Si sprecano gli aggettivi negativi, ma in realtà sfugge a Repubblica l’eccezionalità di una donna laica che guida un partito sionista religioso (Kolòt)
Può il capriccio di una donna cambiare il destino politico di un Paese? Può se la donna in questione si chiama Sara Netanyahu ed è l’influente moglie del primo ministro uscente e candidato da battere alle prossime elezioni politiche israeliane, a settembre. Il veto di Sara, scrive il quotidiano Haaretz, sarebbe stata la causa della porta sbattuta in faccia dal premier alla sua ex braccio destro ed ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nelle settimane scorse aveva a più riprese chiesto di essere ammessa nel Likud, il partito di Netanyahu: un “no” tanto fermo che ha spinto Shaked a cercare altri lidi e a diventare una spina nel fianco per il suo ex mentore.
Shaked ha annunciato ieri che sarà lei a guidare “Destra Unita” la lista che unisce i partiti che si collocano alla destra del Likud che, secondo i sondaggi, alle urne conquisterà fra i 10 e i 12 seggi, diventando quindi fondamentale per la formazione del nuovo governo. Insieme a Shaked correranno alcuni dei big della destra israeliana: l’ex ministro dell’istruzione Naftali Bennett nonché due esponenti politici vicini al movimento dei coloni: Rafi Peretz e Bezalel Smotrich (rispettivamente n.2 e n.3 della nuova lista). La porta del movimento inoltre, ha spiegato la leader, resta aperta per Otzma Yehudit, il movimento radicale noto per le sue posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, a lungo considerato un impresentabile sulla scena politica israeliana.
Per la ex ministra della Giustizia, 43 anni, considerata da Forbes Israel «la più influente donna israeliana» e da Haaretz «la politica israeliana destinata ad aver maggior successo dai tempi di Golda Meir» è un clamoroso ritorno in primo piano, dopo aver perso la sua poltrona a causa di dissapori con il premier. Shaked e i suoi infatti si preparano a dettare condizioni chiare a Netanyahu in cambio del loro appoggio: la leader della lista potrebbe anche diventare ministro degli Esteri.
Un’ipotesi che fa tremare più di una cancelleria: nei suoi quattro anni da ministra infatti Shakel si è distinta per le posizioni durissime contro i palestinesi, per aver imposto alle Ong che operano in Israele regole di registrazione contestatissime e per aver collaborato alla stesura dei progetti di legge sulla limitazione dei poteri della Corte suprema e sul riconoscimento di Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, che esclude la popolazione di origine araba da molti diritti riservati ai cittadini di religione ebraica.
(la Repubblica, 30 luglio 2019)