Il caso della giornalista Marina Morpurgo, che ha criticato sul suo profilo una campagna pubblicitaria con protagonista una bambina, arriva in tribunale. E a rischio è la libertà di espressione
Pietro Falco
Sulla propria bacheca di Facebook, accessibile solo agli amici, è lecito esprimere liberamente un giudizio motivato di sdegno e riprovazione nei confronti di qualcuno o qualcosa? E’ una manifestazione della libertà di opinione tutelata dalla Costituzione, o si rischia di incorrere nel reato di diffamazione a mezzo stampa? E’ quanto dovrà stabilire un giudice monocratico di Foggia, nel processo che vede imputata la giornalista Marina Morpurgo, per anni inviata de L’Unità e poi caporedattore del settimanale Diario. La prima udienza è fissata per il prossimo 15 maggio.
Qualche mese fa il pm della procura foggiana, Anna Landi, ha emesso ai suoi danni un decreto di citazione diretta a giudizio: vale a dire, un provvedimento previsto dall’ordinamento per i reati punibili con una reclusione non superiore ai quattro anni, che non necessita del vaglio di un giudice per le indagini preliminari. L’accusa è appunto quella di “diffamazione a mezzo stampa” per aver “offeso l’onore” della Scuola di Formazione Professionale Siri, “denigrandone su un social network la campagna pubblicitaria”.
All’origine della vicenda, c’è un manifesto che immortala una bambina bionda, di circa 6 o 7 anni, intenta a passarsi un rossetto sulle labbra con espressione ammiccante. Sopra la foto, una dichiarazione perentoria a caratteri cubitali: “FARO’ L’ESTETISTA, HO SEMPRE AVUTO LE IDEE CHIARE”.
Quando se lo ritrova davanti, Morpurgo si indigna: “Trovavo quell’immagine del tutto inappropriata e addirittura inquietante, per l’utilizzo a scopi pubblicitari di una bimba ritratta in quel modo, e per la maniera in cui veniva ancora considerata la donna, a dispetto di tutte le battaglie di emancipazione degli ultimi decenni”. E così decide pubblicare il manifesto sulla propria bacheca di Facebook, chiosandolo con una serie di commenti.
Le considerazioni riportate nell’atto d’accusa della procura e riferite a momenti diversi sono queste: “Anche io ho sempre avuto le idee chiare: chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato ed impiumato (citazione tratta dai vecchi fumetti di Paperino, ndr)… I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti… Complimenti per la rappresentazione della donna che offrite… Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi risvegliati?”.
A quel punto, passano diverse settimane prima che la titolare della scuola, Maria Laura Sica, decida di sporgere querela. E il pm Anna Landi ritiene di ravvisarvi indizi sufficienti per aprire un fascicolo ed iscrivere la giornalista nel registro degli indagati. Il resto è storia di oggi.
A nulla è valsa la memoria difensiva presentata dall’avvocato Carmela Caputo, che poneva obiezioni sia di metodo (“Con riferimento a facebook o a social network analoghi, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione non si è ancora pronunciata”), che di merito (“Le espressioni incriminate sono state riportate sulla pagina personale della Morpurgo, frequentata esclusivamente da suoi amici. Le comunicazioni lì pubblicate non sono visibili a tutti, ma solo al gruppo di amici del titolare della bacheca. Difetterebbe, quindi, il requisito strutturale richiesto dal comma 3 dell’articolo 595 del codice penale”).
Ma soprattutto, ad essere interpellato era un principio fondamentale, come quello sancito dall’articolo 21 della Costituzione: la facoltà di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
“E’ inaccettabile – argomenta nella nota l’avvocato Caputo – che una stimatissima professionista venga indagata non per aver detto il falso, o denigrato persone o enti, bensì semplicemente per aver espresso un’opinione che può piacere o non piacere, ma che deve comunque ritenersi più che legittima e manifestata nei limiti della legalità. E’ inaccettabile che la signora Morpurgo si ritrovi nel registro degli indagati per aver esercitato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, utilizzando l’ironia e il sarcasmo per polemizzare su un manifesto discutibile, che appare fortemente lesivo dell’infanzia”.
La palla ora passa al giudice monocratico.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/01/09/news/indagata-per-un-commento-su-facebook-ora-il-giudice-deve-decidere-se-e-diffamazione-1.194313