista. «Una squadra di calcio è come una famiglia – scrive Kuper – e questo è particolarmente vero per coloro che non ne hanno una propria. Non erano rimaste molte famiglie ebree dopo l’olocausto». Orfano di padre, anche Johann Crujff venne «adottato» dall’Ajax. Non era ebreo, se non per via di parentele acquisite, ma una voce ancora popolare in Israele (dove l’Ajax è amatissimo) lo voleva tale. La leggenda della «squadra ebrea» è nata allora, si è diffusa in fretta, ed è rimasta – sempre più lontana, però, dalle sue radici storiche – a testimoniare il senso di comunità perduta, l’eclettismo e il genio incastonato per sempre nella psicologia dell’Ajax in campo. Il genius loci dell’Amsterdam Arena. Tragicamente raddoppiato – nel gioco di specchi che spesso forma le identità dei club calcistici – dell’antisemitismo becero e dall’aspetto guerriero che ha preso fin da allora a caratterizzare i cori degli ultrà del Feeyenord, la squadra di Rotterdam acerrima nemica dei biancorossi.
19 marzo 2003