Ran Abrarnitzky, docente di Economia a Stanford racconta in un saggio la sopravvivenza delle fattorie collettive. Grazie ai profitti.
Davide Frattini
Ai tempi di David Ben Gurion i vegani non avrebbero potuto trovare ogni giorno i piatti preparati per loro. Ma il resto del menu non è cambiato molto, i turni e l’impegno comune restano gli stessi di 73 anni fa, quando questo kibbutz al confine con la Striscia di Gaza è stato fondato: a rotazione tutti devono lavorare alla mensa, quasi tutti ci mangiano perché – dicono – è più accogliente e divertente che restare a casa. Be’eri è uno degli ultimi villaggi israeliani rimasti fedeli al sogno dei pionieri, quell’ideale che dieci uomini e due donne incisero sulla pietra il 28 ottobre 1910, dall’altra parte del Paese, sulle rive del lago di Tiberiade: «Abbiamo costituito un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune». Così era nato Degania, il progenitore di tutti i kibbutz, e così non ha resistito: nel 2007 i 320 abitanti hanno votato per abolire l’organizzazione collettiva, da compagni a soci, con gli stipendi differenziati e le case vendute a prezzi di mercato.
La crisi economica e la recessione ideologica hanno spinto la maggior parte delle comunità alla stessa necessità di privatizzarsi e all’abbandono delle regole socialiste: come Be’eri ne restano solo una sessantina su 279. «Eppure la loro sopravvivenza dimostra che è possibile costruire una società egualitaria», commenta Ran Abramitzky. Docente di Economia all’Università di Stanford, in California, si è portato da Israele i ricordi delle visite alla nonna vissuta – e seppellita – in un kibbutz.
Ai villaggi collettivi e a quello che possono ancora insegnarci ha dedicato il saggio The Mystery of the Kibbutz: «Stanno resistendo da oltre un secolo e rappresentano un importante esperimento sulla condivisione. Permettono di capire i costi di questi sistemi, i loro limiti se tentiamo di riprodurli. Hanno funzionato perché sono formati da gruppi di piccole dimensioni. Quando cerchiamo di imporre il socialismo a livello di un’intera nazione, il più delle volte otteniamo uno Stato come l’Unione Sovietica con gravi limitazioni ai diritti umani. L’adesione alle regole del kibbutz è volontaria e questa è una grande differenza».
Si può anche decidere di andarsene. Come la madre che ci è cresciuta per poi scegliere la vita di fuori, insofferente verso la mancanza di privacy. «Ancora oggi quando le chiediamo “dove stai andando?”, replica: “Ho smesso di rispondere a questa domanda 45 anni fa dopo avere lasciato il kibbutz”». La nonna di Ran, al contrario, è rimasta fino all’ultimo a Negba, nel Sud di Israele: «La sua salute è peggiorata all’improvviso e anche se ha lavorato tutta la vita come sarta ha potuto ricevere aiuto ventiquattro ore su ventiquattro e con una compassione che i soldi non possono comprare. Considero questa assistenza uno dei vantaggi principali della condivisione egualitaria. Può essere riprodotta con un’assicurazione dalla copertura molto estesa (e molto cara) o grazie all’intervento della comunità allargata che si prende cura degli anziani. La prima è la soluzione adottata dalle società più ricche, la seconda è praticata nelle nazioni in via di sviluppo».
La ricchezza conta anche per i kibbutz. Gli stessi abitanti di Be’eri riconoscono il paradosso: hanno potuto preservare lo spirito socialista grazie ai profitti garantiti dal capitalismo globale. Fin dagli anni Cinquanta hanno sviluppato una fabbrica all’avanguardia per la stampa della plastica, che adesso – tra l’altro – produce le patenti di guida elettroniche portate in tasca da tutti gli israeliani. L’anno scorso le varie attività, anche quelle agricole, hanno generato 150 milioni di shekel (38 milioni di euro) in dividendi e ogni membro ha ricevuto quasi 65 mila euro. «Finché i kibbutz sono ricchi possono sostenere la parità di reddito, anche se si trasformano in società più complesse e industrializzate, in cui i componenti hanno occupazioni molto diverse, non solo lavorare nei campi. Più in generale direi che questa uguaglianza economica è realizzabile, se una nazione è ricca e/ o omogenea. Altrimenti emergono problemi come la fuga dei cervelli e il salario uguale per tutti diventa difficile da sostenere». I fondatori dei primi kibbutz erano «omogenei»: giovani ebrei immigrati in Medio Oriente dalle stesse zone dell’Europa, motivati dagli stessi ideali e spronati dagli stessi sogni. «L’uguaglianza è più raggiungibile in una società che sia meno differenziata etnicamente e religiosamente, dove gli individui condividono le preferenze per il modello di redistribuzione. In questo senso è più semplice implementare l’equità redistributiva e un generoso Welfare State in Svezia o Norvegia che negli Stati Uniti».
La Norvegia è uno degli esempi più citati nel saggio. «Non è un kibbutz perché è gestita attraverso l’economia di mercato, ma è una nazione dove le differenze salariali tra i manager e i lavoratori sono basse, dove lo Stato è in grado di offrire lunghi congedi parentali e l’assistenza sanitaria è gratuita. Questo sistema è garantito dalle risorse naturali (il gas) che hanno reso la Norvegia uno dei Paesi più ricchi del mondo. Finché è in grado di sostenere questa agiatezza, è improbabile che i più dotati scelgano di emigrare: possono ottenere stipendi più alti all’estero, non lo stesso livello di qualità della vita. Con una crisi economica tutto cambierebbe e sarebbe difficile trattenere i migliori: per evitare la fuga dei cervelli la Norvegia dovrebbe offrire incentivi a restare e ridurre il livello di uguaglianza».
È quello che ha prosciugato i kibbutz agli inizi degli anni Novanta, quando sono stati colpiti dalla crisi finanziaria, mentre il resto di Israele si allontanava dall’austerità sui cui è stato fondato: l’attrazione del mondo dall’altra parte della recinzione è diventata forte e le comunità hanno progressivamente perso compagni. Adesso questa tendenza si sta ribaltando e sono i giovani a tornare: forse con aspirazioni borghesi (le scuole buone, la piccola comunità tranquilla, i vialetti verdi e senza traffico) di sicuro in fuga dall’ingiustizia sociale: meglio mangiare insieme alla mensa comune che restare fuori dai ristoranti troppo cari.
Corriere della Sera, 27.10.2019